Un missile israeliano uccide a Teheran il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. In un colpo solo Netanyahu infiamma lo scontro con l’Iran e si fa beffe della diplomazia globale: dialogo su Gaza affossato, ostaggi sacrificati e l’intero Medio Oriente sull’orlo di un rogo
MEDIO ORIENTE. Haniyeh era in Iran per incontrare gli alleati. Medio Oriente sull’orlo della guerra totale. La Repubblica islamica promette di reagire, ma c’è chi spera che prevalga la via diplomatica
Teheran, in marcia per Haniyeh - Ap/Vahid Salemi
Il silenzio della calda notte del 30 luglio nel ricco quartiere nord della capitale iraniana viene interrotto da una forte esplosione alle 1.45 ora locale. Quattro ore dopo, un comunicato delle Guardie della Rivoluzione conferma l’assassinio di Ismail Haniyeh, leader dell’ufficio politico del movimento palestinese Hamas, e di una delle sue guardie del corpo.
Anche senza una dichiarazione ufficiale, è evidente il coinvolgimento israeliano, che segna un’importante escalation e aumenta i timori di una guerra totale in Medio Oriente. E che arriva meno di 24 ore dopo l’attacco israeliano, definito «operazione di assassinio mirato», contro il comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut.
HANIYEH si trovava in Iran per partecipare alla cerimonia di giuramento del neoeletto presidente iraniano, Masud Pezeshkian, a cui avevano preso parte decine di delegazioni straniere, tra cui ministri e funzionari di Cina, Turchia, Arabia saudita, Egitto e Sudafrica. «Il legame tra le orgogliose nazioni dell’Iran e della Palestina sarà più forte di prima, e il percorso della resistenza e della difesa degli oppressi sarà seguito con maggiore determinazione – ha scritto il neo-presidente iraniano – Difenderemo la nostra integrità territoriale, il nostro onore e la nostra dignità e faremo pentire gli occupanti codardi delle loro azioni».
Il leader supremo Ali Khamenei ha dichiarato: «Il regime criminale e terrorista sionista ha martirizzato il nostro caro ospite nella nostra casa e ci ha rattristati, ma ha anche preparato per sé una dura punizione». Da anni, Israele ricorre a sabotaggi, rapimenti e omicidi mirati sul territorio iraniano. Tuttavia, dopo la rappresaglia missilistica e con droni dell’Iran su territorio israeliano in risposta al bombardamento del suo consolato a Damasco, sembrava che la tensione fosse momentaneamente diminuita.
«L’uccisione del leader di Hamas sul suolo iraniano soddisfa sia i falchi israeliani, che non hanno remore nel creare una guerra totale e non si preoccupano nemmeno della vita dei loro ostaggi, sia i super-falchi del nostro regime, che vogliono affossare il nuovo governo riformista e mantenere i loro poteri e privilegi – spiega un analista iraniano al manifesto, che ha chiesto l’anonimato – La precisione dell’attacco mostra non solo il fallimento del nostro sistema di sicurezza, ma anche, con molte probabilità, la complicità all’interno dei servizi di sicurezza del paese e delle guardie del
Leggi tutto: Missile israeliano su Teheran, ucciso il capo politico di Hamas - di Francesca Luci
Commenta (0 Commenti)REAZIONI INTERNAZIONALI. Londra posticipa l’embargo alle armi per Tel Aviv. Lammy: «Servono per la difesa»
Mentre i servizi d’emergenza libanesi stanno ancora scavando sotto le macerie del palazzo colpito da un drone israeliano alla periferia meridionale di Beirut, dal mondo sono arrivate le prime reazioni.
