Il racconto di Massimo Serafini, politico e scrittore, fondatore de “il Manifesto”, membro della segreteria nazionale di Legambiente. Tratto da la nuovaecologia.it
Se non segnalasse anche un tragico declino del paese, la scarsa voglia di futuro di chi lo governa, il gusto diffuso di mentire delle sue classi dirigenti, ci sarebbe solo da seppellirli con una risata questi adoratori dei combustibili fossili che, per sostenere le amate trivelle, ripetono le stesse ragioni che io, bambino, sentii oltre sessant’anni fa quando le installarono e con esse arrivò anche l’industrializzazione di Ravenna: producono lavoro, danno autonomia energetica al paese, è un’attività sicura che non inquina, compatibile col turismo… Solo una concezione del popolo come qualcosa di facilmente manipolabile può indurre a mentire con tanta sfrontatezza.
Sessant’anni fa quelle parole forse avevano un significato, trasmettevano alla popolazione la speranza di
un futuro migliore, quasi un senso di avventura. Soprattutto erano diverse le persone che le pronunciavano a cominciare da Enrico Mattei, colui che sfidò, proprio a partire dal metano, presente nella bassa pianura padana e nell’Adriatico, le sette sorelle, cioè le principali compagnie petrolifere degli Stati Uniti. Insomma per farla breve affascinavano e soprattutto convincevano. Oggi ci parlano solo di declino, difesa dell’esistente, suonano soprattutto false e strumentali. A ben vedere non ci credono nemmeno quelli che le pronunciano nei rari spazi dedicati dai media al referendum del 17 Aprile. Se credessero veramente che sfruttare fino all’ultimo metro cubo di gas presente in Adriatico o nelle campagne ravennati fosse decisivo per il paese, perché genera lavoro senza inquinare e soprattutto ci libera per qualche mese dalla dipendenza dagli arabi, chiederebbero di andare a votare e seppellire sotto una valanga di no la pretesa degli ambientalisti di mettere una scadenza alle autorizzazioni a perforare, ridicolizzandone la convinzione che i posti di lavoro autonomia energetica si conquistano producendo energia con i raggi del sole e la l’impeto del vento. Sicuramente sono convinti della nostra stupidità se pensano che non si sia capito che l’arrogante richiesta di bucare a tempo indeterminato serve solo ad estrarre quel po’ di metano rimasto, quando gli pare, cioè quando il gas costerà di nuovo oltre i 100 dollari. Quanto al lavoro perché pensare che gli stiano a cuore quelle poche centinaia di occupati nelle piattaforme quando, proprio per sostenere le trivelle e i combustibili fossili si è consapevolmente bloccato lo sviluppo delle rinnovabili, causando in un solo anno una perdita di posti di lavoro di 60.000 persone. Contano solo sul disinteresse della gente e sulla disinformazione per far mancare il quorum e avere mano libera, preferendo dare un colpo a uno dei pochi strumenti di democrazia diretta rimasti pur di non rinunciare al loro profitto e al loro potere.
Eppure la storia del metano a Ravenna non è una storia banale e meriterebbe difensori più seri. Che nel sottosuolo della mia città ci fosse metano l’avevo capito, come molti/e coetanei/e dal sapore dell’acqua che sgorgava da una fontanella di Marina di Ravenna. Veniva chiamata acqua “pisciolina” proprio perché sapeva di metano e siccome la credenza popolare le attribuiva prodigiose virtù, in poche parole aiutava a crescere bene, eravamo soprattutto noi bambini e bambine a farne le spese, costretti a berla dai genitori. Un supplizio ogni volta che papà ci accompagnava con la sua topolino al mare. La fontana era a poche centinaia di metri dal mare, il che avrebbe dovuto farci intuire che anche il fondo marino conteneva gas. Che però fosse una risorsa nessuno lo pensava, anzi a molti parve una stranezza che a qualcuno fosse venuto in mente di estrarlo per farci i soldi. Sicuramente nessuno avrebbe immaginato che tirarlo fuori avrebbe letteralmente stravolto il paesaggio di Ravenna e delle sue campagne. Da mesi nei campi di paesi come Alfonsine, Voltana, Longastrino, comparivano strani aggeggi, rinchiusi in gabbie di metallo, chiamati “alberi di natale”. Erano valvole di sicurezza sotto le quali vi era un pozzo di estrazione. Soprattutto da lì partivano le tuberie che convogliavano il gas estratto verso i suoi usi finali. Vedendoli io e il gruppo di coetanei che sbiciclettavamo verso il mare sull’argine del Candiano, il canale che univa il mare con il porto di Ravenna, situato in città, pensammo servissero ad irrigare i campi. Fu nel ‘51 la prima volta che sentii parlare di sfruttamento del metano, della grande occasione di ricchezza per tutta la popolazione che la sua estrazione ed utilizzazione avrebbe rappresentato. Ne parlò mio padre a cena, commentando una notizia del Resto del Carlino che parlava di un accordo per costruire una fabbrica di fertilizzanti azotati fra l’Agip di Mattei e la Federconsorzi ravennate, che organizzava invece i proprietari terrieri.
