«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
NON È UNA «SCONFITTA storica», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’ALTRA PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON BASTA fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».