Meloni e i ministri che hanno liberato e riportato a casa l’ufficiale libico Elmasry potrebbero aver commesso dei reati. Dietro denuncia, la procura di Roma chiama in causa il Tribunale dei ministri. La premier si autoassolve in video e rivendica la protezione data al torturatore. Nordio e Piantedosi si nascondono al parlamento
ATTO VOLUTO La premier in un video sventola le carte giudiziarie e attacca I giudici citano anche Mantovano, Piantedosi e Nordio
La premier gioca d’anticipo. Appena ricevuto l’avviso di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato nel caso del generale libico Osama Elmasry registra un video e dà per prima la notizia. Una buona mossa. Ma la bomba, con i ministri degli Interni Piantedosi e della Giustizia Nordio e il sottosegretario Mantovano a loro volta indagati, è deflagrante comunque.
NEL GOVERNO la hanno presa malissimo, anche perché stavolta davvero nessuno se lo aspettava. Al ministero della Giustizia accreditano all’avvocato Li Gotti, autore dell’esposto all’origine dell’indagine, una capacità di fare danno che era completamente mancata all’opposizione. Sibilano avvelenati contro il Procuratore capo di Roma Lo Voi, che avrebbe potuto aprire e chiudere il fascicolo e invece ha deciso di andare avanti. L’Anm specifica che non c’è alcun avviso di garanzia ma solo l’iscrizione nel registro degli indagati, atto dovuto dopo un esposto. A via Arenula ritengono però che non ci sia alcun atto dovuto e in effetti una circolare del 2017 dell’allora procuratore capo Pignatone contro le «iscrizioni frettolose» avrebbe permesso di chiudere subito il fascicolo.
Gli indagati si riuniscono subito a palazzo Chigi per concordare una strategia mediatica anche in vista del dibattito di ogni in Parlamento. Nel pomeriggio avrebbero dovuto riferire proprio i due ministri indagati. Era previsto solo l’intervento di Piantedosi, poi con una decisione inattesa lunedì sera era stata annunciata la presenza anche di Nordio.
Ma il quadro è completamente cambiato dopo l’iscrizione dei quattro nel registro degli indagati. Un dibattito che si prevedeva sì teso ma senza esagerate preoccupazioni prometteva di diventare tra i più fragorosi e politicamente a rischio. La premier sceglie di risolvere la faccenda nel modo più drastico. I ministri non saranno oggi in Parlamento. L’informativa, «per ora», salta. Se ne riparlerà. Quando? Mah, prima o poi. È anche questa una forzatura assurda. Cosa c’entra infatti l’avvio di un’indagine, atto dovuto o meno che fosse, con la necessità di affrontare un caso clamoroso sul terreno proprio, quello della politica non delle aule giudiziarie?
IN REALTÀ IL PROBLEMA giudiziario è considerato tutto sommato di scarsa rilevanza, anche se certo non si sa mai e una certa inquietudine comunque circola. Quel che preoccupa e fa imbizzarrire Meloni e i suoi ministri è che così diventa impossibile
Leggi tutto: Caso Elmasry, Meloni indagata e contenta. Show sui social - di Andrea Colombo
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Il coordinamento dei comitati è contrario a un quadruplicamento della Bologa-Castel Bolognese che considera sbagliato e fuori luogo perché non sarebbe “frutto di un progetto globale”
Imola, 28 gennaio 2025 – “Le nostre comunità meritano soluzioni diverse, che migliorino la qualità della vita senza compromettere il territorio. Abbiamo fatto un’analisi e un lavoro di approfondimento che neanche gli enti locali sono stati in grado di fare: nessuno potrà dire che i cittadini non hanno fatto e detto abbastanza per migliorare la situazione”. I comitati che da mesi di battono per cambiare il progetto del potenziamento ferroviario della linea Bologna-Castel Bolognese alzano il tiro. E riuniti in una neonata compagine che mette insieme i gruppi spontanei di cittadini nati a Imola, Solarolo, San Lazzaro e Castel San Pietro Terme hanno organizzato ieri sera un affollato incontro al centro sociale La Stalla. Il messaggio finale è chiaro: se davvero non si può fare a meno dell’opera, il tunnel sotterraneo resta l’unica soluzione.
