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Al via il secondo bando della Regione: a disposizione 6 milioni arrivati dalla raccolta fondi “Un aiuto per l’Emilia-Romagna”. Sarà possibile richiedere i fondi anche per furgoni ad uso privato, auto rovinate dalle frane e quelle vendute a privati

Modalità e i termini per chiedere il rimborso del bollo per ...

Bologna, 27 luglio 2024 – La Regione Emilia Romagna ha comunicato l’apertura del secondo bando per i risarcimenti dei danni causati ai veicoli dall’alluvione del maggio 2023. Il rimborso riguarderà un maggior numero di mezzi dello scorso bando: verranno inclusi anche i furgoni a uso privato, le auto rovinate dalle frane, vendute a privati e il cui intestatario sia diverso purché dello stesso nucleo familiare. Stanziati 6 milioni per le nuove richieste, mentre 1 verrà impiegato per completare l’iter relativo al bando precedente. I devastanti effetti dell'alluvione che aveva sconvolto un'intera regione: furgoni, auto e motocicli non furono risparmiati dall'esondazione[Missing Credit] I contributi saranno...

 Per farlo, bisognerà inoltrare la domanda esclusivamente sull'apposito applicativo regionale online a partire dalle ore 10 del 18 settembre 2024, fino a esaurimento dei 6 milioni di euro disponibili. Il limite temporale ultimo è il 31 dicembre 2024

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La Geo Barents diretta a Genova con 165 migranti a bordo ...

E’ in arrivo a Ravenna la nave ong Geo Barents con a bordo 47 migranti: è attesa al porto mercoledì prossimo, 7 agosto, alle 19.40 circa. Attualmente si trova a 52 nm da Sabrata, zona ‘Sar Libia’. Il prefetto di Ravenna, Castrese De Rosa, ha quindi convocato per le 10 di stamattina in Prefettura una prima riunione di coordinamento per concordare con tutti gli enti coinvolti tempi e modalità per l’accoglienza delle persone recuperate dalla Geo Barents.

Quasi certamente, come già avvenuto per l’ultimo sbarco della Aita Mari il 19 luglio scorso, avverrà alla banchina di Fabbrica Vecchia a Marina di Ravenna, mentre le visite mediche e gli adempimenti di Polizia si svolgeranno al Pala De André.

Si tratta del 13esimo sbarco a Ravenna dal 31 dicembre 2022, il quarto per la Geo Barents; in totale così salgono 1.274 i migranti giunti al porto romagnolo. “La nostra- afferma De Rosa- è ormai una macchina collaudata che riesce a gestire queste situazioni con un grande spirito di squadra e umanitario e anche questa volta si farà trovare pronta per fare pienamente la sua parte”.

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LIBANO. Martedì nuovo discorso del leader sciita Nasrallah. Appelli ai cittadini stranieri: lasciate il Libano. Passa in sordina il quarto anniversario della strage al porto

Il volto di Nasrallah vicino all’edificio colpito da Israele martedì Ap/ Marwan Naamani Il volto di Nasrallah vicino all’edificio colpito da Israele martedì - Ap/ Marwan Naamani

«Chiediamo oggi quello che chiedevamo quattro anni fa: giustizia». È lapidaria Mariana Fodoulian, presidente dell’associazione «Familiari delle vittime» dell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020.

Tra le 235 vittime accertate c’era anche la sorella Gaia di 29 anni. 7mila i feriti, 300mila gli sfollati, mezza città sommersa dai pezzi di vetro della finestre esplose, da calcinacci e polvere. Alle 18.08, si sentono due boati, poi il fungo al porto.

LE 2.750 TONNELLATE di nitrato di ammonio, stoccate dal 2014 nell’hangar 12 del porto di Beirut, causano una delle più potenti esplosioni non nucleari della storia dell’umanità. Tutti avevano creduto a un attacco aereo e lo stesso presidente Aoun aveva nelle primissime ore parlato di un probabile bombardamento israeliano.

Dalle parole di Fodoulian viene fuori il racconto dell’ennesimo tentativo di insabbiamento e di ingiustizia perpetrata ai danni di innocenti. Il vecchio procuratore generale Ghassan Oueidat, dopo essere stato convocato dal giudice Bitar (il terzo dall’inizio del processo, ndr) come persona informata dei fatti, ha dato l’ordine di rilasciare tutte le persone fermate da Bitar, interferendo nei fatti nello svolgimento delle indagini. A febbraio, per limiti di età, è stato sostituito da Jamal Hajjar.

