LI FERMI CHI PUÒ. Il partito sciita libanese è deciso a vendicare l’assassinio di Shukr. In Qatar sepolto Haniyeh. Biden: la sua uccisione non aiuta
L’oscurità è scesa ieri sulla costa orientale mediterranea segnando l’inizio di una notte considerata da molti in Israele e Libano decisiva per la risposta di Hezbollah – annunciata giovedì dallo stesso leader sciita Hassan Nasrallah – all’assassinio del suo comandante militare Fuad Suk assieme a quella dell’Iran per l’uccisione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Solo questa mattina sapremo la concretezza di quelle sensazioni. Ad altri invece l’attacco a Israele, responsabile delle due uccisioni, non appare una questione di ore. Ski News Arabia, ad esempio, citando fonti di intelligence occidentali, ha detto che l’azione coordinata di Hezbollah, Iran e altre forze contro Israele scatterà tra il 12 e il 13 agosto, nel giorno Ticha B’Av quando si commemora la distruzione del Tempio ebraico.
Indiscrezioni riferiscono di Hezbollah starebbe spostando, in vista di una guerra totale con Israele, equipaggiamento militare e centri di comando dalla periferia sud di Beirut, la sua roccaforte, nel centro della capitale libanese. I libanesi si sono convinti che una nuova guerra sia inevitabile dopo l’uccisione di Fuad Shukr, ma la maggioranza dei cittadini ritiene che durerà poco e sarà distruttiva solo nelle aree del paese controllate da Hezbollah. Un’ipotesi che potrebbe rivelarsi drammaticamente inesatta.
In Israele non sono state ancora date ai civili le istruzioni che di solito accompagnano queste circostanze. Il Fronte interno dell’esercito ha comunicato poche cose alla popolazione, tra queste le frequenze in Fm sulle quali sintonizzare le vecchie radio chiuse da anni nel ripostiglio di casa in modo da ricevere istruzioni dalla Protezione civile durante la possibile guerra. Gli israeliani credono che Hezbollah farà il possibile, se ci sarà una guerra ampia, per colpire con i suoi razzi e droni la rete elettrica, quella della telefonia mobile e Internet. Timore confermato dalla notizia che il premier Netanyahu e i ministri hanno ricevuto giovedì sera telefoni satellitari da usare in caso di emergenza in alternativa ai cellulari. Gli israeliani fanno provvista di acqua e di alimentari ma senza particolare agitazione e comunque esiste un elenco di supermercati che rimarranno aperti sempre, anche in caso di guerra. Intanto sulle strade del paese continuano i movimenti di giganteschi autocarri che trasportano i missili antiaerei Patriot da sud alla Galilea, nel nord. Gli ospedali si sono organizzati per l’afflusso di un gran numero di feriti e hanno allestito dipartimenti d’emergenza nei parcheggi sotterranei.
Tra i palestinesi l’ansia della guerra non c’è. Almeno non tra quelli della Cisgiordania e Gerusalemme Est. E non solo perché ritengono che attacchi e rappresaglie militari interesseranno marginalmente i Territori occupati. Per i palestinesi, lo scontro di Israele con Iran e Hezbollah si inserisce in un quadro già tragico in cui Gaza è stata distrutta in gran parte e almeno 40mila persone sono state uccise dai bombardamenti aerei e dall’avanzata delle forze corazzate israeliane. Quindi, il conflitto in arrivo per i palestinesi è solo un tassello di una situazione catastrofica. «Come può preoccuparci una guerra al nord quando ogni giorno vediamo bambini uccisi dalle bombe israeliane a Gaza, case rase al suolo e la nostra gente che soffre per la fame e le malattie. La guerra l’abbiamo già in Cisgiordania da lungo tempo. L’esercito israeliano entra ed esce dalle nostre città e uccide tanti giovani. Anche qui a Gerusalemme Est affrontiamo tanti problemi», ci diceva ieri Tareq Abu Kias (non è il nome vero), un abitante di Silwan, popoloso quartiere palestinese ai piedi delle mura della città vecchia.
