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Non mi avventuro in analisi organiche sul dopo 4 marzo; cerco di osservare, ascoltare, riflettere. C'è di ché; a patto di infrangere i muri di banalità e di presunzione.


Prendo a riferimento originario due pensieri di Raniero La Valle, liberi, come il loro autore, da conformismi e schematismi:
"le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato ... È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità,...". Da troppo tempo omogeneo e vuoto, il nostro tempo.
E successivamente, più nel merito: "... l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura, l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi, ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato ...".
Cosa rimane, dunque, solo l’affermazione di Di Maio e Salvini, oltre al nostro smarrimento?
No. Rimangono i percorsi più ostici, ma anche più ricchi, da esplorare. Per la politica, per le rappresentanze sociali; insomma: per tutti gli attori della vita pubblica. Rimane da riempire di vitali novità per il futuro, il nostro tempo.
Al nostro tempo, ora ancor più, non si addicono la prudenza e il volo radente; ora è tempo di osare, di liberare il pensiero, per l'analisi e per azzardare obiettivi ambiziosi.
In un recente incontro pubblico di campagna elettorale ha provocato qualche scetticismo una affermazione di tal fatta: "E’ tempo di riaprire un discorso pubblico sul potere e sulla sua distribuzione". Parve a taluni un sussulto estremistico. Qui ora lo ribadisco, ed argomento meglio, spero.
Rivolgendomi virtualmente a tutti i soggetti politici i cui simboli campeggiavano sulle schede che ci sono state consegnate ai seggi lo scorso 4 marzo, vorrei chiedere quanto sia diretta, effettiva, aggiornata la loro conoscenza del contesto al cui governo si sono proposti. La domanda non è retorica. Dico conoscenza effettiva degli assetti economici, delle stratificazioni sociali, dell'integrazione fra sistema formativo e domanda culturale dei più giovani (non solo a fini di potenziale collocazione lavorativa), conoscenza dello stato reale delle strutture socio-assistenziali a confronto con la domanda di benessere ... Quale percezione si abbia del grado di coesione sociale e di cultura civica diffusa (dai fondamenti costituzionali, alla fedeltà fiscale, allo spirito di pace e accoglienza)?... Quanto l' equilibrio territoriale fra nord e sud, fra sviluppo e disagio, sia avvertito come fondante l'identità nazionale?
In campagna elettorale non di questo si è discusso.
E come, in quali sedi ed occasioni e forme, quei partiti sanno intessere un confronto diretto, su questi ed altri temi, con la cittadinanza?
Come sanno, le leadership, trarre dal confronto una proposta, una piattaforma di iniziativa?
Dicendola con un solo concetto: quale grado di autonomia - di pensiero e di proposta - sa esprimere chi pensa di poter rappresentare e guidare la comunità? Cioè di esercitare responsabilità, potere.