Prudenti gli Usa che tramite la portavoce della Casa bianca, Karine Jean-Pierre, hanno dichiarato che «la guerra totale tra Israele e Libano si può ancora evitare» senza menzionare mai l’attacco di Tel Aviv. Poco dopo la Cnn ha rivelato, citando una fonte anonima, che il governo di Netanyahu aveva informato Washington in anticipo. La fonte della tv statunitense ha aggiunto che l’informazione è stata scambiata a livello degli apparati di sicurezza, ma non ha specificato quando sarebbe avvenuto lo scambio. Più perentoria la Russia, che dal ministero degli Esteri ha denunciato «un attacco che è una palese violazione del diritto internazionale».
TRA I PRIMI a prendere parola anche i rappresentanti italiani. La premier Meloni, da Pechino, si è detta «molto preoccupata per ciò che sta accadendo in Libano, per il rischio di un’escalation regionale, proprio mentre sembrava che ci potessero essere degli spiragli». Meloni ha anche dichiarato che la responsabilità è di quei «diversi soggetti regionali che puntano a un’escalation e che puntano sempre a costringere Israele a una reazione, lo dico anche per invitare Israele a non cadere in questa trappola». Da Roma, il ministro degli Esteri Tajani si è limitato a «sperare che sia soltanto una reazione di Israele e che non ci sia una escalation». Inoltre, data la presenza della missione Unifil nel sud del Paese che è guidata dai militari italiani, Tajani ha anche aggiunto che «i soldati italiani presenti in Libano sono messi in sicurezza ma come ho chiesto al ministro della Difesa, Guido Crosetto, vogliamo sapere dalle Nazioni unite che regole di ingaggio dare visto che la situazione sta cambiando di giorno in giorno».
Hamas e l’Iran hanno invece condannato subito il raid israeliano definendolo una «pericolosa escalation» e una «palese violazione» della sovranità del Libano.
PRIMA DELL’ATTACCO il governo britannico aveva deciso di ritirare la proposta di legge che ponesse l’embargo sull’esportazione di alcune armi a Israele, dato il conflitto in corso a Gaza. Ora invece, in seguito al razzo caduto sulle alture del Golan che ha ucciso 13 bambini in un campo da calcio e determinato la promessa di una reazione da parte di Israele, Londra ha cambiato idea. In una dichiarazione ai parlamentari britannici, il ministro degli Esteri, David Lammy, ha detto: «Sosteniamo il diritto di Israele a difendersi in linea con il diritto umanitario internazionale. Si trova in un momento difficile, minacciato da coloro che vogliono annientarlo». Lammy ha dichiarato che in termini di sospensione delle vendite vuole fare una distinzione tra le armi utilizzate da Israele per la guerra a Gaza e quelle utilizzate a scopo difensivo. Ma questa distinzione si sta rivelando più difficile da tracciare nella legge, oltre che politicamente impegnativa.
Commenta (0 Commenti)
Proclamato ieri come presidente per il periodo 2025-2031 presso la sede del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Nicolás Maduro ha ora di fronte a sé l’ardua sfida di convincere la parte del mondo che non lo ama di aver vinto legittimamente le presidenziali di domenica.
Non sarebbe stato comunque sufficiente, non lo è mai stato una sola volta, che il sistema elettorale venezuelano sia tra i più affidabili al mondo, sottoposto com’è a ben 16 verifiche prima, durante e dopo il voto alla presenza di rappresentanti di tutti i partiti e di osservatori nazionali e internazionali. Un sistema a prova di brogli, persino da parte di un governo che non si è fatto tanti scrupoli a ostacolare le candidature dei suoi avversari, specialmente quelle alla sua sinistra, e di impedire il voto a un enorme numero di venezuelani all’estero, presumibilmente poco propensi a sostenere Maduro.
LA BONTÀ del sistema di voto in Venezuela sarebbe in ogni caso irrilevante per la destra radicale, convinta, come già aveva evidenziato in campagna elettorale, che una vittoria di Maduro sarebbe stata possibile solo con i brogli. Coerente con il suo intento di non accettare altro risultato che non fosse quello gradito, María Corina Machado ha prontamente rivendicato la vittoria per sé e per il suo candidato: «Abbiamo raccolto più del 73% dei voti, e il nostro presidente eletto è Edmundo González», ha dichiarato in conferenza stampa, affermando che i voti per il candidato dell’opposizione supererebbero i 6 milioni e mezzo, contro i 2 milioni e 700mila (per l’esattezza, 759.256) per Maduro. Dati considerati non plausibili pure da chi non è necessariamente schierato con il governo.
