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Siria Russia, Iran e Turchia sostengono l’integrità della Siria, ma i jihadisti sono ormai alle porte della capitale. Assad resta nel paese

Combattenti dell'opposizione siriana dopo la presa di Hama in Siria foto Ghaith Alsayed/Ap Jihadisti siriani dopo la presa di Hama

Al vertice di Doha i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia ieri hanno confermato l’impegno per la «sovranità, l’unità e l’integrità territoriale della Siria» e per l’avvio di «negoziati e dialogo» sulla base della risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Russi e iraniani hanno parlato di un summit «molto positivo». A dettare legge però è la Turchia sponsor dei gruppi islamici anti-Assad e anti-curdi. Come aveva fatto venerdì, anche ieri Recep Tayyip Erdogan ha cantato vittoria. Bashar Assad, prevede, si arrenderà presto, poi sarà il turno dell’Autonomia curda nel nord-est della Siria. «Spero che la Siria trovi la pace che sogna da 13 anni. I nostri fratelli e sorelle siriani meritano libertà, sicurezza e pace nella loro patria», ha detto durante una visita a Gaziantep. Parole che indicano la volontà di rispedire a casa al più presto i tre milioni di profughi siriani sul suolo turco.

I giochi in effetti sembrano fatti. La reazione fiacca degli alleati di Damasco (Iran, Iraq, Russia e Hezbollah) e il crollo delle forze armate governative – solo ieri non meno di 2000 soldati siriani hanno disertato passando, con le loro armi, la frontiera con l’Iraq – che non hanno opposto alcuna resistenza ai miliziani jihadisti ad Aleppo e Hama, ha aperto la strada alla prossima caduta della città strategica di Homs e, probabilmente, alla stessa Damasco. A facilitare l’avanzata delle formazioni armate guidate da Hay’at Tahrir al Sham (Hts, l’ex ramo siriano di Al Qaeda) verso la capitale è stato il ritiro dell’esercito in pratica da quasi tutto il sud del paese, inclusa la fascia di territorio a ridosso delle linee di armistizio con Israele sul Golan occupato. Deraa, Suwaida, Quneitra sono ora nelle mani di gruppi di opposizione e miliziani drusi. Ieri sera Hts era a pochi chilometri, pare meno di dieci, da Damasco. Secondo voci, i suoi miliziani contavano di entrare subito dei quartieri periferici della città. Il governo ha smentito che il presidente Assad non sia più in Siria. La moglie e i figli e altri membri della famiglia invece sarebbero partiti in parte per Mosca e in parte per gli Emirati. La Giordania ha seccamente smentito il Wall Street Journal che aveva riferito ieri di funzionari egiziani e giordani pronti ad esortare Assad a lasciare il Paese e a formare un governo in esilio. Ieri in serata era previsto un discorso alla nazione del presidente siriano. Poi è stato annullato e al suo posto ha parlato un portavoce dei comandi militari.


Il capo di Hts, Abu Mohammed Al Julani

«Le autorità lanciano appelli alla calma, a non ascoltare comunicati non ufficiali e a resistere stringendosi intorno alle forze armate, ma a Damasco i negozi di generi alimentari sono già vuoti, la valuta siriana perde valore ora dopo ora, ad Aleppo pare che non venga più usata, e la popolazione ha fatto provvista di cibo in vista di tempi a dir poco incerti», diceva ieri al manifesto un cooperante straniero nella capitale siriana. «Non c’è panico, tanti però vanno via e lo fanno attraverso il valico di Masnaa con il Libano che è ancora aperto mentre quello per la Giordania ormai è chiuso. Abbiamo notizie di code lunghe centinaia di metri al confine formate da siriani che lasciano Damasco prima che venga presa dai miliziani. Le ong e le agenzie umanitarie hanno mandato via gran parte dello staff. Noi internazionali attendiamo disposizioni dall’Onu e dai nostri governi», ha aggiunto. L’ambasciata italiana che aveva riaperto qualche mese fa a Damasco, lavora per assistere i cittadini italiani e aiutarli, se vogliono, a lasciare la Siria. I fedelissimi di Bashar al Assad e i clan alawiti al potere da più di mezzo secolo vanno verso le roccaforti lungo la costa mediterranea da dove, in caso di necessità, potranno imbarcarsi. Lì sorgono le due importanti basi russe: a Tartus quella navale e a Hmeimim (Latakiya) quella aerea.

Come l’Iran, alleato di ferro della Siria che sta ora ritirando i suoi consiglieri militari e ufficiali della Guardia rivoluzionaria considerati nemici dai jihadisti, anche la Russia è frastornata, incerta sui passi da muovere. La vittoria di Hts ormai all’orizzonte minaccia di minare la sua influenza geopolitica in Medio Oriente. Mosca cercherà di garantirsi, grazie a una intesa con la Turchia, che le sue basi restino dove sono. I cittadini russi però sono pessimisti considerando che negli anni passati la Russia è stata determinante con la sua aviazione nell’assistere le forze armate siriane e che è accusata di aver ucciso con i bombardamenti centinaia se non migliaia di civili. L’influente blogger Rybar, con oltre 1,3 milioni di follower su Telegram, prevede che i filoturchi «cercheranno di infliggere il maggior danno possibile alla Russia e in particolare di distruggere le nostre basi militari». Sui social i russi scrivono che Mosca ha pagato un prezzo elevato per aver messo piede in Siria tra militari morti e miliardi di rubli spesi per armi e bombe. La Siria, affermano alcuni, è l’Afghanistan della Russia.

Silenzio, colmo di sgomento, anche nei ranghi di Hezbollah. Centinaia, forse di più, di combattenti sciiti libanesi sono morti negli anni passati per difendere la Siria dal jihadismo e per aiutare un esercito che ora è svanito nel nulla