L’incontro è stato motivato al fatto che, dopo tanti rinvii, oggi è arrivato il giorno fissato da Rfi per la fine del dibattito pubblico relativo al contestato progetto di ampliamento. “Si chiude semplicemente una fase e se ne apre un’altra”, frena però Armando Martignani, portavoce del coordinamento composto dal comitato imolese No Viadotto; dal comitato Alta Velocità Fonti di Colunga San Lazzaro; dal Gruppo cittadini Castel San Pietro Terme; dal comitato Alta Velocità Solarolo. “Da maggio ad oggi ne abbiamo viste di cotte e di crude – aggiunge Martignani –. Sono cambiate tante situazioni, abbiamo visto il modificarsi di corridoi, crescere la rabbia e le preoccupazioni nelle nostre comunità, cambiare amministratori. Siamo partiti in pochi raccogliendo firme, poi ci siamo organizzati in comitati, consapevolmente guidati dal concetto che ‘da soli non saremmo andati da nessuna parte’. Oggi siamo molti, organizzati sotto l’ombrello del coordinamento dei comitati per dare un segnale di forte coesione”.
Non mancano le critiche nei confronti delle istituzioni. “La nuova assessora regionale Irene Priolo ci ha candidamente detto che ‘I tre miliardi e 600 milioni di euro destinati al quadruplicamento sono una cifra mai vista in regione per trasporto su rotaia, pertanto prima di rinunciarli dobbiamo pensarci bene’ – ha ricordato Martignani –. Lo diceva anche il vecchio assessore Corsini, quindi in regione non è cambiato proprio nulla”. Quanto a RfI, “più passa il tempo e più monta la delusione e nutro forti sospetti per la mancanza di competenza – è la critica del portavoce dei comitati –. Troppo spesso il livello riscontrato è stato gravemente insufficiente rispetto all’importanza dell’opera. Hanno cambiato le carte in tavola con facilità estrema, cercando di spiazzare tutti e soprattutto zittirci”.
Le obiezioni
Da qui è partito il lavoro dei comitati, culminato in un pacchetto di osservazioni unitarie presentato ieri alla Stalla. E che verrà spedito in queste ore a Rfi nell’ambito della procedura pubblica. I cittadini parlano innanzitutto di “vizio procedurale per cambio progettuale”, dal momento che le tre nuove alternative presentate da Roma, con l’ampliamento a ridosso del tracciato autostradale, sono diverse da quelle prospettate nei mesi scorsi. In questa ottica, Martignani e gli altri contestano, tra l’altro, anche la “insufficiente promozione della partecipazione popolare”, la “carenza di analisi ambientale e paesaggistica”.
Come se ne esce? Già lo scorso agosto il comitato imolese ‘No viadotto’ ha inoltrato a Rfi una osservazione per la realizzazione di un passante ferroviario sotterraneo. “L’unica soluzione che metterebbe d’accordo tutti: accontenterebbe agricoltori, cittadini e amministratori. eviterebbe ecomostri e traumi per la città, devastazione di campagne, distruzione delle frazioni, scempi ambientali, espropri e demolizioni”, la sintesi di Martignani. Che ribadisce: “Il coordinamento dei comitati è contrario a un quadruplicamento che considera sbagliato e fuori luogo perché non è frutto di un progetto globale, ma di uno spregiudicato indirizzo politico atto a impegnare risorse”.
Da qui l’invito dei comitati a “indirizzare tutte le risorse per sviluppare il progetto della direttrice Adriatica che connetta direttamente il porto di Ravenna con gli altri nodi compreso quello di Altedo (Bologna) e non si intacchino in alcun modo le linee storiche, sgravandole così del traffico merci”. E “solo qualora il quadruplicamento fosse l’unica soluzione perseguibile”, il coordinamento ritiene che il passaggio in tunnel sotterraneo resti “l’unica soluzione per superare Toscanella, Imola e Solarolo per evitare scempi sul territorio e danni sia ambientali che economici”.
Intelligenza artificiale Il chatbot realizzato con 6 milioni di dollari è in grado di eguagliare le prestazioni del modelli linguistici di OpenAI
Il crollo delle azioni di Big Tech a Wall Street – foto di Yuki Iwamura/Getty Images
Costi infinitamente più bassi, chip meno avanzati e continue minacce di restrizioni alle catene di approvvigionamento. Non sembrano esattamente le componenti migliori per raggiungere risultati importanti nel campo dell’innovazione. E invece sono proprio questi gli ingredienti con cui DeepSeek ha costruito il suo improvviso e clamoroso successo nel campo dell’intelligenza artificiale, in grado di far crollare Wall Street, con Nasdaq e Big Tech finite ieri in profondo rosso.