«C’è un tentativo di deviare il processo già difficile – dice al manifesto Fodoulian – Ouiedat ha rilasciato tutti e ha praticamente bloccato il processo. Chiediamo adesso al nuovo procuratore Jamal Hajjar di ritornare sulle decisioni del suo predecessore che noi e i nostri avvocati riteniamo illegali e di lasciar lavorare Bitar».

SONO INTANTO ORE molto complicate in Libano e nella regione intera. Il bombardamento martedì sera alla periferia a sud di Beirut, la Dahieh, roccaforte di Hezbollah, nel quale ha perso la vita il numero due della milizia/partito Fuad Shukr e altri cinque civili (un centinaio i feriti), poco prima dell’uccisione a Tehran del capo politico di Hamas Haniyeh, ha alzato il livello dello scontro tra Israele e il Partito di Dio, nonché quello con l’Iran e l’«Asse della resistenza».

L’attacco a Beirut è stato rivendicato dal premier israeliano Netanyahu come una reazione al missile che ha ucciso 12 tra bambini e ragazzi a Majdel Shams nel Golan occupato attribuito a Hezbollah, che però nega dal primo momento ogni coinvolgimento.

Si attendono ora tanto la risposta di Hezbollah quanto quella dell’Iran: da queste e dalla controffensiva di Israele dipende l’allargamento del conflitto alla regione e il coinvolgimento anche militare di attori regionali e internazionali. Sul fronte libanese, attivo dall’8 ottobre, vorrebbe dire allargare la guerra a tutto il paese e non più alle zone sotto in controllo di Hezbollah come il sud e l’est.

Secondo i media arabi e la Cnn, Hezbollah ha spostato parte del suo arsenale da Beirut verso sud per preparare l’annunciato attacco a Israele. Il leader Hassan Nasrallah terrà un discorso martedì alle 17 libanesi nel quale probabilmente chiarirà le intenzioni della milizia. Intanto continuano gli attacchi da una parte e dall’altra: ieri un ragazzo di 17 anni è morto in un bombardamento israeliano a Deir Sariane, nel sud del Libano, e altri sei ragazzi sono stati feriti.

HEZBOLLAH  ha fatto sapere di aver colpito delle basi militari a Metula e il villaggio di Shlomi; l’esercito israeliano ha bombardato Khiam, Kfar Kila, Aita el Shaab. Nel pomeriggio, un drone ha fatto saltare un veicolo sulla strada tra Damasco e Beirut all’altezza di Zabadani, in Siria. Un morto, non ancora identificato.

Ieri l’ambasciata svedese ha spostato i propri dipendenti a Cipro. Il capo della diplomazia britannica Lammy ha dichiarato: «Le tensioni sono elevate e la situazione potrebbe deteriorarsi rapidamente (…) Il mio messaggio per i cittadini britannici è chiaro: partite immediatamente». L’ambasciata degli Stati uniti ha aumentato il livello di allerta e ha pubblicato un nuovo comunicato nel quale invita i propri concittadini a lasciare il paese. Tutti invitano all’estrema prudenza.

LE COMPAGNIE aeree hanno ridotto i voli da e per l’unico aeroporto libanese che, se bombardato, isolerebbe completamente il paese. L’unica alternativa di terra sarebbe attraverso la Siria, paese ancora instabile per la lunga guerra civile e sotto tiro israeliano. Non ci sono collegamenti via mare, se non commerciali, da ancor prima del 4 agosto 2020.

Il quarto anniversario della catastrofe annunciata – numerosi era stati gli appelli formali a rimuovere il nitrato d’ammonio dal porto – rischia di passare in secondo piano per lasciare il posto a un’altra possibile catastrofe imminente: la tanto temuta e scongiurata guerra totale in Medio Oriente

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CARACAS. Come nel 2019 con Guaidó, un presidente eletto e uno proclamato all’estero. Agli Usa si accodano i governi di destra latinoamericani

Piazze contro piazze e giochi di diplomazie, Venezuela sotto tiro La manifestazione di Maria Corina Machado ieri a Caracas Ap

A cinque anni e mezzo dall’autoproclamazione di Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela, il paese si ritrova più o meno allo stesso punto: con un presidente proclamato dalle autorità elettorali, ritenute però non credibili dall’opposizione, e con un candidato considerato come il legittimo vincitore delle elezioni già da un certo numero di paesi.