Venerdì di preghiera per i musulmani, così ieri tanti palestinesi hanno recitato il corano in segno di lutto per l’assassinio di Ismail Haniyeh. Soprattutto a Gaza dove il capo di Hamas era nato e aveva vissuto gran parte della vita nel campo profughi di Shate. Dalla Striscia sono giunte immagini di persone che pregano in ogni spazio possibile e commemorano Haniyeh. Se Israele intende «sradicare» Hamas da Gaza, come tante volte ha proclamato Netanyahu, uccidendo il suo capo politico lo ha solo reso più popolare tra i palestinesi. Ieri, il movimento islamico e altre organizzazioni combattenti, sono state in grado di lanciare 18 razzi verso il territorio israeliano, dimostrando di avere ancora risorse e forze. Joe Biden ha detto a Netanyahu che l’uccisione di Haniyeh non aiuta la trattativa per la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza. Centinaia di persone ieri si sono riunite nella più grande moschea a Doha, in Qatar, per pregare in memoria del capo di Hamas. La salma di Haniyeh giunta da Teheran, avvolta dalla bandiera palestinese, è trasferita al cimitero di Lusail, a nord di Doha, per la sepoltura. La Turchia ha messo la sua bandiera a mezz’asta all’ambasciata di Tel Aviv e al consolato di Gerusalemme scatenando l’ira di Israele.
Il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat scriveva ieri che Israele negli ultimi giorni non ha ucciso soltanto Shukr, Haniyeh e il capo militare di Hamas, Mohammed Deif (notizia smentita dal movimento islamico). Nei giorni scorsi, riferisce il giornale, Tel Aviv avrebbe colpito a morte, in un tunnel sotterraneo, due dirigenti del politburo di Hamas, tra cui Rahwi Mushtaha, e tre ufficiali delle Brigate Al Qassam. «Fate sapere a chi attacca i cittadini dello Stato di Israele che siamo pronti ad andare lontano, a raccogliere informazioni molto precise, a colpire e a uccidere», ha detto minaccioso il capo di Stato maggiore Herzi Halevi parlando con i riservisti dell’esercito nel Corridoio Netzarim costruito da Israele e che taglia in due orizzontalmente la Striscia. «Abbiamo colpito a Beirut e stiamo colpendo a Gaza, saremo molto forti in difesa e poi colpiremo con forza», ha aggiunto. Sul colpire non ci sono dubbi, e a perdere la vita sono quasi sempre i civili palestinesi. A Gaza city quattro membri della famiglia Abu Hashem sono stati uccisi da una bomba. I palestinesi denunciano inoltre la morte in carcere in Israele di Omar Jneid, 26 anni, a causa, affermano, di abusi e maltrattamenti
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L'ANNIVERSARIO. Il messaggio da Parigi: «Da Bolognesi parole gravi e pericolose» Scontro duro anche con il Pd. Schlein: «Operazione deplorevole». Mattarella e la bomba: «Strategia eversiva neofascista per aggredire la libertà degli italiani»
Botta, risposta e furiosa polemica tra il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna Paolo Bolognesi e la premier Giorgia Meloni. Il quarantaquattresimo anniversario della bomba che provocò 85 morti e oltre 200 feriti diventa così l’ennesimo episodio di scontro sulla memoria repubblicana. Ad aver infiammato la premier sono state queste parole dette da Bolognesi: «Le radici di quell’attentato affondano nella storia del postfascismo italiano: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di governo». E ancora, sulla stretta attualità: «La separazione delle carriere dei magistrati era un progetto della P2», cioè della loggia massonica che secondo gli inquirenti di Bologna avrebbe organizzato e finanziato la strage.
DURA LA REPLICA di Meloni, che si dice «profondamente e personalmente colpita» da quelli che ritiene «attacchi ingiustificati»: «Sostenere che le “radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”, o che la riforma della giustizia varata da questo governo sia ispirata dai progetti della loggia massonica P2, è molto grave. Ed è pericoloso, anche per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa Nazione». In apertura anche un altro passaggio controverso, là dove si parla della strage «che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste». Un giro di parole poco prima utilizzato anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa. La verità, in sostanza, è solo giudiziaria, non necessariamente anche storica: sembra una sfumatura, ma è quasi mezzo secolo che l’equivoco prospera.
