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Palestina «Israele ci ha trasformato nei poliziotti di noi stessi». Le nuove vie della repressione: i palestinesi si censurano per paura, demoliscono le proprie case per non dover pagare i bulldozer di Israele, consegnano i figli in carcere. La storia del piccolo Ayham

Quando incontriamo Nawaf al-Salaymeh in un vecchio bar nella medina di Gerusalemme si capisce subito che non dorme da giorni. È passata una settimana da quando ha accompagnato suo figlio Ayham nella prigione israeliana di al-Moscobiyeh. La conoscono tutti, è il luogo obbligato di transito per buona parte dei palestinesi dopo l’arresto. Primi interrogatori, prime botte.

A metà mattina la vita nel bar si scalda. Anziani giocano a backgammon con accanto una tazzina in vetro piena di caffè al cardamomo. Gatti siedono soporiferi sulle sedie di plastica, uccellini cinguettano nelle gabbie appese alle finestre. Al cartello «vietato fumare» non fa caso nessuno. Da oltre un secolo parecchia della vita comunitaria di Gerusalemme passa per i bar di quartiere.

Nawaf al-Salaymeh ha 50 anni, vive con la famiglia nel quartiere di Ras al-Amud. Ha un lavoro da panettiere e sei figli, la kefiah avvolta sulla testa e la barba di qualche giorno. Dice che mai avrebbe pensato di diventare il carceriere di suo figlio.

AYHAM ha compiuto 14 anni il 10 giugno 2024, un paio di settimane dopo si è aperto il processo per lancio di pietre. A fine novembre è stato condannato a 12 mesi, il testo della sentenza era lunga 14 pagine.

Il primo dicembre, insieme ai fratelli di Ayham, Nawaf lo ha accompagnato in carcere: le foto li mostrano quasi sorridenti, a dargli un po’ di forza, lo sollevano in braccio, gli baciano la testa. Ayham è piccolo piccolo nella sua tuta nera dell’Adidas e il berretto di lana in testa.

Entrerà con addosso solo quelli: tutti i vestiti che Nawaf aveva portato sono stati rifiutati dalla prigione, non entra niente. La moglie non c’è: ha la carta d’identità della Cisgiordania, è vietato.

«È iniziato tutto il 17 maggio 2023, prima della guerra – racconta Nawaf – I soldati sono entrati nel quartiere e hanno invaso alcune case. I ragazzini hanno lanciato pietre. I miei figli Ayham e Ahmed e due cugini sono stati arrestati». All’epoca Ayham aveva ancora 12 anni e non è stato processato. Ahmed e i cugini, tutti maggiori di 14 anni, sì e sono stati condannati. Era il 30 luglio 2023. Alla fine di novembre sono stati liberati nello scambio tra Hamas e Israele, reato cancellato.

«Ayham è stato posto subito agli arresti domiciliari: troppo piccolo per essere processato. Hanno aspettato che ne compisse 14. È rimasto chiuso in casa per un anno e mezzo. Uno di noi genitori doveva sempre restare con lui a controllarlo, pena una multa da 10mila shekel o il carcere. Ci siamo sentiti i suoi poliziotti». Ci mostra la foto del figlio più grande, Osama, il giorno del suo matrimonio: «Ayham non è potuto venire, era ai domiciliari».

«DURANTE la prima Intifada, nel 1988, anche io sono stato arrestato, avevo 14 anni. Ma era diverso. Le carceri erano diverse. Ora sono davvero dei luoghi infernali. Non so nemmeno dove lo abbiano portato, se ha fame, se ha freddo. Ayham pesa 30 chili, come uscirà?».

Nawaf continua a giocherellare con il pacchetto di sigarette. «Negli anni Ottanta i miei genitori cercavano di tenermi a casa, noi ragazzini andavamo comunque a lanciare pietre. Oggi è lo stesso, ho provato in tutti i modi a fermarlo ma è inutile. Viviamo sotto una cappa di oppressione, i nostri figli ci vedono umiliati e picchiati per strada, costretti a mostrare di continuo le carte d’identità, vedono le nostre case demolite».

Oggi, secondo i dati delle organizzazioni di monitoraggio, sono almeno 270 i minori palestinesi prigionieri politici, parte degli attuali 11mila detenuti. E sono quasi mille i bambini arrestati dopo il 7 ottobre, su un totale di 12mila nuove detenzioni.