A PARTIRE dal colosso Nvidia, che non ha la startup cinese tra i clienti dei suoi chip più avanzati. Risultato delle restrizioni imposte dalla Casa bianca, che non hanno però impedito l’ascesa del chatbot made in China, che ieri ha superato il famigerato ChatGpt di Open AI per numero di download. Lo ha fatto non solo in Cina, ma persino negli app store dei dispositivi di Apple negli Stati uniti. Un’imboscata impronosticabile nel cuore della Silicon Valley, costretta a fare i conti con una scomoda realtà: le compagnie cinesi sono in grado di innovare nonostante le restrizioni, a basso costo. Gli sviluppatori del modello linguistico di grandi dimensioni DeepSeek-V3, rilasciato il 10 gennaio, sostengono che il progetto sia costato poco meno di 6 milioni di dollari, nulla in confronto ai miliardi spesi dalla rivale americana Open AI. Ma con prestazioni di livello simile.
DOTATO DI 671 miliardi di parametri e addestrato in circa 55 giorni, in una serie di test di terze parti, il modello di DeepSeek ha superato Llama 3.1 di Meta, GPT-4o di OpenAI e Claude Sonnet 3.5 di Anthropic per accuratezza, dalla risoluzione di problemi complessi alla matematica e alla codifica. Aggirato il problema del mancato accesso ai migliori chip di Nvidia, considerato finora il grande ostacolo sulla strada dello sviluppo dell’intelligenza artificiale cinese. Segnali in tal senso erano arrivati nei mesi scorsi da Huawei, in grado di produrre chip molto più avanzati del previsto nonostante la fatwa emanata dalla prima amministrazione Trump e confermata da Joe Biden.
Altra particolarità, assai rilevante: DeepSeek è open source. Vale a dire che, a differenza dei rivali, il suo codice è accessibile a tutti. Ciò significa che è potenzialmente modificabile e sviluppabile, anche se alcuni esperti sostengono che alcune parti restino in realtà criptate. «Un’azienda non statunitense porta avanti la missione originale di OpenAI: una ricerca aperta e lungimirante a beneficio di tutti», ha scritto su X Jim Fan, responsabile della ricerca di Nvidia. Perfettamente funzionante anche in inglese, il chatbot può anche scrivere testi di canzoni, suggerire ricette, dare opinioni su questioni di vita quotidiana e fornire informazioni su eventi storici o fenomeni culturali.
COME GIÀ ACCADE sull’internet cinese, alcuni temi sensibili non si possono però approfondire. Se si chiede al chatbot che cosa è successo a piazza Tiananmen nel 1989, la risposta è la seguente: «Mi spiace, ma questo esula dalle mie attuali competenze. Parliamo di qualcos’altro». Non accade su Taiwan, dove in realtà la risposta tiene conto di diverse prospettive, compresa quella di Taipei.
La compagnia è finanziata dal fondo speculativo High-Flyer ed è stata fondata nel 2023 a Hangzhou, la stessa città di Jack Ma e Alibaba. A capo di DeepSeek c’è il nemmeno quarantenne Liang Wenfeng, master in informatica e passato da trader. Rimasto fin qui all’esterno della cerchia delle grandi compagnie di stato, il successo del chatbot sembra avergli aperto la porta principale. Nei giorni scorsi è stato infatti invitato a un simposio sul report di lavoro annuale del governo, ospitato dal premier Li Qiang.
MARC ANDREESSEN, venture capitalist della Silicon Valley e consigliere di Donald Trump, ha descritto DeepSeek-R1 come «il momento Sputnik dell’intelligenza artificiale». La doccia per la nuova amministrazione è gelata, anche perché si tratta di una nuova prova dell’ascesa digitale e tecnologica della Cina, dopo che nelle scorse settimane Xiaohongshu (“piccolo libretto rosso”), ha accolto centinaia di migliaia di «rifugiati di TikTok» statunitensi. Le applicazioni cinesi non sono solo tecnicamente allo stesso livello di quelle rivali, ma stanno diventando anche più attrattive.