La questione va posta anche - forse innanzitutto - ai soggetti che ambiscono ad interpretare per il futuro valori di equità, di uguaglianza, di solidarietà, di accoglienza... La sinistra nuova, nuovissima, ricostruita, quale che sia la forma che assumerà dopo la sconfitta elettorale che l'ha investita.
Perché non può esserci "ripartenza" se non da qui. Dallo studio, dalla lettura critica della realtà. Moltissimi, in queste settimane, (da ultimo Walter Veltroni in una recente intervista) hanno solennemente scritto o detto: "La sinistra è stata sconfitta perché ha perso il contatto con il popolo". Banalità. "Contatto", o, piuttosto, capacità di proporre una efficace "lettura critica" della contemporaneità?
La questione sta qui. Si può vivere la discontinuità sancita dall'esito del voto come un piano inclinato verso il peggio (pur in solidale "contatto" con il popolo. La storia lo ha ripetutamente dimostrato), o come "la soglia attraverso cui può fare irruzione l'inedito, l'insperato, ...la cesura attraverso cui si interrompe il tempo omogeneo e vuoto...”, per dirla ancora con Raniero La Valle.
C'è da ri-costruire, non da aggiustare, non solo da cambiare passo per "riprendere contatto". Questa consapevolezza ha animato la scelta di mettere in campo alle elezioni una formazione del tutto nuova. Quella di LeU, rispetto alla scadenza del 4 marzo, si è rivelata scelta frettolosa e troppo improvvisa; per motivi contingenti, sostanzialmente riconducibili al travaglio di ogni nascita. L'esito ne è lo specchio. Tuttavia il suo valore si deve misurare mettendolo a confronto, nel tempo che ci sta di fronte, con quella urgenza di riempire di nuovi contenuti il tempo oggi ancora "omogeneo e vuoto" della politica italiana.
Di che si sta discutendo in queste ore, e chissà per quante settimane ancora? Non di rilettura critica della contemporaneità, non di strategie per il governo dell'economia, della convivenza civile, o per rendere più uguale e coesa la nostra società; bensì delle quote che gli allibratori assegnano a questa o quella ipotetica compagine di governo.
Per questo motivo si deve, a maggior ragione, dare continuità e consistenza programmatica alla sinistra "nuova e unitaria".
Tutto ciò parla, però, anche alle rappresentanze sociali. Esse, tutte, devono intendere la "discontinuità" che il 4 marzo ha introdotto nella politica italiana come una chiamata in causa; ciascuna con la propria identità e gelosa della propria autonomia. Il pluralismo dei soggetti sociali è un propellente essenziale per restituire dinamismo al governo di una società complessa (la "disintermediazione" - il rapporto diretto tra il leader e il popolo - è moneta ormai fuori corso). Analogamente gli eletti alle urne non sono "portavoce" del popolo indistinto di cittadini; onniscienti su tutto e per tutti. Devono essere piuttosto interpreti, mediatori dialettici, portatori di soluzioni. Governanti nel senso di costruttori di consenso ulteriore attorno alla "visione" che li contraddistingue e su cui hanno ottenuto il voto nelle urne.
Infine, e conseguentemente, la "discontinuità" sancita dal risultato elettorale restituisce dignità e valore alle sedi e alle forme - reali, non virtuali - della dialettica politica.
Ci ha pensato l'elettorato - dice La Valle - a "sbrigare alcune pratiche ... Berlusconi, Renzi ... ". Ma basta con i "partiti personali", basta con i "partiti comitati elettorali". No alla de-strutturazione della politica. E' urgente elaborare e praticare una nuova salda "cultura organizzativa". Diversamente la sinistra non potrà ricostruire sé stessa, e con sé la sovranità della democrazia.

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16 marzo, quaranta anni orsono. Il sequestro di Aldo Moro, e l’assassinio di  Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino,  gli uomini della sua scorta, e l’inizio di cinquantacinque fra i più brutti giorni della storia della Repubblica. E’ il caso di parlarne, di discuterne, di ricordare e di riflettere.

 

Guai a dire “acqua passata”, vorrebbe dire alimentare quel purtroppo forte filone di pensiero che svilisce la storia e la memoria, infiacchisce momenti - altrimenti nobili - come le ricorrenze, le commemorazioni e lo studio, ed apre la porta a brutti rischi, come sta oggi avvenendo con la risorgenza nazifascista.

E allora di parlarne abbiamo il dovere, anche noi che magari diciamo di voler ricostruire una sinistra migliore di quella scalcagnata e agonizzante del presente, e anche noi che – anagraficamente datati con cifre che iniziano per 6 o per 7 – diciamo in continuazione di volerci rapportare con chi, invece, il 16 marzo del 1978 era ancora  lontano dal venire alla luce.

Perché quando si parla della vicenda Moro ci si imbatte in un brutto e bifronte cocktail di non detti e di scontatezze, di addolorati trionfalismi e di superficiali e rancorosi giustificazionismi.  E abbastanza poco ci si trova in presenza del confronto con gli stati d’animo di chi ricorda bene quei giorni. Va detto che in questi giorni i mezzi d’informazione ci stanno proponendo ricostruzioni anche pregevoli, problematiche e caratterizzate dalla voglia di capire e spiegare. E di contro, che queste ricostruzioni spesso incontrano la critica severa di tante e tanti, soprattutto di persone che ebbero a soffrire maggiormente perché colpite direttamente nei propri affetti. Credo che si debba fare di più e che ognuno possa dare un proprio, personale e umile, ma utile, contributo.

