GOVERNO. Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure […]
Migranti sbarcano dall'Ocean Viking al porto di Napoli - Ansa
Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure di stampo esclusivamente repressivo che già in passato hanno dimostrato un totale fallimento. Gli annunci sembrano mirati ad esigenze elettorali ed al riaggiustamento dei rapporti di forza all’interno del governo, piuttosto che alla soluzione di problemi che vengono definiti «epocali».
La proliferazione dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in ogni regione, di fatto con un raddoppio dei posti disponibili (oggi meno di 1.200), e ulteriori strutture di detenzione amministrativa per le procedure accelerate in frontiera, da riservare ai richiedenti asilo che provengono da paesi terzi ritenuti sicuri, come la sezione detentiva del nuovo hotspot di Pozzallo-Modica, che dovrebbe aprire il primo settembre, come la stretta sulle procedure di rimpatrio e sui criteri per l’accertamento dell’età dei minori non accompagnati, con una modifica di quanto previsto dalla legge Zampa del 2017, sono tutte misure che, al di là dei gravi problemi di legittimità costituzionale e di conformità con la normativa europea ed internazionale, sono destinate, non solo a «deludere sul piano dell’efficacia», come sostiene una parte dell’opposizione, ma a produrre in pochi mesi una emergenza umanitaria senza precedenti.
SULLA PELLE delle persone più deboli che comunque arriveranno sulle nostre coste, e comunque resteranno nel nostro paese, in condizioni di assoluta incertezza, anche se si può dare come scontato un leggero calo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia per il peggioramento delle condizioni atmosferiche in autunno. Calo che però potrebbe essere compensato da un aumento dei migranti, forzati a lasciare quei due paesi, per una nuova deflagrazione militare della crisi libica, e per l’inasprimento della persecuzione nei confronti dei migranti subsahariani, da parte della Tunisia di Saied, principale partner della politica estera e migratoria italiana in nordafrica. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni a Lampedusa, a Porto Empedocle ed in tanti centri di prima accoglienza in Italia. E con gli effetti a catena in Libia, ancora spezzata in due tra il governo «provvisorio» di Dbeibah a Tripoli, ed il Parlamento di Tobruk sostenuto dal generale Haftar a Bengasi.
INTANTO la legittimazione internazionale strappata da Dbeibah con la firma del Memorandum d’intesa Ue-Tunisia, fortemente voluto da Meloni, è servita per rigettare nel deserto al confine con la Libia centinaia di persone rastrellate nelle aree urbane della Tunisia sud-orientale (soprattutto a Sfax). E proprio da quei territori si sono moltiplicate le partenze verso l’Italia, a cui ha fatto seguito il congestionamento totale dell’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Altra crisi umanitaria innescata dal governo Meloni, e dal ministro dell’interno Piantedosi, perché allontanando con l’assegnazione di «porti vessatori» e con «fermi amministrativi» le navi del soccorso civile che potevano sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali in diversi porti di destinazione in Sicilia e Calabria, se non con trasbordi su unità della Guardia costiera italiana, è saltata qualsiasi possibilità di programmare gli sbarchi, dopo i salvataggi in mare, ed i trasferimenti via terra, come si verificava nel 2017, prima del Memorandum Gentiloni con la Libia, e prima del Codice di condotta per le Ong imposto da Minniti. Ormai, su oltre 76.000 persone sbarcate quest’anno, soltanto poco più di 4.700 persone sono state recuperate da navi del soccorso civile. Nel 2016, a fronte di oltre 178.000 persone soccorse in mare, le navi delle Ong ne avevano salvate direttamente 46.796, secondo i dati uficiali della Guardia costiera, adesso oscurati. Il cosidetto pull factor, fattore di attrazione operato dal soccorso civile, su cui hanno costruito campagne elettorali e processi penali non è mai esistito. Lo hanno accertato anche i giudici, lo confermano i fatti.
La maggior parte degli «sbarchi» sono ormai «autonomi», magari con l’assistenza a distanza di unità della Guardia costiera o della Guardia di finanza in acque internazionali, e poi con veri e propri interventi di salvataggio nelle acque Sar di competenza italiana. Mentre continua la sostanziale delega alla sedicente guardia costiera libica quando le chiamate di soccorso arrivano dalla zona Sar assegnata al governo di Tripoli. Rimane il grande buco nero della zona Sar maltese, nella quale La Valletta non invia mezzi di soccorso, e possono arrivare anche i libici a sparare sulle navi delle Ong. Ma tutto questo viene ignorato da chi sventola come unica soluzione un nuovo Decreto sicurezza.
Vediamo così che mentre una parte dell’opposizione attacca il governo lamentando la scarsa efficacia degli interventi e degli accordi che dovrebbero garantire una riduzione degli arrivi, le scelte del governo non divergono troppo da quelle inaugurate con il secreto Minniti-Orlando del 2016, sul terreno delle procedure di asilo e della detenzione amministrativa, e poi rafforzate con i due decreti sicurezza Salvini che nel 2018 destrutturavano i sistemi di accoglienza, e nel 2019 criminalizzavano i soccorsi umanitari.
NON È FACILE fare proposte, che pure ci sarebbero, con una opposizione tanto divisa e incapace di autocritica, ed un governo che, attraverso la maggioranza assoluta in parlamento riesce a fare passare norme in aperto contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali. Il ruolo del parlamento è sempre più marginale a vantaggio delle iniziative dei ministri. Ci si lamenta del mancato supporto europeo, ma poi, anche sul piano energetico, si opera secondo una linea politica marcatamente nazionalista, come emerge nei rapporti con la Tunisia e con il governo di Tripoli, fino al disastro diplomatico del recente incontro a Roma, organizzato da Tajani, tra il ministro degli esteri israeliano e la ministra degli esteri del governo Dbeibah, costretta alla fuga in Turchia per gli scontri che ne sono scaturiti in tutta la Libia. Ed anche su questo si comprime il diritto all’informazione.
In ogni caso dovrà ripartire una forte mobilitazione per una regolarizzazione permanente di tutti quanti sono tagliati fuori dalle procedure di ingresso legale per lavoro, per il superamento dei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, per garantire i diritti fondamentali, a partire dai diritti di difesa e dal diritto di chiedere protezione (nelle varie forme di asilo costituzionale) a tutte le persone «comunque presenti» in Italia, dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, dunque anche nelle procedure di identificazione e di protezione «in frontiera» come impone anche l’articolo 2 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98. E quindi sarà necessaria la sospensione immediata della lista dei paesi terzi ritenuti, spesso a torto, «sicuri» con la revisione di tutti gli accordi di riammissione o di cooperazione di polizia con quei governi che non rispettano effettivamente i diritti umani.
La lotta ai trafficanti si può fare ripristinando davvero la cooperazione giudiziaria, non certo patteggiando con le milizie colluse con i criminali. Non si potranno creare per decreto legge zone franche escluse dal rispetto delle garanzie dello stato di diritto, in Nordafrica, ma anche in Italia. Oggi questo vale per le persone di origine straniera, domani potrebbe valere anche per i cittadini italiani