L’ong israeliana B’Tselem ha seguito il caso di Ayham, piuttosto esemplare: hanno atteso che compisse 14 anni per giudicarlo, anche se il “reato” era stato commesso quando ne aveva 12. Le cose sono destinate a peggiorare: a novembre la Knesset ha approvato una legge per processare come adulti i palestinesi da 12 anni d’età nel caso di reati di “terrorismo”.

«Arrestare bambini in questo modo è parte della più generale politica oppressiva israeliana a Gerusalemme est e in Cisgiordania», ha scritto B’Tselem. Una politica che si è inasprita negli ultimi 14 mesi: oggi Gerusalemme è la caserma di se stessa.

«Israele ci ha trasformato in secondini», dice Zakaria Odeh dal suo ufficio nel quartiere di Beit Hanina. Esponente della sinistra palestinese, è direttore esecutivo della Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, una delle più note ong in città. La sede è a due passi dal muro, otto metri di altezza e cemento. A poca distanza c’è il checkpoint di Qalandiya che conduce a Ramallah.

IN QUEI POCHI metri quadrati l’occupazione mostra la sua natura apparentemente surreale, un’opera di ingegneria geografica e demografica: un pezzo di Beit Hanina è Area B della Cisgiordania, eppure sta al di qua del muro; al di là ci sono quartieri gerusalemiti, gli abitanti hanno la residenza a Gerusalemme ma per muoversi in città devono attraversare il checkpoint.

«Oggi a Gerusalemme vivono 380mila palestinesi, il 41% della popolazione totale – spiega Odeh – Abbiamo ampiamente superato l’equilibrio demografico che si era prefisso Israele: negli anni Ottanta aveva stabilito che a Gerusalemme non si sarebbe dovuto superare il 20% di popolazione palestinese, poi nel 2020 ha rivisto la percentuale al 30%. Per raggiungere l’obiettivo le autorità operano in maniera diversa: revoche di residenze, demolizioni, colonizzazione, divieto a costruire. Il problema di accesso alla casa è enorme: solo il 13% del territorio è ancora di proprietà privata palestinese, ma siamo tantissimi».

Lo stesso Zakaria vive in un limbo: alla morte del padre, ha ereditato l’abitazione di famiglia insieme ai due fratelli che però non sono residenti a Gerusalemme. «Lo Stato ha dichiarato due terzi della nostra casa proprietà statale, secondo la Legge degli Assenti».

Una legge vecchia quanto Israele, servita a impossessarsi “legalmente” delle proprietà dei rifugiati palestinesi. Tel Aviv la applica ancora oggi, ma non a tutti i suoi cittadini: solo ai palestinesi. A Gerusalemme, poi, la cittadinanza nemmeno ce l’hanno, solo permesso di residenza e status di apolide.

Si costruisce senza permesso («il 70% delle case di Gerusalemme est si stima siano illegali») in attesa degli ordini di demolizione. Dal 7 ottobre, un record: sono state demolite 255 strutture, di cui 182 case. Circa 2mila palestinesi sono rimasti senza tetto, tra loro 750 bambini. Di queste, 87 sono self-demolition: «Significa che i proprietari sono costretti a distruggere da soli per non pagare i costi del bulldozer statale. Quando si riceve un ordine di demolizione si viene puniti tre volte: si paga una multa, si pagano i costi della distruzione e si perde la casa. L’impatto psicologico è enorme. Ho visto bambini chiedere ai genitori perché stessero demolendo la loro casa, dire che non era colpa dell’autorità ma delle loro famiglie».

«SIAMO I POLIZIOTTI di noi stessi», continua a ripetere Odeh. Consegnando i figli in prigione, demolendosi la casa e censurandosi: «In 14 mesi a Gerusalemme si contano 3mila arresti politici, moltissimi per uso dei social media. Nei primi sei mesi c’è stato il picco, ai checkpoint o per strada la polizia controllava se sui telefoni ci fossero foto o post su Gaza, seguivano pestaggi o arresti. Poi i palestinesi hanno iniziato ad auto-controllarsi».

I post sui social si sono ridotti, i canali Telegram sono stati silenziati, si esce di casa senza telefono per evitare i controlli.

«Molti si chiedono perché Gerusalemme, una città esplosiva che è sempre stata una delle anime della resistenza, oggi non si mobiliti. Puoi prendere un anno di galera per un like. La gente è terrorizzata all’idea di finire in prigione. Sa cosa succede là dentro».