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da NuovaAtlantide.org

Un mio caro amico ha sintetizzato la dinamica che ha portato alla vittoria di Bonaccini e del PD in Emilia-Romagna con queste parole che condivido: “A sinistra Bonaccini ha recuperato grazie alla paura del “lupo”, a destra ha drenato presentandosi come la forza della stabilitá, che non tocca i rapporti di forza ma li consolida”. Il mio giudizio sulla politica della Regione di questi anni è che essa sia stata espressione, nelle sue linee fondamentali, di quel “neoliberismo progressista” di cui il PD è il principale perno nel nostro paese.
In Emilia-Romagna quell’aggettivo ” progressista” risente più che altrove della lunga storia della “regione rossa” che ha alle spalle. E dunque è migliore di quello che mediamente il PD riesce a esprimere nazionalmente. Ma la collocazione del PD nel contesto sociale è saldamente ancorata agli interessi forti, non più vissuti come distinti, per non dire alternativi, ai ceti popolari. Il PD vive la società come una melassa di soggetti indistinti annegati nel binomio onnicomprensivo e salvifico di “lavoro e impresa”. Sotto questa visione pacificata situazioni anche estreme di sfruttamento del lavoro, di abbandono e degrado sociale, di decadimento qualitativo e privatizzazione dei servizi sociali, di cementificazioni selvagge ( tarate spesso sulle esigenze dei costruttori) si producono senza sollevare eccessivo scandalo. D’altra parte i gruppi dirigenti del centrodestra condividono quelle politiche ed anzi le vorrebbero attuare in misura ancora più drastica.
La esplosione del voto grillino degli anni passati si era alimentata di quote crescenti di malcontento e di stanchezza nei confronti di queste politiche. Quando il voto grillino si è dissolto per effetto delle sue contraddizioni, della sua incapacità di dare uno sbocco al malcontento, come si è visto coi Governi Conte, una parte di quel voto è trasmigrato verso la Lega facendone il primo partito regionale alle Europee del 2019. Ma la Lega, come si è detto, è un partito non solo di protesta populista, bensì anche una forza che ha cercato, finora con un buon successo a livello nazionale, di unire la protesta populista a interessi conservatori molto simili a quelli che al momento in maggioranza, almeno in Emilia Romagna, sono vicini al PD. L’operazione della Lista Bonaccini