Io negli anni settanta ero iscritto al PCI, quello di Berlinguer e della ricerca di nuove vie per la “costruzione del socialismo”. Quindi sulla lotta armata  e sul terrorismo avevo delle idee che volevano essere  ben chiare. Ma nel marzo del 1978 ne ero appena uscito, dopo la presa d’atto che ci era “caduto addosso un pezzo di società”, come ebbe a dire un grande intellettuale di sinistra di fronte alla rivolta giovanile del ’77, dove  noi non eravamo stati capaci di dare risposte che non fossero lo schierarsi tout court dalla parte dell’ ordine costituito. Così nel ’78 andavo dicendo, come tanti altri, che di fronte al diffondersi della lotta armata non bastava invocare la repressione e ripetere il mantra del “non si tratta”, ma si doveva innanzi tutto cercare di capire, di spiegare , di studiare e trovare vie d’uscita anche improntate a qualche forma di confronto. E ci trovavamo, in tale posizione, in compagnia nientemeno che del detestato Craxi.

Anche alcune delle guerriglie dei paesi del sud del mondo avevano aspetti inumani, deliranti, atroci e comunque terroristici, anche l’indipendentismo dell’ IRA irlandese (per parlare di un paese del nord del mondo, che si voleva democratico) spesso scadeva in atti criminali rivolti verso civili innocenti, e pur tuttavia non si giustificavano le risposte esclusivamente repressive, liberticide e a loro volta criminali esercitate dai governi contro i quali quelle guerriglie lottavano. Non solo, ma anche nella critica più aspra, il più delle volte si concedeva a quei gruppi  la patente di “movimenti di liberazione”.

Alcuni punti fermi: 

1) l’elaborazione sulla nonviolenza, pur diffusa e in certi momenti molto profonda,  non è stato un patrimonio comune, e quindi chi ha cercato di cimentarsi in essa ha dovuto comunque convivere con chi invece ha sempre continuato a credere alla violenza necessaria, alla violenza giusta, alla violenza proletaria,  ma considerando a lungo e sostanzialmente costoro come compagni di strada, che si dovevano (e si devono) se mai convincere della validità della via nonviolenta e democratica.   

2) D’altra parte, mia è la convinzione, ed era convinzione della maggior parte di coloro con cui mi rapportavo, che in una democrazia, per quanto incompleta e arretrata, per quanto lacerata, per quanto attraversata da profonde ingiustizie, non sia comunque giustificabile il ricorso alla violenza armata, alla logica di guerra, alla scelta della soppressione fisica di chi venga di volta in volta considerato il nemico.

3) Convinzione, altresì, che la lotta armata, e qualsiasi fenomeno di violenza terroristica, siano in contrasto totale con quella Costituzione della Repubblica, che - se mai -  andava e va difesa da tutti i tipi di attacchi (purtroppo frequenti, e da varie parti), e che invece l’insorgenza armata aveva in spregio, preconizzando in maniera più o meno dichiarata una legge del più forte, foriera di una dittatura (del proletariato ?), in cui tutto si legittima, a partire dall’orrenda istituzione della pena di morte, accettata, teorizzata e poi praticata, verso i propri nemici, definiti  con cinismo arbitrario e feroce nemici del popolo.  

4) L’ esperienza brigatista e l’insieme delle scelte di passaggio alla lotta armata avvenivano non già in un momento di depressione e di annullamento della  società civile, di instaurazione di una strisciante dittatura, ma in una fase assai contraddittoria, in cui repressione di piazza, momenti di mortificazione dei diritti e tentativi di ristrutturazione reazionaria del capitalismo e delle  istituzioni si alternarono a  fasi di avanzamento generale della società, di conquiste civili e sociali significative, che non per caso oggi vediamo messe gravemente  in discussione, e la difesa delle quali ci sembra un fronte particolarmente avanzato.