Ma Machado è andata oltre, sostenendo di avere già la prova «matematica e incontrovertibile della vittoria», che sarà resa disponibile attraverso un portale web «a cui l’elettore venezuelano può accedere inserendo i propri dati personali e in cui potrà trovare la propria scheda, in modo tale che ciascun elettore potrà validare il proprio voto e vedere se corrisponde con quello che è stato inserito».
NELL’ATTESA, divampano in tutto il paese le proteste, anche violente, dell’opposizione – il cui portavoce Perkins Rocha parla di «almeno tre morti nelle contestazioni ad Aragua» -, finora controllate dalle forze di sicurezza. Mentre si mobilitano anche i sostenitori di Maduro, decisi a riconquistare le piazze cittadine.
A risultare decisiva, però, potrà essere solo la divulgazione dei dati ufficiali – i registri di voto di ciascuno degli oltre 30mila seggi – garantita dal procuratore generale del Venezuela Tarek William Saab «nelle prossime ore», non appena, evidentemente, sarà stata ripristinata la pagina web del Cne, ancora inaccessibile in seguito all’attacco informatico al sistema di trasmissione di dati denunciato da Maduro, che, secondo il procuratore, sarebbe stato coordinato dalla Macedonia del Nord (e per il quale Machado è stata indagata). Ma più le ore passano più è a rischio la credibilità del presidente in carica, il quale, da parte sua, denuncia un nuovo tentativo di golpe «di carattere fascista e controrivoluzionario», «una sorta di Guaidó 2.0».
E PROPRIO di questo Maduro avrebbe parlato con il consigliere speciale di Lula per gli affari internazionali Celso Amorim, che si incontra ancora a Caracas come osservatore elettorale per conto del governo brasiliano. «Ci sono vari gruppi di opposizione – gli avrebbe detto il presidente venezuelano – che vogliono un’alternativa democratica e pacifica. Ma questo è un gruppo fascista. Non ci troviamo di fronte a un’opposizione democratica, ma a una controrivoluzione violenta, fascista e criminale. Non mi stancherò di spiegarlo al mondo».
DIFFICILMENTE però il mondo si convincerà, senza i dati dettagliati della votazione, malgrado la cautela tutto sommato fin qui mostrata dal governo Biden, il quale sembra intenzionato a coordinarsi con altri governi latinoamericani e in particolare con il Brasile di Lula, con il quale sosterrà un colloquio telefonico proprio per discutere sulle elezioni in Venezuela. E non si convincerà di sicuro l’Unione europea, che in una dichiarazione piuttosto dura sull’intero processo elettorale – su cui l’Ungheria ha messo il veto – esclude qualsiasi riconoscimento «fino a quando non saranno pubblicati e verificati tutti i registri ufficiali dei seggi elettorali».
NEI CONFRONTI invece di chi non si è limitato a esprimere dubbi, ma ha denunciato più o meno esplicitamente eventuali brogli, la risposta del governo è stata molto decisa: è di ieri l’annuncio da parte di Maduro dell’espulsione del rappresentante diplomatico di Buenos Aires insieme a quelli di Cile, Costa Rica, Perù, Panama, Repubblica Dominicana e Uruguay, tutti accusati di «interferire» nel processo elettorale.