A schierarsi con Edmundo González Urrutia, al momento, sono Argentina, Costa Rica, Ecuador, Panama, Perù e Uruguay, o ltre naturalmente agli Stati Uniti, i quali hanno così pregiudicato gli sforzi di Brasile, Colombia e Messico per trovare una soluzione concordata all’ennesima crisi venezuelana. Con l’aggravante, ha denunciato in conferenza stampa il presidente dell’Assemblea nazionale Jorge Rodríguez, di essersi basati «appena sul 31% dei verbali» pubblicati nel portale web dell’opposizione, e oltretutto, ha dichiarato, pieni di irregolarità (a cominciare dalla presenza, tra gli elettori, di persone già decedute).

UNA POSIZIONE peraltro bipartisan, quella degli Usa, come indica la risoluzione presentata al Congresso da un gruppo di parlamentari, tra cui il repubblicano Mario Díaz-Balart e la democratica Debbie Wasserman Schultz, che riconosce appunto la vittoria del candidato dell’opposizione.

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A DIFFERENZA però del gennaio 2019, quando Guaidó, allora presidente dell’Assemblea nazionale, si era dichiarato presidente pro-tempore nel corso di una manifestazione in piazza contro il governo, questa volta Maduro non ha ancora presentato – per la prima volta dall’avvento del chavismo nel 1999 – le prove della sua vittoria: se il Consiglio nazionale elettorale ha pubblicato venerdì un secondo bollettino elettorale, in base a cui, con quasi il 97% delle schede scrutinate, il presidente avrebbe ottenuto il 51,95% delle preferenze contro il 43,18% dell’avversario, non sono però ancora disponibili i verbali di seggio a cui chiedono di accedere con sempre maggiore insistenza quei governi progressisti che pure sarebbero ben lieti di schierarsi con Maduro.

COSÌ IL GOVERNO Lula, che aveva fatto dipendere il riconoscimento della sua vittoria proprio dalla pubblicazione della documentazione elettorale, comincia a trovarsi in una posizione un po’ scomoda. «La verità è che finora non abbiamo una visione chiara di quanto avvenuto, dal momento che gli atti elettorali non sono stati distribuiti come si sperava», ha dichiarato il consigliere speciale di Lula per gli affari esteri Celso Amorim, ritenendo tuttavia «difficile» che il Brasile possa riconoscere la vittoria di Edmundo González e condannando le «interferenze extraregionali».

«Ritengo che sia una questione latinoamericana e che debbano essere i latinoamericani a risolverla», ha evidenziando Amorim, definendo inoltre come un grosso «errore nordamericano» le sanzioni imposte al Venezuela: «il loro ritiro avrebbe facilitato lo svolgimento delle elezioni, così come avrebbe fatto la presenza dell’Unione europea, respinta da Maduro proprio a causa del mantenimento delle sanzioni».

Intanto, il Tribunale supremo di giustizia (Tsj) del Venezuela, attraverso la presidente Caryslia Rodríguez, ha chiesto al Cne di consegnare, entro i prossimi tre giorni, l’intera documentazione elettorale, compresi «tutti gli elementi di prova associati all’attacco hacker segnalato contro il sistema informatico del Cne». Ma è un’azione che difficilmente si rivelerà risolutiva, dal momento che il Tsj non è considerato imparziale dall’opposizione: non a caso, dei dieci candidati presidenziali, Edmundo González è stato l’unico a non rispondere alla convocazione del tribunale.

LA PAROLA, IERI, è passata però alle piazze, dove si sono fronteggiati i manifestanti pro e contro Maduro (nel momento in cui scriviamo le mobilitazioni sono ancora in corso). Alle proteste convocate dall’opposizione «in tutte le città», il Psuv, il Partito socialista unito del Venezuela, ha infatti risposto con una «grande marcia nazionale per la pace» a Caracas, iniziata da Avenida Libertador quattro ore più tardi. «Facciamo una grande mobilitazione e un grande concerto per la pace», era stato l’invito rivolto da Maduro a un gruppo di sostenitori dal cosiddetto «Balcone del Popolo» nel Palazzo di Miraflores a Caracas

 

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RIFORME. In audizione il professor Frosini svela i progetti della destra sulla legge elettorale. E quelli per preservarla dal rischio incostituzionalità

 Protesta dei senatori dell’opposizione durante le votazioni sull’elezione diretta del premier foto LaPresse

La ministra per le riforme Maria Elisabetta Casellati difficilmente si fa beccare in castagna. È sempre stata presente in Senato alle sedute della Commissione e dell’Aula sul premierato, senza mai farsi sostituire da un sottosegretario, e altrettanto sta facendo in Commissione Affari costituzionali della Camera, dove sta assistendo a tutte le audizioni, pur non essendo tenuta a farlo. A mettere in difficoltà lei, il governo e la maggioranza è stata l’eccessiva solerzia di uno dei costituzionalisti “amici” chiamato a difendere il testo. Il professor Tommaso Edoardo Frosini, docente di diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, martedì scorso in audizione ha svelato non solo la legge elettorale a cui la ministra sta lavorando, ma anche il piano per aggirare la quasi certa censura di incostituzionalità da parte della Consulta.