Ma questi punti fermi non volevamo ci impedissero (e non vorrei ci impedissero oggi) di avere gli occhi aperti su alcune constatazioni molto chiare nel giudizio sulla società, sullo Stato e sul rapporto con esso:

- Come se non fosse (stato) vero che dal dopoguerra in avanti si siano verificati numerosi tentativi di stampo restauratore, con tentativi di colpo di stato o comunque di involuzione autoritaria.  

– Come se non fosse  vero  il reiterato fenomeno del riemergere delle aggregazioni fasciste.

– Come se non vi fossero state più volte scelte istituzionali di tipo reazionario (una per tutte quella del governo Tambroni del 1960), che solo la mobilitazione popolare e di sinistra seppe sventare.

– Come se non fosse  vero che l’uso delle forze dell’ordine, meritorie nella lotta alla criminalità organizzata, viceversa , nel conflitto sociale sia quasi sempre stato orientato a colpire le istanze di progresso, di democrazia e di giustizia, spesso anche se portate avanti in maniera totalmente pacifica, e a difendere le stanze del potere e i privilegi dei padroni, anche quando palesemente illegittimi e improntati ad uno spirito francamente anticostituzionale.

– Come se non fosse vero che  le forse dell’ordine abbiano organizzato ed attuato più volte operazioni d’infiltrazione  e di provocazione anche diretta, al fine di esasperare il livello di scontro e poter aprire la strada a momenti repressivi della massima brutalità

– Come se non fosse vero che numerosi lavoratori, disoccupati e studenti abbiano perduto la vita sulle piazze in numerosi momenti di protesta anche la più democratica, e molti di più per incidenti sul lavoro, malattie professionali, mancato rispetto di regole pur esistenti

– Come se non fosse vero che pezzi significativi (comodamente poi definiti deviati, ma spesso collegati con alte o altissime cariche) delle istituzioni siano state collegate agli episodi di involuzione autoritaria, di tentativi  eversivi, anche ricorrendo alle stragi, in parte rimaste impunite.

– Come se non fosse vero che le scelte politiche di quel tipo siano  in gran parte state guidate  dall’obbedienza a scelte politiche internazionali, senza spirito critico, autonomia e neppure attenzione all’interesse nazionale.

Ed è duro dirlo, ma fu l’analisi di questi aspetti innegabili, contro i quali le istituzioni democratiche e la stessa sinistra si dimostrarono spesso incerti, a spingere all’estremo una parte dei movimenti più radicali, e pure a far sì che essi avessero un consenso abbastanza ampio in certi momenti ed in certi luoghi. Il fenomeno della mancata partecipazione  operaia alle mobilitazioni contro il terrorismo, e più in generale del fiancheggiamento alle scelte terroristiche, è stato più volte enfaticamente banalizzato, non ebbe mai una dimensione di massa (che invece ebbe tale partecipazione), ma indubbiamente  ebbe luogo in più di un’occasione e sarebbe stolto far finta di nulla.

Ecco, a partire da questa riflessione (e molti avranno da proporne altre), sarebbe buona cosa che si discutesse fra di noi e con chiunque abbia voglia di farlo, perché tutto un pezzo di storia non finisca nel dimenticatoio; e perché non si faccia di tutta l’erba un fascio con cose fra loro diverse e anzi contrapposte. Troppo spesso, per esempio, si racconta della lotta armata quando si ricorda il ’68, o si mostrano le immagini dei grandi cortei operai quando si narra delle BR. Così come troppo spesso si vedono le fotografie di Piazza Fontana o dell’Italicus parlando genericamente di anni di piombo.

E credo che una piccola realtà della Sinistra come Ravenna in Comune, che a livello locale è riuscita a mettere insieme persone assai diverse fra loro in un’ elaborazione condivisa, abbia tutto il titolo – in questi cinquantacinque giorni che saranno sicuramente ricchi di commenti - per prendere la parola in una discussione del genere.

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Io amo Massimo Recalcati, psicanalista. Come amavo il visionario e incomprensibile Jacques Lacan, di cui Recalcati è studioso e interprete. L’ho ascoltato nelle interviste e ho letto con estremo godimento tutti i suoi scritti, ammirandone l’intelligenza e la straordinaria capacità divulgativa. E sono certo che se lo avessi avuto come docente scolastico la mia esperienza a scuola non sarebbe stata così travagliata.