Israele bombarda Beirut e rivendica l’uccisione del numero 2 dell’ala militare di Hezbollah. Altre fonti smentiscono: Fouad Shukr è vivo. Almeno tre gli uccisi. La guerra è fuori controllo, il Medio Oriente è sul baratro. E la città drusa di Majdal Shams implora: «Fermatevi»
ISRAELE/LIBANO. Tel Aviv rivendica: abbiamo colpito Fouad Shukr, numero 2 dell’ala militare del gruppo. Ma altre fonti smentiscono: è vivo
Le macerie del palazzo colpito nel quartiere di Haret Hreik - foto Ap/Hussein Malla
Sono ore di grande confusione a Beirut, tra notizie e smentite. Dopo le sette di sera locali è risuonata una fortissima esplosione nella Dahieh, periferia a sud di Beirut a maggioranza sciita, roccaforte nella capitale di Hezbollah: è stato colpito l’ultimo piano di un palazzo nei pressi dell’ospedale Bahman, nel quartiere di Haret Hreik, centrato da un drone israeliano.
Subito dopo l’impatto, centinaia di abitanti del quartiere si sono riversati in strada, tra la paura e la curiosità di capire quale fosse stato l’effetto della tanto attesa e temuta ritorsione israeliana nei confronti di Hezbollah, dopo la morte sabato di 12 tra bambini e adolescenti nell’esplosione di un razzo a Majdal Shams, nel Golan siriano occupato.
La notizia che inizia a girare è che Fouad Shukr, numero due dell’ala militare di Hezbollah, è stato ucciso. «Il comandante responsabile dell’uccisione dei bambini a Majdal Shams è stato ucciso a Beirut», annuncia il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari su X subito dopo l’esplosione.
Per Haaretz «l’obiettivo dell’attacco israeliano a Beirut è Fouad Shukr, conosciuto anche come Hajj Mouhassin (…) considerato il numero due di Hezbollah e responsabile delle operazioni militari dell’organizzazione». Sempre su X la brevissima rivendicazione di Gallant, ministro della difesa israeliano: «Hezbollah ha attraversato la linea rossa». Notizie poi smentite dalla Reuters e da fonti interne di Hezbollah meno di un’ora dopo. Hajj Mouhassin morto o vivo non è il punto: colpisce l’approssimazione con cui viene da subito data la notizia da fonti governative israeliane – non solo dai giornali -, mettendo in evidenza la grande fretta di chiudere la partita prima ancora di avere notizie certe e una irrequietudine da parte del governo e dell’esercito israeliano.
Alle 10 di ieri sera non era nemmeno chiaro il numero dei feriti, mentre sarebbero due o tre i morti, tra loro una donna. L’uccisione di Shukr avrebbe dovuto rappresentare il secondo e importantissimo colpo messo a segno nella capitale libanese dall’inizio di questo conflitto l’8 ottobre, dopo l’uccisione di Saleh al Aruri, numero due di Hamas colpito il 2 gennaio nel quartier generale di Hamas a Mshrafieh, sempre nella Dahieh.
GLI STATI UNITI – che secondo la Cnn erano stati avvisati da Israele dell’attacco – avevano offerto
Leggi tutto: Israele bombarda Beirut: ucciso un leader di Hezbollah, forse - di Pasquale Porciello
Commenta (0 Commenti)UN'ORA E MEZZA DI COLLOQUIO CON XI. Prima si chiamava Belt and Road, ora piano d’azione Italia-Cina. Cambiano i nomi, ma non il sogno di Palazzo Chigi, da chiunque sia abitato: aumentare le esportazioni sul mercato cinese […]
Prima si chiamava Belt and Road, ora piano d’azione Italia-Cina. Cambiano i nomi, ma non il sogno di Palazzo Chigi, da chiunque sia abitato: aumentare le esportazioni sul mercato cinese e attirare maggiori investimenti cinesi in Italia. Giorgia Meloni compresa, che i media cinesi ora elogiano per la sua «strategia pragmatica» che l’ha portata a proporre il programma triennale di rafforzamento dei partenariato strategico tra i due paesi. Una «contropartita» dopo l’addio all’iniziativa coniata da Xi Jinping.
