Prima di andarsene, Joe Biden riscrive la strategia nucleare degli Stati uniti: al centro del mirino atomico non c’è più Mosca ma Pechino. La Cina «preoccupata» riarmerà, come stava già facendo. E nel mondo ci sono sempre più testate effettivamente schierate
Corsa al riarmo. Il New York Times rivela il piano top secret di Washington: Mosca è solo uno «tsunami», la Cina è «il cambiamento climatico». La Casa bianca, preoccupata dagli accordi cinesi con Putin e Kim Jong-Un, giustifica così il riarmo di Xi
Missili Tomahawk nella sede di San Diego della General Dynamics
È talmente riservato che non ne esistono nemmeno copie digitali. Circola solo in cartaceo, sulla scrivania di pochi eletti tra funzionari della sicurezza nazionale e comandanti del Pentagono. Eppure esiste, tanto che presto potrebbe essere notificato al Congresso, prima che Joe Biden lasci la Casa bianca. Il documento si chiama «Nuclear Employment Guidance» e della sua esistenza ne dà conto il New York Times.
Si tratta di un piano strategico che sarebbe stato approvato dal presidente lo scorso marzo. Obiettivo? Riorientare per la prima volta la strategia di deterrenza nucleare americana per concentrarsi sulla rapida espansione dell’arsenale della Cina. Nelle scorse settimane, alcuni funzionari hanno fatto brevi riferimenti al piano, che mira anche a preparare gli Stati uniti a rispondere a una possibile sfida nucleare lanciata in modo coordinato da Cina, Russia e Corea del nord.
UNO SCENARIO che fino a qualche tempo fa era ritenuto pressoché impossibile, ma che ora Washington starebbe iniziando a prendere in considerazione, soprattutto dopo l’accordo di mutua difesa siglato a giugno da Vladimir Putin e Kim Jong-un a Pyongyang.
L’ipotesi che la Corea del nord abbandoni la strada dello sviluppo nucleare appare più che mai lontana, tanto che il suo arsenale si starebbe già avvicinando a quelli di Pakistan e Israele. C’è anche chi teme un possibile nuovo test nucleare a cavallo delle elezioni americane. Per Kim sarebbe un modo per guadagnare una posizione più favorevole in vista di un eventuale negoziato, che qualcuno si immagina possa riaprirsi nel caso di un ritorno di Donald Trump.
Ma al centro delle attenzioni di Washington c’è sempre la Cina, che nel gergo degli apparati di sicurezza statunitense viene identificata ormai come «cambiamento climatico», mentre la Russia viene derubricata a «tsunami». Secondo le stime del Bulletin of Atomic Scientists del 2024, Pechino disporrebbe attualmente di circa 500 testate nucleari. Siamo ben lontani dalle 3.700 testate e dagli 800 lanciatori degli Usa, ma il tasso di crescita cinese si è fatto molto rapido.
Secondo immagini satellitari, negli ultimi anni sarebbero aumentati i silos destinati a conservare le armi, spesso nelle zone desertiche del vasto entroterra occidentale. Se la Cina dovesse mantenere questo ritmo, a Washington sono convinti che potrebbe avere già mille testate entro il 2030 e 1500 entro il 2035.
LA NOTIZIA della strategia nucleare segreta approvata da Biden arriva in un momento delicato dei rapporti bilaterali. A luglio, Pechino ha sospeso il dialogo con Washington sul controllo delle armi nucleari, come ritorsione per le ripetute vendite di armi americane a Taiwan.
Le tensioni sono in aumento anche sul mar Cinese meridionale, in particolare sulle dispute territoriali con le Filippine, legate a Washington da un’alleanza militare. Ieri la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning ha dichiarato che la Cina «è seriamente preoccupata» per le indiscrezioni del Nyt. «La teoria della minaccia nucleare cinese è solo una scusa per sottrarsi alle responsabilità del disarmo, espandere il proprio arsenale e cercare enormi vantaggi strategici», ha accusato Mao.
Pechino persegue una «politica di non primo uso di armi nucleari», ma rivendica il diritto di accrescere la propria deterrenza per ridurre il gap con l’ampiezza dell’arsenale di Usa e Russia. Il rafforzamento delle proprie scorte non sembra fin qui essere stato toccato dai recenti scandali che hanno toccato le forze missilistiche dell’Esercito popolare di liberazione, la divisione che ha in carico la gestione dei missili, compresi quelli con testata nucleare.
Negli scorsi mesi sono stati rimossi i vertici, contestualmente all’espulsione dell’ex ministro della difesa Li Shangfu. Mentre al terzo plenum del Partito comunista di luglio, contro tutte le previsioni, il suo successore Dong Jun non è entrato (come invece ci si aspettava) nella Commissione militare centrale presieduta da Xi Jinping. Una scelta che può avere vari livelli di lettura, ma che lascia intendere che il controllo del segretario generale e presidente sia uscito rafforzato.
IL NUOVO documento americano verrà con ogni probabilità usato dalla Cina per rafforzare la giustificazione dell’ampliamento del proprio arsenale. Da anni Pechino critica i vari accordi militari degli Usa in Asia-Pacifico, a partire dalla piattaforma Aukus che doterà l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare.
Passando per l’ampliamento del cosiddetto «ombrello nucleare» a protezione della Corea del sud e dai legami militari sempre più stretti fra Usa e Giappone. Sentirsi, o quantomeno descriversi, nel mirino darà presumibilmente linfa al potenziamento della sua strategia di deterrenza. Sperando che i due rivali si ricordino di accompagnarla a qualche rassicurazione