Un passo indietro rispetto a quanto sostenuto dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi nella sua intervista uscita ieri sul Corriere della Sera, in cui la definizione è netta: «Strage neofascista». A voler essere precisi, però, anche in questo discorso manca un particolare: la partecipazione di pezzi dello stato, a partire da Federico Umberto d’Amato, forse il poliziotto più celebre della storia italiana. Un passaggio che troppo spesso viene dimenticato.
AD OGNI MODO, le parole di Meloni hanno scatenato diverse reazioni, a partire da quella della segretaria del Pd Elly Schlein: «Fare la vittima attaccando il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime nel giorno in cui si commemorano gli 85 morti e i 200 feriti dell’infame strage neofascista alla stazione di Bologna è un’operazione deplorevole», ha detto. E
Leggi tutto: Strage di Bologna, Meloni attacca i parenti delle vittime - di Mario Di Vito
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Macerie di un edificio a Khan Younis dopo un attacco israeliano - Ap
Trecento giorni fa iniziava il massacro dei palestinesi di Gaza. Da allora 39.480 persone sono state uccise, 10 mila disperse, 91.128 ferite. Insieme compongono il 6% dei 2.2 milioni abitanti della Striscia (cifra pre-guerra). Le statistiche, però, non raccontano tutto. O meglio, siamo noi che fatichiamo a cogliere il racconto nella sua interezza, a ricordarci che anche un numero così grande come 39.480 è composto da tanti uno e che quegli uno sono persone in carne e ossa. Il ricercatore dell’università dell’Oregon Paul Slovic parla di “intorpidimento psichico”, un fenomeno umano secondo il quale ci viene molto più facile provare compassione per un singolo individuo che per un gruppo di persone. Più i numeri salgono, più diventiamo insensibili alla tragedia.
Fra gli uccisi, 16.314 sono bambini. Una di loro è Dounia, dodici anni, era all’ospedale Nasser di Khan Younis quando una granata da carrarmato ha colpito il dipartimento pediatrico dove era ricoverata. Prima di perdere la vita, aveva perso i genitori, il fratello e la sorella in un attacco aereo che la aveva lasciata senza una gamba.
Almeno 35 persone sono morte di fame, la maggior parte di loro erano bambini. Secondo degli esperti incaricati dall’Onu, la grave malnutrizione ora non colpisce più solo il nord di Gaza, ma si è diffusa nel centro e nel sud della Striscia. Colpevoli sono gli incessanti attacchi israeliani che non conoscono “zone sicure”: dall’offensiva militare del 5 maggio sulla città meridionale di Rafah, gli aiuti umanitari entranti a Gaza sono diminuiti del 67%, stimava l’Onu a fine maggio. Secondo il database Unrwa, se 5.671 camion di aiuti umanitari hanno raggiunto la Striscia nel mese di aprile, sono solo 909 i camion consegnati a luglio. Più di sei volte meno rispetto a una quantità che era comunque ampiamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari della popolazione.
Israele ha sganciato 82 mila tonnellate di esplosivo contro Gaza dall’inizio del conflitto, riporta Al-Jazeera. Queste hanno raso al suolo 150 mila unità abitative. Il Burj al-Taj 3 era un edificio residenziale moderno nel centro di Gaza city che ospitava trecento persone divise in trenta appartamenti. Viene fatto esplodere il 25 ottobre e la scena è catturata da un video pubblicato dall’esercito israeliano. La didascalia: “attacco a un tunnel terroristico di Hamas”. Le testimonianze dei sopravvissuti compaiono in un’inchiesta di Der Spiegel, secondo la quale nel seminterrato dell’edificio viveva la famiglia Balousha; genitori, nonno, zia e sette ragazzini. Vengono tutti seppelliti dalle macerie, la madre Rawan non riesce a muoversi ma continua a respirare, sua figlia diciottenne Nagham è insieme al nonno in una cavità che si è creata sotto i detriti. Sentono la sorella dodicenne Lee allucinare e poi tacere all’improvviso. Nagham urla chiedendo aiuto per ore e, dopo un po’, un trattore per poco non la schiaccia. Solo dopo 24 ore lei, la madre e il nonno vengono soccorsi: sono gli unici sopravvissuti.