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È una buona notizia che l’Emilia Romagna non sia passata sotto il governo di estrema destra della Lega, e che il plebiscito mediatico costruito da Matteo Salvini non sia andato a buon fine. Ma francamente sono molto scettico, e a tratti preoccupato, per la lettura entusiastica che di questo passaggio elettorale si sta dando anche nella sinistra che da tempo ha saggiamente deciso di non vedere nei turni elettorali i generatori del futuro (ma semmai di investire in quella rete dal basso di cui fa parte anche una realtà come “Volere la luna”). Provo a spiegare perché.
Innanzitutto, mi pare che la retorica post-elettorale stia inducendo a travisare i reali contorni numerici, e con essi i moventi profondi di quello che è successo. Come ha ben scritto Marco Revelli la maggior parte del territorio dell’Emilia Romagna (e proprio la parte più povera, e in ogni senso marginale) ha votato Lega. E se si guardano i numeri assoluti, c’è ben poco da stare allegri: Bonaccini ha avuto, infatti, 1.195.742 voti e la Borgonzoni 1.014.672. Non certo ordini di grandezza così lontani (lo scarto è di 181.000 voti): anzi, abbastanza vicini da indurre a parlare di una regione spaccata quasi esattamente a metà, in cui né il mito buon governo né la pregiudiziale antifascista sembrano poi così ben in salute. A fare la piccola, ma decisiva, differenza finale è stata evidentemente l’affluenza al voto (indubbiamente favorita dal clamore mediatico suscitato dalle Sardine), che però è ben lungi dall’essere da record: attestandosi al di sotto del 70 per cento e al secondo posto negativo nella storia delle elezioni regionali emiliane. Di meno gli emiliani avevano votato solo quando elessero il Bonaccini 1 (che nel 2014 fu votato dal 49% di un’affluenza bloccata al 37,7%). Anche la retorica del popolo chiamato in massa a scongiurare la caduta della città in mano ai barbari non fa dunque i conti con la realtà di un terzo degli aventi diritto al voto che rimane tranquillamente a casa, trovando indifferenti le due soluzioni sul piatto.
È dunque abbastanza evidente che domenica scorsa non ha vinto né Bonaccini né il “buon governo” né tantomeno il Partito: ha vinto (e davvero di misura) un comprensibile voto contro. Contro Salvini, e il suo fascismo citofonico. Ma si tratta di una vittoria paradossale: la presenza di una estrema destra potenzialmente eversiva del sistema di valori costituzionale, diventa di fatto la garanzia del mantenimento al potere di quella destra (non sempre) moderata che è diventato il Pd emiliano.
A chi trovasse quest’ultima una definizione eccessivamente severa, ricordo: l’allineamento dell’Emilia Romagna di Bonaccini al progetto della “secessione dei ricchi” attuato attraverso l’autonomia differenziata, massimo obiettivo politico della Lega; una legge urbanistica mangia-suolo da palazzinari anni ’50, la peggiore d’Italia; l’opposizione di Bonaccini alla pur timidissima plastic tax del Conte bis: il segno di uno sviluppismo insostenibile, del tutto disinteressato al futuro; l’incapacità (nel migliore dei casi) di arginare una infiltrazione della ‘ndrangheta che sfigura in modo drammatico il tessuto economico e civile della regione; una sanità sempre più tagliata e privatizzata, con il consenso di Lega e Forza Italia in consiglio regionale; una politica securitaria e razzista indistinguibile da quella leghista (si legga per esempio il libro recentemente dedicato da Wolf Bukowski alla Buona educazione degli oppressi). Ora, non c’è dubbio che la Lega avrebbe potuto far peggio: in certi casi un po’ peggio, in altri molto peggio. E soprattutto non c’è dubbio che a fare le spese di questo ulteriore peggioramento sarebbero stati i più fragili.
Ma da qua a dire che “ha vinto la sinistra” ce ne corre davvero molto. Invece, il rischio è proprio questo: un ulteriore spostamento a destra dell’intero quadro politico, con le forze a sinistra del Pd che confluiscono “felicemente” in quest’ultimo. Se l’infelice presenza di LeU nel governo Conte bis (un governo, giova ricordarlo, che non riesce a modificare le leggi più “fasciste” del governo Conte Uno) è stato un anticipo di questa “soluzione finale”, l’intervista post-elettorale di Nicola Fratoianni al Manifesto ne tratteggia la road map, prospettando entusiasticamente per la sinistra politica nazionale un destino “emiliano”: e cioè un permanente e strutturale fiancheggiamento critico del Pd in nome del frontismo antileghista. Di fatto, una confluenza in nome dell’emergenza. Sarebbe l’accomodarsi permanente della sinistra politica al tavolo di potere di un centro-sinistra più che mai determinato a non cambiare alcunché di se stesso: e che nel momento in cui riesce a presentarsi come efficace baluardo contro i nuovi fascisti, non ha più nemmeno il bisogno di far finta di cambiare.
Non per caso, l’eclissi (momentanea o definitiva, ma certamente ampiamente meritata) del Movimento 5 Stelle ha immediatamente indotto il Pd e i commentatori di area a prospettare l’abbandono del progetto di legge elettorale proporzionale e l’adozione di un maggioritario ancora più sbilanciato dell’attuale. Il che equivarrebbe a smontare un altro pezzo di democrazia in nome della perpetuazione della propria rendita di potere. Una chiusura dalle conseguenze gravissime: e non solo perché potrebbe approfittarne proprio la Lega, ma per lo stravolgimento di ogni dinamica democratica. Perché nel maggioritario importa solo vincere, non essere giusti. Comandare, non rappresentare. Decidere, non includere. Ed esultando per la vittoria del “male minore” (ma proprio il male minore che ha generato alla fine il male maggiore che oggi dice di arginare) siamo già sprofondati in questa deviante logica binaria che non conosce alternative possibili.