Il leader cinese accoglie la presidente del Consiglio alla Diaoyutai State Guest House, dopo aver camminato qualche ora prima sul tappeto rosso di piazza Tiananmen ricevendo José Ramos-Horta, presidente di Timor Est, che in quanto capo di stato ha anche l’onore di 21 colpi di cannone della guardia d’onore.
Il colloquio tra Meloni e Xi dura circa 90 minuti, prima di una cena offerta dal presidente cinese. La premier ha definito la Cina un «partner economico, commerciale e culturale di grande rilievo». Non manca il riferimento al «canale aperto 700 anni fa da Marco Polo», figura sul cui viaggio ha inaugurato qualche ora prima una mostra al World Art Museum. Meloni chiede di «ragionare insieme» di «come garantire un interscambio che continui a essere libero, perché per farlo abbiamo bisogno soprattutto che rimanga stabile il sistema di regole internazionale». A proposito di equilibri globali, la premier ritiene che la Cina sia «inevitabilmente un interlocutore molto importante» per garantire «stabilità e pace». Secondo Palazzo Chigi, si è parlato tra le altre cose di Ucraina, Medio oriente e «crescenti tensioni nell’Indo-Pacifico». Ma il comunicato di Pechino non menziona alcun dossier internazionale tra i temi affrontati. Un segnale che forse non si ritiene l’Italia un interlocutore cruciale dal punto di vista strategico.
Come spesso accade quando si tratta dell’Italia, il tono di Xi ha un afflato storico. «Gli scambi amichevoli di lunga data tra i due paesi hanno dato un contributo importante agli scambi e all’apprendimento reciproco tra le civiltà orientali e occidentali e allo sviluppo e al progresso», dice il leader cinese, che poi chiede di «sostenere e portare avanti lo spirito della Via della Seta».
Il riferimento è in questo caso non tanto alla Belt and Road, in italiano tradotta in modo romanticheggiante, ma proprio all’antica Via della Seta, che secondo Xi deve aiutare a «vedere e sviluppare le relazioni bilaterali da una prospettiva storica, strategica e a lungo termine». Sembra quasi un implicito richiamo a una maggiore prevedibilità, dopo le accelerazioni del governo gialloverde e le retromarce di Conte bis e Draghi. Dopo aver chiesto facilitazioni ai visti per i cinesi (dopo il lancio da parte di Pechino dei free visa per gli italiani), Xi chiede a Meloni di «svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere il dialogo e la cooperazione Cina-Ue».
Meloni, che si è detta contraria a disaccoppiamento e protezionismo, ha invece parlato di relazioni economiche col premier Li Qiang. Oltre al piano d’azione triennale, firmato il memorandum di partenariato tra i rispettivi ministeri dell’Industria. Tra gli ambiti di cooperazione, citati i veicoli elettrici, l’energia rinnovabile e l’intelligenza artificiale. Ma i dettagli concreti al momento scarseggiano, così come non è arrivato l’atteso annuncio per un impianto di produzione in Italia di uno dei colossi delle auto elettriche cinesi. Insomma, Meloni è riuscita a tenere aperta la porta del dialogo con la Cina. Ma per spalancarla bisognerà attendere la visita di Sergio Mattarella a novembre
Commenta (0 Commenti)SEPARATI IN CASA. Il leader prepara l’assemblea costituente di ottobre, il fondatore studia la prossima mossa
Giuseppe Conte e Beppe Grillo - LaPresse
Vista dal lato di Giuseppe Conte, potrebbe essere la mossa finale. Dopo aver sbaragliato tutta la vecchia guardia del Movimento 5 Stelle, fatto fuori il baraccone ideologico prima che tecnologico di Rousseau e Casaleggio, mandato in archivio per sempre il divieto assoluto di alleanze pronunciato da Gianroberto al debutto in parlamento, superato (pare) per sempre lo schema «né di destra né di sinistra», il leader è arrivato allo scontro con Beppe Grillo. Perché di questo si tratta, come confermano i contiani di stretta osservanza: ne resterà soltanto uno.