 

Detto questo, leggo con sconcerto le dichiarazioni del Recalcati politico, del suo endorsement al PD e Renzi, unico leader, a suo dire, in grado di unirla e farla crescere. Nonché delle sue colte argomentazioni contro i contestatori renziani interni al partito (ora fuori), scomodando in questo persino la mitica figura di Telemaco e bollandoli come le mummie del no. Sono molto preoccupato per questa schizofrenia, per l’evidente dicotomia fra i due Recalcati.

 

Ad esempio, martedì 20 su Repubblica scrive a proposito di Di Maio, in merito al fatto di aver accettato la candidatura a premier: Quale assenza di giudizio critico su se stessi comporta l’aver accettato questa candidatura?… Quanti accetterebbero un incarico di questa rilevanza senza avere la più pallida idea di cosa significhi governare la cosa pubblica? E’ questa assenza di consapevolezza dei propri limiti che fa davvero tremare i polsi. Un fantasma di onnipotenza e di purezza totalmente sganciato dalla realtà. Egiù ad accusare di patologia bipolare i cinque stelle; giudizi, in parte, certamente anche condivisibili.

 

Però c’è una cosa che vorrei far notare: come si dice in Romagna, io ho fatto le scuole basse, non ho studiato a fondo il geniale Lacan, ho solo una infarinatura di psicanalisi e non sono docente di nulla. Forse proprio grazie a questa mia mente semplice ho notato che se, nei suoi discorsi, si sostituisce il nome di Di Maio con Renzi non cambia nulla, tutti collimano perfettamente, sono due nomi praticamente intercambiabili.

Capite ora perché sono preoccupato? Dove è finita, mi chiedo, la fine intelligenza dell’uomo? ma soprattutto l’acume dello studioso, dell’analista capace di scovare i veri caratteri e l’animo recondito delle persone? Ecco io vorrei anche segnalarglielo, ma a quale dei due?

 

 

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 Ambrogio Lorenzetti - Effetti del buon governo in città - Siena Palazzo Pubblico

E così a Faenza avremo un altro supermercato. Incredibile. Quando ne ho sentito parlare pensavo ad uno scherzo.
Quale amministrazione al mondo può seriamente pensare di acconsentire l’apertura di un nuovo discount in una città di circa 60000 abitanti dove ci sono già cinque supermercati Conad, tre Coop, un LIDL, due discount e due Despar. Il nuovo discount della catena austriaca Hofer sorgerà di fronte al supermercato Le Cicogne e a poche centinaia di metri dall’ex Cisa, dove dovrebbe collocarsi il nuovo LIDL. Tra l’altro, tutti e tre, in una zona ad altissimo impatto ambientale per la mole di traffico presente. Tutto questo dopo anni in cui si chiede inutilmente di valorizzare le piccole botteghe commerciali, artigianali e il centro storico della città.

Perché allora? Naturalmente la domanda è stata posta in ogni sede in cui sia ancora presente un minimo di buon senso. La risposta della nostra amministrazione comunale è stata: ci sono regole (fatte da loro, è bene precisare) che impediscono di opporsi! Segnalo che di solito si dice che lo vuole l’Europa, qui si vola già più basso e si incolpa l’Unione della Romagna faentina. Bene. Ricordo che quando contestammo l’allargamento del Conad stradone che devasterà irrimediabilmente l’Arena Borghesi, ci risposero che eravamo faziosi. Quando ci lamentammo dello spostamento della Casa della Salute che sta creando notevole disagio ai cittadini, ci dissero che era stata una apposita commissione dell’Azienda Sanitaria a scegliere il posto, dove però, guarda caso, c’erano dei locali sfitti del Conad da affittare. Quando facemmo notare l’obbrobrio della pulizia etnica del fiume Lamone, dove è stato estirpato ogni genere di vegetale esistente, stravolgendo ambiente e paesaggio, ci risposero scaricando la colpa sulla ditta incaricata della pulizia. E si potrebbe tranquillamente continuare così.