La prima conseguenza di questa “mentalità maggioritaria” è il congedo del pensiero critico. Perché entrando nel gioco del potere si possono ottenere delle “cose” (come l’ottima gratuità del trasporto regionale per i più giovani, che la lista ER Coraggiosa ha felicemente strappato a Bonaccini), ma al prezzo di rinunciare a un’analisi critica senza sconti, che prospetti la necessità di una alternativa radicale allo stato delle cose. Ovvio: questa proposta radicale non certo è incarnata dal dato grottesco delle tre sigle più o meno comuniste che in Emilia si sono spartite pochi decimali: ma questa tragicomica inadeguatezza rende più pesante, e non già più lieve, la responsabilità di chi potrebbe costruire consenso, e sceglie di farlo per il Pd, e dunque in ultima analisi per lo stato delle cose. In questo senso è istruttivo l’entusiasmo, paternalistico e lievemente maschilista, che sta suscitando nelle roccaforti del pensiero unico di centro-sinistra l’esperienza della bella figura di Elly Schlein: gli stessi che non l’hanno mai appoggiata nelle coraggiose scelte di rottura (l’uscita dal Pd), la lodano ora perché è tornata (e, dal loro punto di vista, in condizione ancillare) all’ovile democratico, esaltandone (contro le sue stesse intenzioni) la personalità individuale (a scapito dell’impresa collettiva della sua lista), secondo i precetti del culto leaderistico che anima il maggioritario. Sono gli stessi commentatori che, se un identico 4% fosse stato conquistato fuori dalla santa alleanza Pd, ne avrebbero irriso il velleitarismo minoritario.
Quanto alle Sardine, non riesco proprio a condividere l’entusiasmo così poco analitico di molti amici. È innegabile l’anelito democratico e partecipativo con cui migliaia di cittadini ne accolgono l’invito a scendere in piazza, ma come non vedere che anche questa bella novità ha di fatto giocato a favore del mantenimento dello stato delle cose, e del sostegno acritico a un governo che tutto è tranne che di sinistra, come quello di Bonaccini? In queste ore, le Sardine della mia Toscana hanno diffuso un appello all’«unità dei progressisti» (che significa l’invito a sottomettersi a posteriori alla pessima candidatura imposta da Renzi al Pd, quella di Eugenio Giani di cui ho scritto ampiamente in questo sito) in cui si legge: «Rivendichiamo l’efficienza di una Regione che è modello di riferimento per il Paese in materia di cultura, turismo e di distretto industriale». Dove colpisce non solo il fatto che si siano ben guardate dal prendere la parola prima, per evitare questa scelta scellerata e lo facciano ora per farla digerire in nome dell’antifascismo, ma ancor più il linguaggio inconfondibilmente di destra (l’«efficienza»!), e la totale sudditanza alla propaganda di un modello radicalmente insostenibile: perché dire che Firenze è un modello in materia di turismo e cultura (!), e sostenere un programma che ha al primo punto le Grandi Opere e lo sventramento della Maremma è come dire che la permanenza delle Grandi Navi in Laguna è un traguardo ecologico. Insomma: le Sardine stanno giocando, nei fatti, come truppe irregolari di questo bruttissimo Pd, e come alfieri dell’egemonia del pensiero unico della destra da cui non si riesce ad evadere.
In conclusione, non riesco a sottrarmi in queste ore a un rovello: che scandalizzerà qualche benpensante, ma che vale forse la pena di far affiorare. Davvero dobbiamo festeggiare di fronte a una Emilia Romagna in cui un milione più spiccioli vota Bonaccini, un milione vota Salvini e un altro milione non va a votare? Se esultiamo di fronte a questo quadro francamente disastroso, è solo perché la nostra idea di democrazia è ormai così povera da ridursi esclusivamente alla dimensione del governo, e non ci accorgiamo del danno culturale e morale inflitto da questo ennesimo restringimento dello spazio critico, indotto dall’illusione ottica per la quale siccome lo “schema Bonaccini” (fermare la destra estrema con la destra moderata) ha avuto successo, allora è anche uno schema giusto. Anzi, lo schema giusto per tutto il Paese. Al contrario, non sarebbe necessario chiedersi se – su quella lunga distanza che non sembra interessare a nessun osservatore della scena politica italiana – avrebbe fatto davvero più danni un passaggio del governo dell’Emilia Romagna alla Lega (che del resto governa già – e sembriamo a questo rassegnatissimi – Lombardia, Veneto, Piemonte…), o invece se ne farà di più questa tombale legittimazione di un Pd di destra? Visto tra dieci anni, penseremo ancora che questo sia stato il male minore? E penseremo ancora che il “voto utile” lo sia veramente stato?
La domanda, insomma, è questa: se lo spostamento a destra del Pd ha creato le condizioni per un’egemonia culturale di destra che ha portato metà dei votanti emiliani a votare Lega, cosa succederà con un altro mandato di governo di quello stesso Pd? Pur di fermare Salvini, dicono ormai quasi tutti, va bene qualunque cosa: va bene anche slittare tutti insieme così tanto più a destra. Va bene anche restringere ancora lo spazio di immaginazione di un’Italia diversa. Va bene fare (quasi) le politiche di Salvini. Per parafrasare una celebre battuta su Berlusconi attribuita a Giorgio Gaber, il timore è che per fermare il “Salvini in sé”, sembriamo ormai tutti disposti a fare spazio al “Salvini in me”. Non mi pare ci sia poi molto da festeggiare.