SULLA LEGGE ELETTORALE da accoppiare al premierato elettivo, Casellati aveva fatto capire nelle scorse settimane la direzione a cui stava lavorando, quella di una formula a turno unico, e infatti aveva citato «un sistema tipo Mattarellum o tipo Provincellum»: collegi uninominali a turno unico, così da evitare il ballottaggio inviso alla Lega. Frosini, che è tra i “consiglieri del principe” in materia ha esplicitato il tutto: ha «suggerito» – benché l’audizione non vertesse su questo – il Mattarellum usato per il Senato, vale a dire «il 75% dei seggi in collegi uninominali con recupero dei migliori perdenti» (in realtà la formula è più articolata e presenta diverse criticità).

«Il restante 25% – ha proseguito – che il Mattarellum prevedeva di distribuire in via proporzionale, può essere assegnato come quota di premio per la maggioranza. Ma una quota mobile, non fissa, fino al 25%». Quindi «se la maggioranza è autosufficiente con i collegi uninominali, cioè, giunga al 55% da sola, quel 25% andrà distribuito proporzionalmente ai migliori perdenti. Di quel 25% – ha spiegato – ne può servire il 10% per raggiungere il 55%, il che vuol dire che il restante 15% potrà essere distribuito proporzionalmente». E poi l’autoelogio: «Mi sembra una previsione di legge elettorale abbastanza equanime» ha chiosato. Quanta magnanimità! Vae victis, come disse Brenno.

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Non importa, come ha osservato il giorno dopo in audizione Peppino Calderisi, che si sommerebbero due meccanismi maggioritari (il collegio uninominale e il premio di maggioranza). E non importa che un altro giurista sostenitore del testo, chiamato in audizione dalla maggioranza, il professor Luca Longhi (docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università telematica Pegaso), abbia detto che l’elezione diretta richiede il ballottaggio. «Il ballottaggio non è dirimente – ha detto Frosini – si può eleggere come avviene per i presidenti di Regione anche a turno unico».

E LE SENTENZE della Corte costituzionale contro il Porcellum (la numero 1 del 2014) e contro l’Italicum (la numero 35 del 2017)? E qui nella foga laudatoria il professore si è lasciato scappare ciò che non doveva: «C’è l’obiezione che più volte viene evocata, francamente in maniera un po’ stantia, che ci sono le sentenze della Corte, ma che vuol dire? Primo: la Corte nel nostro sistema non ha l’obbligo del precedente, la Corte può cambiare la propria giurisprudenza, ci mancherebbe».

Per carità, ci mancherebbe! E poi la rivelazione del piano B della maggioranza: «Secondo, il collegio che giudicherà, ammesso e non concesso che arrivi alla Corte, sarà completamente diverso da quello che si è già pronunciato». Immediato sobbalzo dei parlamentari dell’opposizione. Il piano B è, trumpianamente, cambiare il collegio della Corte plasmandolo a propria immagine e somiglianza.

ECCO ALLORA SPIEGATA la resistenza della maggioranza a nominare il giudice costituzionale in sostituzione di Silvana Sciarra. Si è scritto e riscritto che le destre attendono che concludano a fine dicembre il loro mandato anche altri tre giudici (il presidente Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) di elezione parlamentare, così da puntare a una elezione a “pacchetto”: un giudice alle opposizioni (magari di M5s in passato incline ad accordi su Csm e Rai) e tre a se stessa per altrettanti giuristi di area pronti a ribaltare la giurisprudenza precedente in materia di legge elettorale. E magari tra essi ci potrebbe essere lo stesso Frosini

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combustibile da biomassa del futuro - biomasse foto e immagini stock