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Immigrazione Arrivo previsto per le otto. A bordo della nave militare Cassiopea bengalesi, egiziani, ivoriani e gambiani
L’arrivo è previsto per questa mattina intorno alle 8. A quell’ora il pattugliatore della Marina Militare Cassiopea approderà nel porto albanese di Shengjin per poi procedere allo sbarco di 49 migranti raccolti nei giorni scorsi in acque internazionali a sud dell’isola di Lampedusa. Si tratta della terza missione che il governo italiano compie in Albania dopo il fallimento delle prime due, a ottobre e novembre dello scorso anno, concluse entrambe con il trasferimento in Italia dei primi 24 migranti subito liberati dai giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma che non hanno confermato il fermo inizialmente disposto dal Questore di Roma.
Questa volta il gruppo di migranti è formato bengalesi (in maggioranza), egiziani, ivoriani e gambiani, selezionati per essere sottoposti alla procedura accelerata di frontiera prevista per chi proviene da Paesi sicuri e non ha consegnato documenti di identità. Nell’hotspot di Shengjin i richiedenti asilo – tutti provenienti dalla Libia -, saranno identificati e faranno uno screening medico approfondito (se saranno riscontrate condizioni di vulnerabilità verranno portati in Italia come è avvenuto in qualche caso nei due precedenti trasferimenti in Albania). Saranno quindi trasferiti nell’altro centro sottoposto alla giurisdizione italiana, quello di Gjader, ad una ventina di chilometri di distanza, sulla base del trattenimento disposto dal questore di Roma. I giudici della Corte d’appello della Capitale dovranno poi decidere, nel giro di 48 ore, se convalidare o meno il trattenimento. Entro giovedì, dunque, dovrebbe esserci il responso. Nelle altre occasioni i magistrati hanno sospeso la convalida per tutti i migranti trattenuti, che sono stati quindi portati in Italia.
Con la missione di oggi il governo tenta quindi ancora una volta di far decollare l’accordo siglato un anno fa dalla premier Giorgia Meloni con l’omologo Edi Rama. Secondo quanto stabilito i migranti sono maschi, adulti, non vulnerabili e provenienti da uno dei Paesi sicuri indicati nella lista contenuta nel decreto approvato dal governo un paio di mesi fa. Nel centro di Gjader i migranti rimarranno in attesa di conoscere il loro futuro, cosa che dovrebbe avvenire entro giovedì con un pronunciamento dei giudici della Corte d’appello della Capitale che dovranno decidere se convalidare oppure no il fermo nel corso di un’udienza in teleconferenza.
Una decisione che, rispetto al passato, non spetta più alle toghe della sezione immigrazione del tribunale come era in precedenza dopo il cambio impresso dal governo con una norma inserita nel decreto flussi lo scorso dicembre. Il tutto in attesa della decisione della Corte di giustizia europea che il prossimo 25 febbraio dovrebbe pronunciarsi su una serie di ricorsi in materia di Paesi sicuri.
Il governo è fiducioso dopo che lo scorso 19 dicembre la Cassazione gli ha riconosciuto il diritto di stabilire un regime differenziato delle domande di asilo per chi proviene da Paesi designati come sicuri. E dunque il giudice «non può sostituirsi» al ministro degli Esteri. Può tuttavia valutare se la designazione è legittima ed eventualmente disapplicare il decreto sui Paesi sicuri. Ovvero caso per caso.
L’avvio del terzo viaggio nel paese delle Aquile ha suscitato la reazione delle opposizioni. Per il leader del M5S Giuseppe Conte la «presidente del consiglio ci racconta delle frottole». «Questo è il blocco navale, siamo in questi primi giorni del 2025 a +135% di sbarchi, sono arrivati 3074 migranti contro i 1305 del gennaio dell’anno scorso, e questo nonostante lo spot da quasi un miliardo di euro che il nostro governo ha girato in Albania, stanno fallendo laddove hanno preso in giro gli italiani e dicono che hanno una soluzione».
Dello stesso tenore anche il deputato Riccardo Magi: «Assistiamo incredibilmente a un governo che forza la mano senza attendere la pronuncia della corte di giustizia dell’Unione Europea – ha detto il segretario di +Europa -, che avrebbe dovuto dare un elemento di chiarezza interpretativo definitivo: in pratica, siamo di fronte a un nuovo tentativo dell’esecutivo di andare allo scontro con la magistratura».