Post scriptum
Ho evitato di dire queste cose in campagna elettorale: per rispetto verso coloro che lottavano comunque contro Salvini, e per non danneggiare in alcun modo lo stesso Stefano Bonaccini.
Ieri pomeriggio, due ore dopo che era stato messo online, il presidente dell’Emilia-Romagna ha deciso di reagire a questo articolo, su Twitter.
Dico reagire e non rispondere perché (adottando lo stesso uso dei social di Matteo Salvini) non ha risposto ai miei tweet in cui lanciavo il pezzo: avesse fatto così, avrebbe permesso a tutti di leggere e valutare i miei argomenti. Invece ha fatto ricorso alla retorica del capo vittorioso, solo al comando. Allegando la foto di uno schermo televisivo che lo ritrae con la mascella contratta e lo sguardo verso l’orizzonte, con una didascalia da rambo: «l’uomo che sconfisse Salvini».


Un uomo: solo. Che dimentica le centinaia di migliaia di cittadini che l’hanno votato col naso turato, temendo il peggio. E dimentica tutti coloro che hanno messo il loro volto pulito al servizio del suo, per puro spirito civico. E, infine, che ironizza sul nome di questo sito e di questa associazione: VOLERE LA LUNA. La politica vera è quella che vince e governa, il pensiero critico è per il muscolare Bonaccini un abbaiare alla luna.
Ci possono essere dubbi sull’antropologia profondamente di destra di questa visione del mondo e della politica?
TM

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La paura ha aiutato Bonaccini insieme alla fortuna di fronteggiare un’avversaria debolissima e una strategia populista sbracata. Ma il vuoto civico in quei territori resta

L’Emilia non si lega (non tutta) ma molta Romagna sì. Quando i festeggiamenti (sacrosanti e belli) si saranno conclusi bisognerà studiare i dati elettorali dei “territori” – un termine generico per denotare quelle aree di paese che si estendono a ridosso delle prime e delle seconde periferie delle città medio-grandi, quel largo corpo plurale e articolato che il progetto delle città metropolitane avrebbe dovuto integrare, senza riuscirvi.
L’Emilia-Romagna ha subito la paura della Bestia e ha reagito con un sussulto al populismo martellante e ossessivo di Salvini. Ma i problemi che l’hanno esposta a questa vulnerabilità sono tutti lì.
La paura ha aiutato Bonaccini insieme alla fortuna, che, diceva Machiavelli, deve essere domata dalla virtù. E così è stato. La fortuna di una candidata debolissima e di una strategia populista sbracata, che ha offeso e umiliato queste terre, che ha trattato questi cittadini come asserviti inermi a un sistema di dominio dal quale non avrebbero mai saputo

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Sicuramente la nostra regione vanta l'eccellenza in ambito sanitario. Un primato quindi da tutelare e implementare.

Tecnologia e formazione sono all'altezza delle esigenze. Ricerca e innovazione non lasciano certo nulla al caso. Ma cosa sospinge un settore di così alto profilo? Ebbene la risposta è: il Capitale Umano!

La politica lo sa e se da l'impressione di non saperlo, finge. Si perché le nostre persone, quelle che mettono le proprie competenze a disposizione della comunità, sono spesso oggetto di sperticati elogi da parte di politici e amministratori che parlano di: coraggio, eroismo, spirito di sacrificio, abnegazione. Se ci è permesso l'accostamento, sono le parole che risuonavano nella propaganda che sospingeva migliaia di giovani al macello sulle trincee del Carso.