Esasperato da queste continue incomprensioni ho cercato allora una risposta nella semantica; ho aperto il vocabolario alla parola “amministrare” e ho letto che significa: avere cura. Non si dice semplicemente che bisogna dirigere in modo disattento o burocratico, niente affatto, si afferma invece un principio importante e preciso: amministrare un bene che è della collettività è cosa da fare con la massima attenzione e sollecitudine (come si cura anche un ammalato).

Mi spingo oltre, dicendo che le Amministrazioni comunali migliori, quelle rimaste scolpite nella memoria dei cittadini italiani, svolgevano il loro compito in modo addirittura amorevole. Ebbene, questa Amministrazione, alla luce di tutti questi fatti, può dire di governare il territorio faentino in modo attento e amorevole? Può dire che sta prendendosi cura di tutti noi?

 

 

 

 

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Stamattina mi sono trovato tra le mani l'articolo, fresco di stampa (on line) dell'amico Gilberto Borghi, che trovate qui di seguito.

Quello descritto dall'articolo è un esempio fulgido di quello che sostenevo nei miei ultimi scritti e cioé che bisogna andare a fondo nel confronto sincero fra opinioni diverse; è un esempio concreto di come scovare i conflitti, dove ce ne sono, di risoluzione dei conflitti - con coraggio e determinazione - in una cornice condivisa. Pensare quindi ad educare e ad educarci andando alle radici di una convivenza democratica. E poi viverla finalmente questa democrazia, non solo agognarla, svilendola come succede a volte. Una democrazia non solo decantata, incensata ed edulcorata, ma soprattutto una democrazia praticata.

Giorgio Gatta

 


 

In classe la discussione sui fatti di Macerata degenera in uno scontro. Così finiamo a parlare di che cos'è la democrazia

Non me lo aspettavo. Finora era una classe tranquilla, disponibile a lavorare, ma senza particolare interesse. E ci sta. Ma mentre entravo in classe, dal fondo, attraversando le due file di banchi, Alberto, quasi in "scivolata", da dietro, mi ha sorpreso: "Prof. lei che cosa farebbe ai due immigrati di Macerata?". Ero assorto. "Scusa, non ho capito". "Prof. quelli che sono accusati per la morte di Pamela. Sembra li abbiano scagionati dall'omicidio (quel giorno a leggere i giornali sembrava così ndr), ma sono rimasti indagati. Che cosa dovremmo fare con tipi del genere?".

"Ok, ragazzi, provate a sistemarvi intanto che rispondo ad Alberto. Indagato non vuol dire colpevole. Capisco che la giustizia italiana non sia sempre attendibile, ma fino a prova contraria in una democrazia non c'è da fare nulla contro chi è solamente indagato". "Va beh, prof - prosegue Alberto - non mi vorrà dire che secondo lei sono innocenti. Hanno ammesso anche loro che erano lì dove Pamela è morta. Puliti puliti non devono essere". La classe intanto si è messa in silenzio e le ultime parole di Alberto sono arrivate chiare e limpide fino all'ultimo banco. Fino alle orecchie di Elisabetta, minuta, viso sereno, pulita, solitamente attenta e tranquilla.

"Ma tu non puoi continuare tutte le volte che parli a sputare veleno contro gli immigrati. No davvero! Sta roba mi sta troppo bruciando. Anche ieri con italiano hai sparato una sentenza contro chi viene a portarci via il lavoro. Come se il lavoro noi ce l'avessimo!! Ma ti rendi conto che sei razzista!!". Il volume della voce, il tono, e lo sguardo di Elisabetta sono stati un fulmine a ciel sereno. Tutta la classe si è girata verso di lei, incredula. Alberto compreso. Un istante lunghissimo di silenzio ha tranciato l'aria. Io, sbigottito dalla furia e dall'impeto con cui Elisabetta è esplosa, non ho trovato le parole per sbloccare il momento. Enrico, dal primo banco, dritto in piedi ha detto: "Anche a me ieri ha dato fastidio la frase di Alberto, ma non c'è bisogno di reagire così Betta. Alla faccia della razionalità laica!"