Al saviva tot”. Lo sapevate tutti. Detta così, in dialetto, al telefono, l’espressione intercettata nell’ambito dell’inchiesta “Bosco perduto” non lascia margine alle interpretazioni: tutti, secondo gli stessi interlocutori, erano a conoscenza che tra la centrale a biomassa Dister Energia con sede a Faenza e le due aziende fornitrici di legname, la manfreda Recywood e la forlivese Enerlegno, c’era un accordo per lucrare sugli incentivi statali destinati alle energie rinnovabili. Chi più, chi meno, conoscevano anche le proporzioni di quella che la Procura di Ravenna ha inquadrato come una truffa milionaria ai danni dello Stato. E temevano infine le possibili conseguenze, che in effetti si sono concretizzate in questi giorni: un sequestro pari a 7,7 milioni di euro e sette ordinanze interdittive nei confronti di tre manager della centrale e quattro dirigenti delle altre due aziende, che ora non potranno esercitare attività professionali, imprenditoriali o direttive in tutta la filiera delle energie rinnovabili e in qualsiasi altro settore agevolato da contributi pubblici.

Nelle conversazioni ascoltate dalle Fiamme gialle di Forlì e dai Carabinieri forestali, il nome di Mario Mazzotti torna più volte, ma lui al telefono non rilascia parole compromettenti. Un «apprezzabile indice di esperienza» forse maturato dai passati incarichi da amministratore rimarca il giudice per le indagini preliminari Corrado Schiaretti, che individua nel 67enne legale rappresentante della centrale a biomassa, «il vertice del meccanismo». Restio a parlare al telefono, lui, ma non i sodali, che per tutto il corso dell’inchiesta «cercano di salvaguardare Dister e il suo presidente dalle ricadute negative dell’indagine».

Con lui, altra figura centrale, è quella del responsabile di Recywood, il cui ruolo chiave consentiva, secondo l’accusa, di recuperare legno triturato per la centrale non tracciato e in teoria non soggetto agli incentivi, trasformandolo attraverso un gioco di prestigio di fatture false e bolle di trasporto doppie (una vera e una alterata per dribblare eventuali controlli) in carichi di legname da filiera corta, soggetti a incentivi statali massimi poiché in apparenza recuperati da aree boschive da diradare o frutteti da espiantare entro un raggio di 70 chilometri dalla centrale.

Proprio lui al telefono, comprendendo che l’inchiesta partita seguendo le tracce del legno sottratto indebitamente dalle Foreste Casentinesi rischiava di far scoprire la maxi frode, commenta: “Vediamo cosa potere tirare fuori dal cilindro”, per poi affrettarsi a precisare (secondo gli inquirenti temendo di essere intercettato) “ci sono stati degli errori, ma della malafede non c’è”.

 

Sempre lui, con il vicepresidente della Dister Energia, insiste sulla necessità di cercare “una strategia difensiva coi nostri avvocati” per trovare “la meno, diciamo, impattante per quello che sono gli effetti collaterali su Dister” temendo di “aprire un fronte che devo dire più ci penso più ritengo che sia possibile che si apra”. Ma l’inchiesta ormai è avviata. Tant’è che di lì a poco dilagano le raccomandazioni su una maggiore prudenza: “Eh, e al telefono è meglio che la gente faccia poche chiacchiere”.

Non mancano i diversivi per salvare la centrale, ritenuta dagli indagati la realtà più importante del gruppo. Come il tentativo di trovare un capro espiatorio: il direttore tecnico della Recywood, che in un consiglio di amministrazione del 2020 rassegna le dimissioni assumendosi la piena responsabilità. Un passaggio smascherato dalle successive reazioni dei colleghi a sostegno: “In realtà lo sapevano tutti come era”. Una cosa “grossettina”, ammette dal canto suo il direttore tecnico.

Trascorsi un paio di danni dalle prime avvisaglie, è ancora il vice della centrale a insistere sulla necessità di un incontro con i presidenti, ormai certo che dal problema del legname sottratto al Demanio dai boschi dell’Appennino si sarebbe aperto “il tema delle certificazioni... e quel tema lì può andare a cadere ovviamente su Dister”. Ma a quel punto le quantità erano ormai enormi: 100mila l’anno le tonnellate mimetizzate come “filiera corta”. Troppe per essere spacciate per un errore. Fossero state “100 tonnellate - continua il dirigente - al limite dici vabbè ha sbagliato, ma qui è un po’ dura”. L’unica alternativa, spiattellata sempre al telefono: dire “come stanno realmente le cose, anche coi nostri legali, e impostare una linea difensiva che sia quella che ci crea meno nemici in giro”. Già, perché anche altrove, così pare, tutti sapevano.

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