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CARACAS. Come nel 2019 con Guaidó, un presidente eletto e uno proclamato all’estero. Agli Usa si accodano i governi di destra latinoamericani

Piazze contro piazze e giochi di diplomazie, Venezuela sotto tiro La manifestazione di Maria Corina Machado ieri a Caracas Ap

A cinque anni e mezzo dall’autoproclamazione di Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela, il paese si ritrova più o meno allo stesso punto: con un presidente proclamato dalle autorità elettorali, ritenute però non credibili dall’opposizione, e con un candidato considerato come il legittimo vincitore delle elezioni già da un certo numero di paesi.

A schierarsi con Edmundo González Urrutia, al momento, sono Argentina, Costa Rica, Ecuador, Panama, Perù e Uruguay, o ltre naturalmente agli Stati Uniti, i quali hanno così pregiudicato gli sforzi di Brasile, Colombia e Messico per trovare una soluzione concordata all’ennesima crisi venezuelana. Con l’aggravante, ha denunciato in conferenza stampa il presidente dell’Assemblea nazionale Jorge Rodríguez, di essersi basati «appena sul 31% dei verbali» pubblicati nel portale web dell’opposizione, e oltretutto, ha dichiarato, pieni di irregolarità (a cominciare dalla presenza, tra gli elettori, di persone già decedute).

UNA POSIZIONE peraltro bipartisan, quella degli Usa, come indica la risoluzione presentata al Congresso da un gruppo di parlamentari, tra cui il repubblicano Mario Díaz-Balart e la democratica Debbie Wasserman Schultz, che riconosce appunto la vittoria del candidato dell’opposizione.

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A DIFFERENZA però del gennaio 2019, quando Guaidó, allora presidente dell’Assemblea nazionale, si era dichiarato presidente pro-tempore nel corso di una manifestazione in piazza contro il governo, questa volta Maduro non ha ancora presentato – per la prima volta dall’avvento del chavismo nel 1999 – le prove della sua vittoria: se il Consiglio nazionale elettorale ha pubblicato venerdì un secondo bollettino elettorale, in base a cui, con quasi il 97% delle schede scrutinate, il presidente avrebbe ottenuto il 51,95% delle preferenze contro il 43,18% dell’avversario, non sono però ancora disponibili i verbali di seggio a cui chiedono di accedere con sempre maggiore insistenza quei governi progressisti che pure sarebbero ben lieti di schierarsi con Maduro.

COSÌ IL GOVERNO Lula, che aveva fatto dipendere il riconoscimento della sua vittoria proprio dalla pubblicazione della documentazione elettorale, comincia a trovarsi in una posizione un po’ scomoda. «La verità è che finora non abbiamo una visione chiara di quanto avvenuto, dal momento che gli atti elettorali non sono stati distribuiti come si sperava», ha dichiarato il consigliere speciale di Lula per gli affari esteri Celso Amorim, ritenendo tuttavia «difficile» che il Brasile possa riconoscere la vittoria di Edmundo González e condannando le «interferenze extraregionali».

«Ritengo che sia una questione latinoamericana e che debbano essere i latinoamericani a risolverla», ha evidenziando Amorim, definendo inoltre come un grosso «errore nordamericano» le sanzioni imposte al Venezuela: «il loro ritiro avrebbe facilitato lo svolgimento delle elezioni, così come avrebbe fatto la presenza dell’Unione europea, respinta da Maduro proprio a causa del mantenimento delle sanzioni».

Intanto, il Tribunale supremo di giustizia (Tsj) del Venezuela, attraverso la presidente Caryslia Rodríguez, ha chiesto al Cne di consegnare, entro i prossimi tre giorni, l’intera documentazione elettorale, compresi «tutti gli elementi di prova associati all’attacco hacker segnalato contro il sistema informatico del Cne». Ma è un’azione che difficilmente si rivelerà risolutiva, dal momento che il Tsj non è considerato imparziale dall’opposizione: non a caso, dei dieci candidati presidenziali, Edmundo González è stato l’unico a non rispondere alla convocazione del tribunale.

LA PAROLA, IERI, è passata però alle piazze, dove si sono fronteggiati i manifestanti pro e contro Maduro (nel momento in cui scriviamo le mobilitazioni sono ancora in corso). Alle proteste convocate dall’opposizione «in tutte le città», il Psuv, il Partito socialista unito del Venezuela, ha infatti risposto con una «grande marcia nazionale per la pace» a Caracas, iniziata da Avenida Libertador quattro ore più tardi. «Facciamo una grande mobilitazione e un grande concerto per la pace», era stato l’invito rivolto da Maduro a un gruppo di sostenitori dal cosiddetto «Balcone del Popolo» nel Palazzo di Miraflores a Caracas