Un accostamento forzato e cruento che nulla a che vedere con l'argomento qui trattato, tranne il triste uso della retorica. E' un atteggiamento dal quale ci dissociamo, non siamo in presenza di uno stuolo di stoici missionari che aprono le frontiere dell'assistenza caritatevole in terre lontane, con tutto il rispetto per costoro.

Siamo in presenza di professionisti preparati e competenti che possiedono un contratto di lavoro, anche se spesso fatica a diventare stabile. Se L'obiettivo è quello della sostenibilità ed universalità delle cure, questi operatori vanno sostenuti con adeguati riconoscimenti economici, adeguati riposi e rapporto lavoro-tempo vita accettabile. Purtroppo dobbiamo registrare che sul nostro territorio, l'ambito ravennate, una quota di professionisti medici abbandonano le strutture pubbliche a favore di quelle private. I motivi sono quasi sempre gli stessi: scarse garanzie di progressione professionale, livelli stipendiali modesti in relazione alle alte responsabilità connesse, tempo vita umanamente improponibile.

Dobbiamo poi tenere conto del doppio danno, perchè il professionista che si forma a carico della funzione pubblica finisce col spendere l'investimento a favore dell'imprenditore privato. La situazione va risolta, la strada percorribile è una sola: assumere il personale adeguato ai carichi di lavoro e adeguare gli stipendi alle responsabilità. Vero è che a livello nazionale alcune grosse sviste non hanno previsto la formazione in alcuni settori specialistici, ma è anche vero che gli investimenti nel settore restano inadeguati. Gli ultimi provvedimenti di legge collegati alla finanziaria, danno alle regioni la possibilità di spendere in termini di assunzione e ci aspettiamo che ciò avvenga.

Poco ci aspettiamo dalla possibilità di ferma fino ai 70 anni di età dei medici specialisti pensionandi, un provvedimento asfittico che poco raccoglie in termini di implementazione, come per altro l'immissione degli specializzandi nelle corsie ospedaliere, fenomeno già ben presente da molto tempo. Sul fronte del comparto, infermieri, o.s.s. tecnici sanitari non va meglio, le unità operative che ancora non ancora dotate di organici completi provvedono spesso all'assistenza saltando i riposi, con le ovvie ripercussioni sulla salute di tutti.

La politica e la direzione delle aziende sanitarie assumano un'altro atteggiamento verso coloro che la propria grande responsabilità la esercitano già da tempo.

Un operatore sanitario locale

 

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I pendolari della linea Rimini - Bologna sono riuniti in un comitato pendolari ROMBO che cerca di portare le istanze degli stessi pendolari, con alterne fortune ai tavoli della Regione.
La Regione ha costituito da anni il CRUFER, che riunisce i diversi comitati della Regione che francamente non produce nessun tipo di risultato significativo e andrebbe ripensato. Basti pensare che, da quel poco di informazioni che ho in quanto anche all'interno del nostro comitato le informazioni non circolano, viene convocato praticamente a decisioni già prese o quasi. quindi con scarse possibilità di influire in qualche modo sulle decisioni prese.
Bisogna rivedere il ruolo del CRUFER.
 
Sulla linea permangono da anni condizioni critiche legate ai ritardi, sovraffollamento, manutenzione, composizione delle carrozze inadeguata al numero di passeggeri, specie negli orari pendolari e nelle giornate a ridosso dei maggiori spostamenti studenti/lavoratori (weekend, lunedì).
 
In questi anni le segnalazioni alla Regione hanno prodotto la risposta dell'introduzione dei nuovi treni Rock e Pop, che sono inutili se non sono adeguati come composizione al numero di passeggeri in salita, non contando la media dei passeggeri nel percorso. 
 
A fronte delle continue segnalazioni non si comprende quante e quali sanzioni siano state fatte al titolare del contratto di servizio e per quali motivi la Regione non riesca a supervisionare se questo contratto venga rispettato. Bisogna migliorare la.supervisione del contratto e il rapporto con Trenitalia che è un fornitore di servizi.
 
L'introduzione in questi anni sulla linea adriatica dei Freccia Rossa e la sostituzione recente dei Freccia Bianca con i Freccia Argento, ha peggiorato la condizione dei pendolari e creato inevitabili rallentamenti sulla linea. Infatti quando sono stati introdotti i Freccia Argento si è venuto a creare un duplice problema: taglio delle fermate nelle stazioni intermedie e sostanziale inutilizzo dell'abbonamento a supporto di quello regionale per viaggiare sugli ex Freccia Bianca.
- I pendolari potranno viaggiare con un'integrazione anche in futuro sulle Frecce?
- Come mai a fronte di un tempo di percorrenza immutato devono pagare di più?
- Le fermate nelle stazioni intermedie come Faenza, saranno mantenute in futuro?
 