Ancora più stupito chiedo: "Ragazzi che cosa sta succedendo? Fatemi capire". "No prof. - continua Enrico - è che ieri abbiamo discusso un po' nell'ora di italiano per la faccenda di Macerata. E alla fine il prof. ha richiamato la classe perché se si discute bisogna farlo senza emozioni, utilizzando la razionalità laica, attraverso la quale ci si fa capire". "Ah, - rispondo -. Mi colpisce che vi si chieda di discutere lasciando da parte le emozioni. Noi siamo sempre tutt'interi. E se Elisabetta non ha trovato modo di esprimere le sue emozioni ieri, forse oggi sono ancora più forti e difficilmente governabili proprio per questo. La scommessa di una buona educazione è quella di permettervi di discutere con le emozioni, ma senza che queste diventino ingestibili. Se uno sputa sentenze contro gli immigrati lo fa perché emotivamente non è tranquillo. Qualcosa della questione lo tocca personalmente. E se uno sputa sentenze su chi sputa sentenze sugli immigrati è nelle stesse condizioni dell'altro. Qualcosa lo tocca personalmente. Dire con violenza a qualcuno "sei razzista", rischia di farci essere altrettanto razzisti".

Intanto ho fatto finta di non guardare Elisabetta, ma non l'ho perso di vista un istante. Ha sbuffato un paio di volte, ha alzato la testa con attenzione e poi però si è rintanata nel banco, dietro una carezza della compagna di banco. "Betta - proseguo - credo tu abbia tutti i diritti di esprimere la tua emozione sulle parole di Alberto. E altrettanto lui ha diritto di esprimere le sue sugli immigrati. Ma questo va fatto senza dare giudizi. Quando generalizziamo così tanto perdiamo di vista le persone reali. E la nostra emozione ha campo libero per devastare le nostre idee. Stiamo coi piedi per terra, cioè non perdiamo mai di vista le persone reali. Betta, davvero pensi che Alberto sia razzista?".

Elisabetta non si muove, diventa rossa, e si trattiene. Il silenzio imbarazza la classe. Poi finalmente: "Ok, prof. Ho sbagliato, non era il tono giusto. Non condivido quello che Alberto dice, forse ammetto che lui abbia buoni motivi per pensarlo. Ma non credo che lui abbia il diritto di dirlo in questo modo, perciò anche lui dovrebbe scusarsi". "Grazie Betta, e onore a te, per la tua sincerità. Alberto, che ne dici?" "Prof. io ho detto quello che penso, non posso mica cambiare idea solo perché qualcuno non è d'accordo con me!". Lo interrompo. "No, Alberto la questione non è questa. La questione è sul modo con cui dici le cose. Nessuno ti sta chiedendo di cambiare idee, ma di trovare modi più rispettosi di esprimerle. Su questo Elisabetta ha ragione, dovresti chiedere scusa".

"Eh, prof. io sono fatto così. Mica potete chiedere di cambiarmi!". "No, no, Alberto - ribatto - non sei fatto solo così. Se ti esprimi con tanto rancore contro gli immigrati ci sarà un motivo. Non credo che tu parli sempre così di ogni cosa, con ogni persona. Perciò mostraci che puoi fare meglio. La democrazia comincia proprio qui, quando io, nelle mie relazioni, provo a dare il meglio che ho. Per me stesso. Per sentire che sono all'altezza di essere almeno uomo. È per questo stesso motivo che da sempre l'uomo emigra, quando le condizioni di vita non gli permettono più di essere almeno uomo. Dobbiamo farci insegnare da loro ad essere uomini?".

La classe mi guarda fissa, in silenzio, attenta. Non era mia intenzione parlare della democrazia, ma mi è uscita così. E capisco che aspettano che io tiri l'ultimo filo. "A proposito di elezioni, visto che qualcuno di voi voterà già, sarebbe serio, secondo me, poter scegliere persone che sanno gestire una discussione in modo umano, almeno umano. Un criterio di scelta strano se volete, ma credo che darebbe risultati un po' diversi da ciò che già ora i sondaggi mostrano".

PS. Finita la lezione, mentre uscivo e loro facevano ricreazione, con la coda dell'occhio ho visto Alberto alzarsi e andare verso il banco di Elisabetta.