TRA I DUE non erano mancati i precedenti. Ormai tre anni fa, Il Fondatore aveva dovuto ricevere l’Avvocato a Bibbona davanti a una spigola per siglare la pace. Questa volta, raccontano da via Campo Marzio, si è andato oltre. I due fino a poco tempo fa ciclicamente si sentivano, con Grillo tenuto a bada dal contratto di 300 euro all’anno per la consulenza alla comunicazione del M5S. Quest’ultimo, a quanto risulta, ha interrotto le comunicazioni dopo il risultato deludente elezioni europee, quando ha detto che «Conte ha preso meno voti che Berlusconi da morto». Si è poi fatto risentire qualche giorno fa con la lettera che doveva servire a ribadire il suo ruolo: prima del processo costituente lanciato dopo il flop elettorale, era la richiesta, Conte e un gruppetto di pochi altri avrebbero dovuto definire le priorità con il Garante. Un passaggio a monte del confronto collettivo.
L’EX PREMIER ne ha approfittato per far saltare gli equilibri, e scaricare addosso a Grillo i temi identitari (in passato spesso trasformati in feticci inservibili dalle fumisterie digitali di Casaleggio) della partecipazione e della trasparenza. In questo modo, Conte si è intestato il ruolo di condottiero e di garante della democrazia interna. Difficile che Grillo possa tollerare questa invasione di campo. Il leader sostiene che tutti devono mettersi in discussione e ne approfitta per ricordare (con un tono passivo-aggressivo che deve provenire dalla sua esperienza nei tribunali) che se il M5S è in crisi di consensi ciò è dovuto anche agli errori del passato, come quello (ascrivibile a Grillo) di aver sostenuto Draghi e di aver proposto al decisivo ministero della transizione ecologica il nuclearista Roberto Cingolani. «Purtroppo la genuinità e coerenza del nostro impegno politico è stato offuscato dall’appoggio al governo Draghi – ha sottolineato Conte – che ci ha costretti nella scomoda posizione di dover votare molti provvedimenti che non erano affatto in linea con la richiesta di cambiamento dei nostri elettori». Grillo dice che un M5S che genericamente si richiama alla pace e dalla giustizia sociale (non a caso, i due temi che hanno spinto i neo-eletti in Europa ad entrare nel gruppo di The Left) diventa indistinguibile dalle altre forze politiche. «Oggi le stelle sono diventate un firmamento, che sarà anche bello, ma le cui stelle appaiono indistinguibili l’una dall’altra. Per renderle tali occorre, a mio avviso, tornare alla semplicità e alla chiarezza di un tempo». È quello che sostiene anche il nostalgico Danilo Toninelli, che ieri ha invocato un «ritorno al Partito del Vaffa». La stragrande maggioranza dei parlamentari, e quelli che in questi anni hanno seguito Conte, considerano invece quella fase ampiamente conclusa.
ECCO PERCHÉ Conte tira dritto, anche se difficilmente Grillo si fermerà qui. Giovedì si riunirà il Consiglio nazionale, l’organismo composto da una ventina di persone che oltre ai cinque vicepresidenti è espressione dei parlamentari e dei vari comitati localie tematici, allo scopo di lanciare l’assemblea costituente che si terrà per tre giorni, probabilmente a Roma, a partire dal 4 ottobre. L’idea di Conte è che gli iscritti non dovranno esprimersi su argomenti proposti dai vertici, ma dovranno scegliere loro stesso i temi che considerano decisivi: «Dopo la democrazia diretta si apre la fase della democrazia partecipata», spiegano quelli che stanno lavorando all’evento. Il processo verrà gestito da Avventura Urbana, l’azienda specializzata che già aveva collaborato con i 5 Stelle ai tempi degli Stati generali del 2020, quando Rousseau venne messo di lato per la prima volta. Poco dopo, in verità, arrivo Giuseppe Conte alla presidenza, e tutto cambiò ancora
Commenta (0 Commenti)