Le bombe hanno completamente distrutto anche 206 siti archeologici, 3 chiese e 610 moschee. Della moschea più antica di Gaza, conosciuta come Grande Moschea Omari, rimangono solo rovine dopo un attacco aereo israeliano: era stata eretta nel settimo secolo sul sito di una chiesa bizantina e, danneggiata diverse volte nel corso degli anni da conflitti – i britannici la hanno bombardata durante la Prima guerra mondiale – e da un terremoto, è sempre stata riscostruita.
117 fra scuole e università di Gaza non esistono più, mentre altre 117 sono state parzialmente distrutte o rese inabitabili. A soli 100 giorni dall’inizio dell’offensiva, nessuna struttura universitaria era funzionante. Gli esperti delle Nazioni unite parlano di “scolasticidio”, ritenendo «ragionevole chiedersi se ci sia un tentativo intenzionale di distruggere completamente il sistema educativo palestinese».
Quando Israele ha ucciso sette operatori umanitari della World central kitchen il primo aprile, lo ha definito come «un incidente isolato». Human rights watch (Hrw) ha invece identificato almeno altri sette casi in cui membri di organizzazioni umanitarie come Medici senza frontiere o agenzie Onu come Unrwa sono state attaccati dopo aver coordinato il loro accesso con le autorità israeliane. L’8 gennaio un proiettile israeliano ha ucciso la figlia di 5 anni di un operatore di Msf che si trovava in un edificio a Khan Younis con altri 100 operatori dell’associazione.
I giornalisti sul campo sono stati e sono tutt’ora fondamentali nel riportare gli orrori quotidiani di Gaza. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), che parla di un «evidente tendenza a bersagliare i giornalisti e le loro famiglie», almeno 111 sono stati uccisi dall’inizio di ottobre. Per il governo di Gaza, il bilancio sale a 165. Due giorni fa il giornalista di Al-Jazeera Ismail al-Ghoul e il suo cameraman Rami al-Rifi sono stati ammazzati a Gaza ovest da un attacco aereo israeliano contro la loro vettura. La loro collega Hind Khoudary riferisce l’accaduto da Deir al-Balah sottolineando che «facciamo tutto il possibile, indossiamo le casacche blu della stampa, gli elmetti, non andiamo in luoghi non sicuri ma veniamo presi di mira in posti normali dove ci sono cittadini normali»
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A Teheran i funerali del capo di Hamas. L’Iran giura vendetta, Hezbollah: «Piangerete». E Israele prepara l’invasione del Libano. Trecento giorni di guerra a Gaza non bastano alle diplomazie globali: Medio Oriente sull’orlo di una guerra ancora più grande
LI FERMI CHI PUÒ. Discorso incendiario del leader di Hezbollah ai funerali di Shukr. Scontri al confine, un raid israeliano uccide una famiglia siriana
Il discorso in tv di Hassan Nasrallah - Epa/Wael Hamzeh
«Non capite che tipo di linea rossa avete oltrepassato. Il nemico dovrà aspettarsi collera e vendetta. Siamo entrati in una nuova fase, in relazione a tutti i fronti di supporto. Israele gioisce adesso. Hanno ucciso Sayyed Mohsen (Fuad Shukr) e Ismail Haniyeh a distanza di poche ore. Ridete adesso, ma presto piangerete». Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, è caustico nel suo discorso in occasione dei funerali del comandante Shukr, ucciso nell’attentato di lunedì sera a Beirut.