La Regione deve essere consapevole che un gran numero di pendolari utilizzava le Frecce, calmierando di fatto la situazione sui Regionali. Se salta questo sistema (e sta già succedendo perché non tutti possono permettersi di pagare biglietti delle Frecce a prezzi assurdi e nessuno ha informazioni dalla Regione sui nuovi abbonamenti) salta tutto il trasporto Regionale.
 
Il pastrocchio degli orari della linea per Ravenna: ci sono ancora criticità introdotte l'anno passato col nuovo orario che devono essere risolte insieme ai Sindaci delle città interessate.
Vedo un sostanziale disinteresse dei Sindaci e degli assessori alla mobilità romagnoli sui temi dei pendolari: delle vicende ci si interessa solo quando si presentano problemi o lamentele.
Sulla rigenerazione della stazione di Faenza, dato che si parla di soldi regionali, anche qui i pendolari non sono MAI stati coinvolti né in fase di progetto né dopo.
Molti dei suggerimenti dati in questi anni al Comune non sono stati presi in considerazione, nonostante provenissero da chi usa il treno quotidianamente.
 
Nota finale: se si parla di patto per la mobilità bisogna cominciare ad uscire dalle stanze della Regione e tastare con mano i problemi di chi usa i mezzi pubblici.
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Il prossimo sabato 11 gennaio, presso la Sala San Carlo di Faenza, verrà presentato il libro "Cardinale Pio Laghi" curato dal vescovo Mario Toso.

Visto che sull'operato del cardinale, durante i suoi anni nell'Argentina della dittatura, continuano a permanere molte zone d'ombra, ho inviato una lettera aperta al settimanale diocesano Il Piccolo.
La condivido ora anche con le altre testate di informazione locale.
Grazie. RB
Posso provare a immaginare alcune delle motivazioni che hanno indotto il vescovo di Faenza Mario Toso a occuparsi del cardinale Pio Laghi nel libro di recente pubblicazione. Ma per ora lasciamole sullo sfondo, rimandando a un giudizio più circostanziato dopo una attenta lettura del volume.
 
A proposito del ruolo che l'allora nunzio vaticano ebbe durante gli anni della feroce dittatura in Argentina, io so che Pio Laghi si è sempre negato a un confronto pubblico per rispondere alle molte accuse che gli sono state rivolte. I più benevoli hanno scomodato la figura di Don Abbondio, per le sue debolezze e ambiguità, per i tanti silenzi che ha opposto a chi gli chiedeva una parola chiara. Un uomo fragile e inadatto a ricoprire quella alta funzione.
Ma atteniamoci ai fatti, ad alcuni fatti precisi.
 
Fin da quando (era il 1984) cominciarono a circolare le prime voci sulle sue responsabilità nell'aver coperto gli orrori della dittatura, il cardinale ha sempre sdegnosamente respinto le accuse affermando che lui “non sapeva quello che stava accadendo”. Ma come è possibile che l'ambasciatore del Vaticano non sapesse e non vedesse le violenze della dittatura con 30.000 desaparecidos, 15.000 fucilati, 9.000 prigionieri politici, un milione e mezzo di esiliati? Ma, se questo non bastasse, allarghiamo la visuale anche al mondo di cui Pio Laghi era un autorevole rappresentante.
Come in tutte le vicende lunghe e complesse, non c’è stata in Argentina una sola voce della Chiesa, ci fu chi appoggiò apertamente la giunta militare e chi invece ne denunciò la violenza e ne fu vittima. Come è possibile “non sapere e non vedere” quando furono uccisi o fatti scomparire anche centinaia di sacerdoti, suore e perfino il vescovo di La Rioja Enrique Angelelli, il 4 agosto 1976?
Angelelli (che Papa Francesco ha beatificato lo scorso anno insieme ad altri tre martiri argentini) era il simbolo di una Chiesa che all’epoca si era posta dalla parte dei lavoratori sfruttati in quelle terre, un vescovo dalla voce profetica che denunciava senza paura le ingiustizie e gli eccessi del regime. Loro vedevano, loro sapevano quello che stava accadendo.
Il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, durante l'omelia per la beatificazione, ha detto: “Di fronte a un regime che cercava di strumentalizzare la religione cristiana per i propri interessi, essi operarono perché il Vangelo diventasse fermento nella società di una umanità nuova fondata sulla giustizia, sulla solidarietà, l’uguaglianza. Scelsero, dunque, di restare fedeli a Cristo e, per questo, furono uccisi” (Avvenire, 27 aprile 2019).
 