 

SECONDO BANCO Essere almeno uomini

di Gilberto Borghi | 13 febbraio 2018

Gilberto Borghi, nasce e vive a Faenza, laurea in Filosofia, baccalaureato in Teologia e master in Pedagogia clinica, insegna Religione cattolica nelle scuole superiori. Formatore educativo e co-fondatore della cooperativa Kaleidos, lavora anche come pedagogista clinico.
Ha pubblicato Un Dio inutile. I giovani e la fede nei post di un blog collettivo (2013); Credere con il corpo. I giovani e la fede nell’epoca della realtà virtuale (2014); Un Dio fuori mercato. La fede al tempo di Facebook, uscito il 21 settembre 2015. Ha curato insieme a Chiara Gatti: Audaci e creativi. Esperienze di una nuova pastorale in Italia, uscito il 25 settembre 2017.
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Quando l’indifferenza, la sottovalutazione, le giustificazioni più o meno in buona fede, entrano nei cuori e nelle menti delle persone il male lavora indisturbato.

Al mio amico Giorgio Gatta rispondo con un racconto tratto dalla vita della mia famiglia e che mi è stato (per fortuna) tramandato.

Sono nata nel 1942 quando la guerra, voluta da Mussolini, era in pieno svolgimento.

I miei genitori e i miei nonni hanno vissuto il ventennio fascista, da giovani i primi, da adulti i secondi.

I loro racconti hanno potuto fare un quadro generale nella mia mente perché descrivevano la vita di tutti i giorni, le sensazioni che vivevano i cittadini, i discorsi che giravano nei luoghi di ritrovo, l’incapacità di capire appieno quello che stava succedendo.

La mia famiglia è stata testimone dei rastrellamenti, delle incursioni dei tedeschi nelle case dei contadini alla ricerca dei partigiani e degli oppositori che venivano segnalati loro dai fascisti del paese in Toscana dove vivevamo.

Prima della guerra l’escalation della furia fascista, a partire dagli anni Venti, fu assorbita gradualmente dal popolo italiano galvanizzato dall’uomo forte che prende in mano le redini della vita di tutti e ti fa sentire protetto e al sicuro. (Quanto ci costa la sicurezza in libertà, autodeterminazione, creatività, arte, cultura e tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta?)

Le gente non si accorse o non volle accorgersi di quello che si andava delineando all’orizzonte, finché non iniziarono a passare i treni merci pieni di deportati nei campi di sterminio.

Fu indifferenza? fu sottovalutazione? fu “Io mi faccio i fatti miei perché voglio vivere tranquillo”? Facciamo decantare, poi ognuno tornerà alla sua vita di sempre come se niente fosse accaduto.

Così arrivarono le leggi razziali nel 1938, gli ebrei furono stanati casa per casa (Salvini: “Se arriverò al governo andrò a prendere i clandestini casa per casa”), ma neanche allora il popolo italiano insorse.

Neanche allora tutti ebbero veramente coscienza di quello che accadeva sotto i loro occhi, soltanto alcuni addetti ai lavori (mio padre lavorava alla stazione ferroviaria di Compiobbi, sulla linea allora Napoli-Roma-Firenze-Bologna-Milano).

E fu così che di notte incominciarono a passare dalla stazione treni bestiame carichi di un’umanità umiliata, divenuta merce di scarto trattata peggio degli animali da buttare al macero.

Quando la storia non viene più raccontata, quando nelle scuole non c’è traccia della storia del ‘900, quando ai giovani non viene trasmessa la memoria, tutto diventa normale o quasi, “Ma sì, in fondo sono solo episodi, abbiamo gli anticorpi, tranquillizziamoci, lasciamo decantare, non alziamo i toni”. Invece dobbiamo alzare barriere di resistenza, far sapere che non resteremo inerti perché la tragedia che è accaduta non si ripeta, dobbiamo essere delle sentinelle della Costituzione repubblicana che ripudia il fascismo, l’antisemitismo e il razzismo in ogni sua forma e manifestazione.

Prima vennero a prendere gli zingari, e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht

 

 

 

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