IL PARTITO/MILIZIA non può permettersi di non rispondere o di farlo in maniera blanda. Ne andrebbe della sua reputazione tra i sostenitori e a livello internazionale. Se l’attentato del 2 gennaio, nel quale Israele aveva ucciso il numero 2 di Hamas, Saleh Aruri, sempre nella Dahieh (periferia a sud di Beirut controllata da Hezbollah) poteva anche essere considerato solo un colpo indiretto al Partito di Dio, l’uccisione di Shukr ha tutt’altro peso.
Una risposta solo formale sarebbe un invito a bombardare Beirut ogni volta che Israele ne senta la necessità. L’uccisione del numero due di Hezbollah, come quella del capo politico di Hamas, Haniyeh, a poche ore di distanza dal punto di vista militare/strategico non rappresenta molto: «Quando uno dei nostri comandanti arriva al martirio, lo rimpiazziamo rapidamente con uno dei suoi allievi. Abbiamo un’eccellente nuova generazione di comandanti», precisa Nasrallah. Ma il valore di quest’omicidio, in questo momento, in questo luogo, in questo modo è altamente simbolica. La Dahieh, dove si trovava il palazzo colpito dal drone israeliano, è il cuore beirutino della resistenza sciita, il quartier generale di Hezbollah nella capitale.
«GLI ISRAELIANI non sanno da dove verrà la risposta. E Israele non sa verso cosa sta andando. La decisione la lasciamo al campo. È il campo che sa quello che si deve fare. Noi cercheremo una risposta reale, non di facciata. Cercheremo una risposta studiata», continua la massima carica del Partito di Dio. Migliaia in strada nella Dahieh, galvanizzati, cantano
Leggi tutto: Nasrallah rilancia: «Risponderemo». Il Libano trema - di Pasquale Porciello, Beirut
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Imprese
Dall’analisi dei dati fino al mese di luglio - riferisce una nota dell’Unione Romagna Faentina - le domande pervenute dalle imprese sono 106; di queste 20 sono state chiuse positivamente, 80 sono in corso di istruttoria e 6 sono state ritirate dai richiedenti stessi per diverse motivazioni: errata o carente compilazione e dunque dovranno essere ripresentate. Relativamente alle 20 domande presentate dalle imprese che hanno avuto esito positivo il contributo concesso, per i soli danni strutturali, è stato di 635.506,45 euro.
Famiglie
Per quanto riguarda le famiglie, le domande presentate attraverso la piattaforma Sfinge sono state 223: 81 sono state chiuse positivamente, 124 sono in fase di istruttoria e 18 ritirate dai richiedenti. Anche in questo caso, per i soli danni strutturali, il contributo concesso per le 81 già ‘chiuse’ ammonta a 2.854.356,79 di euro.
Le tempistiche
Per le domande presentate dalle imprese, il tempo medio di ‘lavorazione di primo livello’, pratica seguita dagli uffici dell’Unione in riferimento al controllo formale, è di 8,07 giorni; il tempo medio di risposta dell’utente all’eventuale richiesta di integrazione è di 7,73 giorni. Il tempo totale calcolato dalla data di presentazione della domanda alla chiusura positiva dell’istruttoria di secondo livello, che comprende la valutazione di merito e la proposta di decreto del commissario straordinario, è di 113,33 giorni. Per le domande presentate dalle famiglie, il tempo medio di lavorazione dell’istruttoria di primo livello è di 12 giorni; il tempo medio di risposta dell’utente all’eventuale richiesta di integrazione è di 5,74 giorni; il tempo totale calcolato dalla data di presentazione della domanda fino alla chiusura positiva dell’istruttoria di secondo livello, quindi comprensivo della valutazione di merito e della proposta di decreto del commissario, è stato di 82,41 giorni.