Ma torniamo al nostro Pio Laghi.
La sua linea di difesa (“non sapevo”) durò fino al 1995 quando arrivano le prime ammissioni, prima a Famiglia Cristiana (27 aprile 1995) e poi al Resto del Carlino (30 aprile 1995). Dichiarò: “Come potevo supporre che stavo trattando con dei mostri, capaci di buttare persone dagli aerei e altre atrocità simili? Mi si accusa di delitti spaventosi per omissione di aiuto e di denuncia, quando il mio unico peccato era l’ignoranza di ciò che veramente capitava”. E poi: “Ho fatto il possibile per salvare vite umane”. Quindi sapeva. Perché allora negarlo per tanti anni?
 
La vita di Pio Laghi si intreccia con quella di un'altra faentina, Elda Casadio.
Nata a Faenza nel 1926, sposò un soldato polacco conosciuto durante la guerra, nel 1945 a Forlì nacque il suo primo figlio, Estanislao. Emigrò in Argentina nel 1946 dove è nata la sua seconda figlia, Teresa. Vivevano tranquillamente a Bernal, a 17 chilometri da Buenos Aires, fino al 1976. Il 28 maggio di quell'anno Estanislao fu sequestrato e di lui non si seppe più niente, uguale nella sorte toccata a una intera generazione pensante di intellettuali, sindacalisti, tecnici, operai (e preti e suore…).
Elda è morta nel 2006 in seguito alle ferite riportate durante una rapina subita in casa. Una vita segnata dalla violenza.
Secondo una sua testimonianza, dopo il sequestro, come altre madri e nonne, tentò tutte le strade per aver notizie del figlio. Incontrò una prima volta anche monsignor Pio Laghi, nella sede della Nunziatura apostolica di Buenos Aires, che le disse di non poter fare niente perché aveva “le mani legate”.
Stessa risposta anche durante il loro secondo incontro, qui a Faenza al Cimitero, quando le disse anche di “aver fatto tanto per tanti italiani”.
Riconoscere di avere le mani legate senza spiegare il perché, significa ammettere di avere interessi comuni e forse coinvolgimenti inconfessabili con i carnefici?
Intrattenere rapporti diplomatici con le alte cariche di uno stato rientra nelle prerogative di un nunzio apostolico ma qui si è andati ben oltre, come nei non mai smentiti incontri per amichevoli partite a tennis con l'ammiraglio Massera (e a tennis si gioca con le mani libere), “ma solo tre o quattro volte” come ammise candidamente lo stesso Laghi.
 
Il mio giudizio sull’operato di Laghi in Argentina sta tutto nelle parole dello scrittore Emilio Fermìn Mignone, autore del libro “La testimonianza negata – Chiesa e dittatura in Argentina” (EMI, 1988): “La responsabilità etica, religiosa e politica di Laghi sta nel non aver fatto pesare, attraverso una denuncia profetica e pubblica, quello stato di cose. Lo avrebbe potuto fare perché la sua influenza era immensa e un regime che si vantava di difendere la civiltà cristiana e il cattolicesimo, non avrebbe potuto resistere a una rottura con la Chiesa”.
E se davvero Pio Laghi temeva per la sua vita (come dichiarò in varie occasioni), perché non tornare a Roma e di qui far sentire la sua voce?
 
Non voglio infine entrare in un terreno che non mi compete, ma consentitemi in conclusione di esprimere la mia amarezza per l'intitolazione proprio a Pio Laghi di una sala di lettura nella nuova Biblioteca del Seminario, un pessimo esempio per i tanti giovani e gli studiosi che la frequentano, almeno fino a quando questa brutta pagina per la Chiesa (anche quella faentina) non sarà stata chiusa.
 
Renzo Bertaccini




 
 
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