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16 marzo, quaranta anni orsono. Il sequestro di Aldo Moro, e l’assassinio di  Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino,  gli uomini della sua scorta, e l’inizio di cinquantacinque fra i più brutti giorni della storia della Repubblica. E’ il caso di parlarne, di discuterne, di ricordare e di riflettere.

 

Guai a dire “acqua passata”, vorrebbe dire alimentare quel purtroppo forte filone di pensiero che svilisce la storia e la memoria, infiacchisce momenti - altrimenti nobili - come le ricorrenze, le commemorazioni e lo studio, ed apre la porta a brutti rischi, come sta oggi avvenendo con la risorgenza nazifascista.

E allora di parlarne abbiamo il dovere, anche noi che magari diciamo di voler ricostruire una sinistra migliore di quella scalcagnata e agonizzante del presente, e anche noi che – anagraficamente datati con cifre che iniziano per 6 o per 7 – diciamo in continuazione di volerci rapportare con chi, invece, il 16 marzo del 1978 era ancora  lontano dal venire alla luce.

Perché quando si parla della vicenda Moro ci si imbatte in un brutto e bifronte cocktail di non detti e di scontatezze, di addolorati trionfalismi e di superficiali e rancorosi giustificazionismi.  E abbastanza poco ci si trova in presenza del confronto con gli stati d’animo di chi ricorda bene quei giorni. Va detto che in questi giorni i mezzi d’informazione ci stanno proponendo ricostruzioni anche pregevoli, problematiche e caratterizzate dalla voglia di capire e spiegare. E di contro, che queste ricostruzioni spesso incontrano la critica severa di tante e tanti, soprattutto di persone che ebbero a soffrire maggiormente perché colpite direttamente nei propri affetti. Credo che si debba fare di più e che ognuno possa dare un proprio, personale e umile, ma utile, contributo.

Io negli anni settanta ero iscritto al PCI, quello di Berlinguer e della ricerca di nuove vie per la “costruzione del socialismo”. Quindi sulla lotta armata  e sul terrorismo avevo delle idee che volevano essere  ben chiare. Ma nel marzo del 1978 ne ero appena uscito, dopo la presa d’atto che ci era “caduto addosso un pezzo di società”, come ebbe a dire un grande intellettuale di sinistra di fronte alla rivolta giovanile del ’77, dove  noi non eravamo stati capaci di dare risposte che non fossero lo schierarsi tout court dalla parte dell’ ordine costituito. Così nel ’78 andavo dicendo, come tanti altri, che di fronte al diffondersi della lotta armata non bastava invocare la repressione e ripetere il mantra del “non si tratta”, ma si doveva innanzi tutto cercare di capire, di spiegare , di studiare e trovare vie d’uscita anche improntate a qualche forma di confronto. E ci trovavamo, in tale posizione, in compagnia nientemeno che del detestato Craxi.

Anche alcune delle guerriglie dei paesi del sud del mondo avevano aspetti inumani, deliranti, atroci e comunque terroristici, anche l’indipendentismo dell’ IRA irlandese (per parlare di un paese del nord del mondo, che si voleva democratico) spesso scadeva in atti criminali rivolti verso civili innocenti, e pur tuttavia non si giustificavano le risposte esclusivamente repressive, liberticide e a loro volta criminali esercitate dai governi contro i quali quelle guerriglie lottavano. Non solo, ma anche nella critica più aspra, il più delle volte si concedeva a quei gruppi  la patente di “movimenti di liberazione”.

Alcuni punti fermi: 

1) l’elaborazione sulla nonviolenza, pur diffusa e in certi momenti molto profonda,  non è stato un patrimonio comune, e quindi chi ha cercato di cimentarsi in essa ha dovuto comunque convivere con chi invece ha sempre continuato a credere alla violenza necessaria, alla violenza giusta, alla violenza proletaria,  ma considerando a lungo e sostanzialmente costoro come compagni di strada, che si dovevano (e si devono) se mai convincere della validità della via nonviolenta e democratica.   

2) D’altra parte, mia è la convinzione, ed era convinzione della maggior parte di coloro con cui mi rapportavo, che in una democrazia, per quanto incompleta e arretrata, per quanto lacerata, per quanto attraversata da profonde ingiustizie, non sia comunque giustificabile il ricorso alla violenza armata, alla logica di guerra, alla scelta della soppressione fisica di chi venga di volta in volta considerato il nemico.

3) Convinzione, altresì, che la lotta armata, e qualsiasi fenomeno di violenza terroristica, siano in contrasto totale con quella Costituzione della Repubblica, che - se mai -  andava e va difesa da tutti i tipi di attacchi (purtroppo frequenti, e da varie parti), e che invece l’insorgenza armata aveva in spregio, preconizzando in maniera più o meno dichiarata una legge del più forte, foriera di una dittatura (del proletariato ?), in cui tutto si legittima, a partire dall’orrenda istituzione della pena di morte, accettata, teorizzata e poi praticata, verso i propri nemici, definiti  con cinismo arbitrario e feroce nemici del popolo.  