Isola: “Situazione preoccupante”
“I numeri forniti dai nostri Uffici - sottolinea il sindaco di Faenza e presidente dell’Unione, Massimo Isola - fotografano una situazione preoccupante. Le domande presentate e quelle ammesse, sia per le famiglie che per le imprese, sono numericamente basse. D’altra parte, però si rileva che in questo momento, all’esito positivo dell’istruttoria della pratica, viene erogato immediatamente il 50% del contributo riconosciuto, ben oltre a quanto previsto dalle ordinanze. L’Unione della Romagna Faentina ha dedicato personale presso lo sportello emergenza per affiancare i cittadini e le imprese nel disbrigo delle pratiche per le richieste di rimborso. I tecnici stanno lavorando alacremente anche se la complessità e l’impatto burocratico delle ordinanze ci portano ad affermare che è ancora lontano l’obiettivo fissato di rendere semplice il modo e rapidi i tempi di riconoscimento di contributo. A questo bisogna aggiungere che il rimborso massimo per i beni mobili per ogni famiglia è fissato ad oggi a 6mila euro; questi due scenari evidenziano una situazione ancora critica. I dati oggettivi dai nostri Uffici spingono a chiedere, alla struttura commissariale e al governo, di accelerare i tempi affinché i nostri cittadini, dopo tanti mesi dai fatti alluvionali, possano avere maggiori certezze”.
Commenta (0 Commenti)IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA . Un contro-diario olimpico. Cosa succede a Parigi mentre il mondo ha gli occhi puntati sui Giochi
Nelle sale stampa e negli impianti sportivi, cibo e bevande sono vendute da Coca-Cola; su place de la Concorde, a due passi dagli stadi di BMX e skateboard, un gigantesco stand di Alibaba promette un’esperienza consumistica di grido; gli atleti ricevono in dono al loro arrivo al villaggio olimpico dei telefoni Samsung, come se non bastassero i gazebo che l’azienda ha piazzato un po’ ovunque, nel gigantesco press center a Porte Maillot così come attorno agli stadi; se si vuole pagare qualcosa, bisogna farlo con una carta Visa, l’unica accettata a Parigi 2024, poiché sponsor ufficiale dei giochi.
Le Olimpiadi sono una grande celebrazione del capitale internazionale. Un grigio, pantagruelico festino di marche, loghi e pubblicità, una fredda orgia di merce e di consumismo destinata a sommergere i sensi dello spettatore.
Nessuna multinazionale incarna questo particolare aspetto dello spirito olimpico meglio di LVMH, il gruppo francese del lusso che possiede marche come Dior, Louis Vuitton, Sephora e Givenchy (tra numerosissime altre), di proprietà del miliardario Bernard Arnault. Per 150 milioni di euro “donati” al comitato organizzatore, LVMH si è letteralmente comprata i giochi: gli champagne prodotti dalle sue filiali innaffiano le zone Vip, le divise e i vestiti di gala usciti dai suoi atelier vestono gli atleti francesi, le medaglie sono state concepite dai suoi gioiellieri, persino le valigie nelle quali ha viaggiato la fiaccola olimpica sono state prodotte dalla sua filiale più importante, Louis Vuitton. Bernard Arnault, il padrone del gruppo, è l’uomo più ricco del mondo (o quasi: si gioca il primato con Jeff Bezos). Ha seguito la cerimonia d’inaugurazione delle Olimpiadi da una terrazza privata in cima alla Samaritaine, il grande magazzino proprietà di LVMH situato praticamente davanti al Louvre, in “un pavillon a forma di valigia Louis Vuitton, costruito a luglio al decimo piano” del palazzo, scrive Le Monde.
In teoria, le regole del CIO vietano la pubblicità all’interno degli stadi. Ma per corporation come LVMH, sono le eccezioni a essere la regola.
Così, ogni qual volta si dovranno premiare degli atleti, le medaglie saranno portate su palchi e podi da dei volontari muniti di grandi valigie siglate Louis Vuitton. Certo, non ci saranno loghi né scritte; ma il motivo “LV” è esso stesso un simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Un simbolo che comparirà durante ognuna delle 871 cerimonie di questo tipo previste durante le Olimpiadi e le paralimpiadi, che apparirà su ogni schermo del pianeta per settimane, fino a restare impresso, indelebile, nelle retine degli spettatori del mondo intero
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