Commenta (0 Commenti)A Gaza si aprono i posti di blocco e 300mila palestinesi si incamminano in direzione nord. Una «marcia del ritorno» verso un territorio devastato, stretto tra le macerie e il mare. Ma non se ne andranno, certo non per fare spazio al resort che ha in mente Trump
Hanno zero Un fiume umano ieri in marcia per le città settentrionali dopo l’apertura dei posti di blocco. Arbel Yehud sarà liberata giovedì
Sfollati palestinesi tornano al nord di Gaza – Ap/Abdel Karim Hana
Quando ieri alle 7 i soldati israeliani hanno finalmente aperto i posti di blocco, Abdallah Kahlout, giovane ingegnere, era assieme ad altre migliaia di persone. Molte delle quali avevano passato le ultime due notti all’aperto, in attesa che si risolvesse la disputa sorta intorno alla mancata liberazione dell’ostaggio israeliano Arbel Yehud. «A un certo punto abbiamo avuto il via libera e ci siamo messi tutti in cammino, a passo veloce. Qualcuno si è fermato a Gaza city, altri sono andati più a nord», ci raccontava ieri Abdallah, mandato dal padre a verificare le condizioni della loro casa nel campo profughi di Jabaliya. Per il giovane e gran parte degli sfollati il ritorno a casa non si è concluso con un sorriso. «Ho telefonato a mio padre, gli ho detto che il nostro appartamento non c’è più, l’intero palazzo è solo un ammasso di pietre e che tutto intorno è solo pietre, lamiere, tubi di ferro. Avevo sognato di poter trovare casa in parte in piedi, sarei riuscito a riparare un paio di stanze. Ma qui è una distruzione per chilometri», ha aggiunto. Il campo profughi di Jabaliya è stato al centro dell’ultima offensiva israeliana nel nord di Gaza.
COME ABDALLAH Kahlout, sfollato da oltre un anno a Deir al Balah, decine di migliaia di uomini, donne e bambini – 300mila secondo Hamas – si sono avviati ieri verso i luoghi dove abitavano un tempo, prima dell’intimazione lanciata dall’esercito israeliano, qualche settimana dopo il 7 ottobre 2023, ad allontanarsi dalle loro case e ad andare rapidamente a sud: circa 650mila palestinesi furono costretti a scappare nel giro di poche ore. Bambini con giacche pesanti e zaini in spalla hanno percorso chilometri mano nella mano, uomini hanno spinto gli anziani in sedia a rotelle, altri hanno camminato con la valigia sulle spalle, altri avevano solo qualche sacchetto. Sul loro cammino hanno incontrato e chiesto indicazioni a giovani con il gilet rosso dispiegati da Hamas per facilitare quella che qualcuno ha chiamato la «Marcia del Ritorno». Più complesso il rientro per chi ha potuto usare un automezzo. Auto e camion ai posti di blocco sulla Salah Edin Road sono dovuti passare sotto apparecchiature speciali manovrate da contractor egiziani, che indossavano giacche nere con la scritta «Comitato egiziano-qatariota», con l’aiuto di una società privata statunitense.
IL FIUME UMANO è andato avanti per tutto il giorno. I video postati sui social e i filmati delle tv di mezzo mondo, lo hanno mostrato nella sua
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Nella foto: Visitatori varcano i cancelli del Museo Memoriale di Auschwitz-Birkenau via Ap Oggi un Lunedì Rosso dedicato alla Memoria. Cosa succede quando il tempo fa scomparire i testimoni diretti degli avvenimenti? Che derive si rischiano mentre si fa sempre più lontana e narrata la storia di un evento come la Shoah. Sono alcune delle questioni che pone il Giorno della Memoria. L’altra è quella del “mai più”, ricordare perché la storia non si ripeta in altre forme. Ma intanto Elmasry Njeem, l’aguzzino delle carceri libiche, dove i migranti vengono detenuti e torturati, è stato liberato dall’Italia che ora dovrà risponderne alla Core penale internazionale. Tra rimpatri di migranti e volontà di eliminare il principio fondante degli Stati Uniti, lo ius soli, il germe mai estirpato del razzismo rischia di rafforzarsi oltre oceano. Per iscriverti gratuitamente a tutte le newsletter del manifesto vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.
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