4) L’ esperienza brigatista e l’insieme delle scelte di passaggio alla lotta armata avvenivano non già in un momento di depressione e di annullamento della  società civile, di instaurazione di una strisciante dittatura, ma in una fase assai contraddittoria, in cui repressione di piazza, momenti di mortificazione dei diritti e tentativi di ristrutturazione reazionaria del capitalismo e delle  istituzioni si alternarono a  fasi di avanzamento generale della società, di conquiste civili e sociali significative, che non per caso oggi vediamo messe gravemente  in discussione, e la difesa delle quali ci sembra un fronte particolarmente avanzato.

Ma questi punti fermi non volevamo ci impedissero (e non vorrei ci impedissero oggi) di avere gli occhi aperti su alcune constatazioni molto chiare nel giudizio sulla società, sullo Stato e sul rapporto con esso:

- Come se non fosse (stato) vero che dal dopoguerra in avanti si siano verificati numerosi tentativi di stampo restauratore, con tentativi di colpo di stato o comunque di involuzione autoritaria.  

– Come se non fosse  vero  il reiterato fenomeno del riemergere delle aggregazioni fasciste.

– Come se non vi fossero state più volte scelte istituzionali di tipo reazionario (una per tutte quella del governo Tambroni del 1960), che solo la mobilitazione popolare e di sinistra seppe sventare.

– Come se non fosse  vero che l’uso delle forze dell’ordine, meritorie nella lotta alla criminalità organizzata, viceversa , nel conflitto sociale sia quasi sempre stato orientato a colpire le istanze di progresso, di democrazia e di giustizia, spesso anche se portate avanti in maniera totalmente pacifica, e a difendere le stanze del potere e i privilegi dei padroni, anche quando palesemente illegittimi e improntati ad uno spirito francamente anticostituzionale.

– Come se non fosse vero che  le forse dell’ordine abbiano organizzato ed attuato più volte operazioni d’infiltrazione  e di provocazione anche diretta, al fine di esasperare il livello di scontro e poter aprire la strada a momenti repressivi della massima brutalità

– Come se non fosse vero che numerosi lavoratori, disoccupati e studenti abbiano perduto la vita sulle piazze in numerosi momenti di protesta anche la più democratica, e molti di più per incidenti sul lavoro, malattie professionali, mancato rispetto di regole pur esistenti

– Come se non fosse vero che pezzi significativi (comodamente poi definiti deviati, ma spesso collegati con alte o altissime cariche) delle istituzioni siano state collegate agli episodi di involuzione autoritaria, di tentativi  eversivi, anche ricorrendo alle stragi, in parte rimaste impunite.

– Come se non fosse vero che le scelte politiche di quel tipo siano  in gran parte state guidate  dall’obbedienza a scelte politiche internazionali, senza spirito critico, autonomia e neppure attenzione all’interesse nazionale.

Ed è duro dirlo, ma fu l’analisi di questi aspetti innegabili, contro i quali le istituzioni democratiche e la stessa sinistra si dimostrarono spesso incerti, a spingere all’estremo una parte dei movimenti più radicali, e pure a far sì che essi avessero un consenso abbastanza ampio in certi momenti ed in certi luoghi. Il fenomeno della mancata partecipazione  operaia alle mobilitazioni contro il terrorismo, e più in generale del fiancheggiamento alle scelte terroristiche, è stato più volte enfaticamente banalizzato, non ebbe mai una dimensione di massa (che invece ebbe tale partecipazione), ma indubbiamente  ebbe luogo in più di un’occasione e sarebbe stolto far finta di nulla.

Ecco, a partire da questa riflessione (e molti avranno da proporne altre), sarebbe buona cosa che si discutesse fra di noi e con chiunque abbia voglia di farlo, perché tutto un pezzo di storia non finisca nel dimenticatoio; e perché non si faccia di tutta l’erba un fascio con cose fra loro diverse e anzi contrapposte. Troppo spesso, per esempio, si racconta della lotta armata quando si ricorda il ’68, o si mostrano le immagini dei grandi cortei operai quando si narra delle BR. Così come troppo spesso si vedono le fotografie di Piazza Fontana o dell’Italicus parlando genericamente di anni di piombo.

E credo che una piccola realtà della Sinistra come Ravenna in Comune, che a livello locale è riuscita a mettere insieme persone assai diverse fra loro in un’ elaborazione condivisa, abbia tutto il titolo – in questi cinquantacinque giorni che saranno sicuramente ricchi di commenti - per prendere la parola in una discussione del genere.