Papà, ma soprattutto mamma che era una fisica, erano grandi ammiratori di Mattei. Li affascinava la sfida che lanciava alle sette sorelle e all’America. Soprattutto erano entusiasti dell’industrializzazione che l’estrazione del metano avrebbe comportato. Era abitudine durante le cene che i miei genitori commentassero i giornali o discutessero di politica. Mia madre era convinta che farlo davanti ai figli li avrebbe aiutati prima a ragionare e a farsi un’opinione, anche se papà perdeva subito la pazienza di fronte alle migliori argomentazioni di mamma e svicolava buttandola in caciara. Quella sera erano stranamente d’accordo e io e mio fratello più grande ascoltavamo meravigliati e un po’ increduli ciò che sarebbe diventata Ravenna, se quell’accordo fosse diventato realtà. Grazie al metano Ravenna sarebbe stata trasformata in una città industriale. Presto avremmo visto spuntare in mare gigantesche piattaforme, alte come palazzi. A me che non era mai piaciuto “il meccano”, naturalmente regalatomi per il mio sesto compleanno da papà e mamma, alla descrizione delle lingue di fuoco che si sarebbero sprigionate dalle piattaforme dalla bocca mi uscì un bel “zio boia” che interruppe la discussione, per lasciare il posto a una risata collettiva. Mai però avrei immaginato che le trasformazioni sarebbero andate molto al di là di quello che le fantasie dei miei genitori avevano descritto. Nell’estate del 1956 nei bar di piazza del popolo a Ravenna fiorivano i racconti sulla costruzione al largo di due piattaforme e che presto sarebbero cominciati i lavori di sbancamento della Pineta che fiancheggiava il canale Candiano per costruire l’Anic. Al posto del fitto bosco di pini in soli due anni nacque una nuova città di ferro e cemento. Il Candiano fu allargato per permettere l’ingresso delle petroliere e furono costruite una ferrovia e una nuova strada per collegare la futura fabbrica a Ravenna e al suo porto. Fu inaugurata nel ’58, quando avevo 16 anni. I giovani maschi furono accompagnati dai genitori lungo la nuova strada, appena terminata, che dal cimitero si diramava fino alla fabbrica, dove sarebbe passato il corteo di macchine lancia Flaminia con a bordo Mattei e le autorità. Mai avrei immaginato che l’entusiasmo per l’arrivo dell’industria avrebbe spinto i miei genitori a trascinare i figli per strada. Una cosa simile succedeva solo quando passava lungo la statale 16, detta la reale, la mille miglia, la mitica corsa su strada che rese famoso Tazio Nuvolari.
Eppure a me e molti miei coetanei mancava la nostra pineta, soprattutto il tuffo nel Candiano per traversarlo a nuoto, quasi sempre fatto appena vedevamo comparire sul molo ragazze. Nel manuale non scritto, che i più grandi di noi ci insegnavano, per strappare uno sguardo e un sorriso alle fanciulle, era considerato infallibile. Esiste un cortometraggio negli archivi storici dell’Eni che documenta l’intera costruzione dell’Anic che fa capire bene la profondità dei cambiamenti che Ravenna subì. Inizia con immagini di ruspe che abbattono pini e dune, commentate da una voce che così descrive l’inizio dei lavori: “quando arrivammo noi ci colpì la solitudine dei luoghi, terre incolte e acquitrinose, dove si spingevano innamorati, cacciatori e pescatori dilettanti, hanno preso vita e ora ospitano il più grande complesso industriale, una città del lavoro” e prosegue “una foresta di pali di cemento, moderno rimboschimento….15.000 tonnellate di ferro, 65.000 di cemento, 30.000 di macchinari, 7.500 di carpenteria, 70 Km di condutture”.
Sarebbe assurdo sostenere che questo racconto non fosse condiviso da una popolazione, quella di Ravenna, uscita stremata dalla guerra e vogliosa di scappare dalle campagne dove la vita era durissima. “Tirare la cinghia” era la frase che più veniva ripetuta da tante mamme e papà nei pranzi domenicali. Era un modo efficace per trasmettere la povertà di quei luoghi, la difficoltà di tenere insieme la voglia di far studiare figlie e figli e concedergli anche un sabato sera di divertimento. Erano tempi in cui la scuola dell’obbligo si fermava alla quinta elementare e le famiglie contadine al massimo potevano garantire ai figli, generalmente i maschi, la scuola fino a 13 solo mandandoli all’avviamento professionale. Solo una minoranza poteva permettersi di farli studiare fino ai 18 anni e garantirgli un diploma. Quando nel ’58 l’Anic aprì, il sogno più ricorrente fra i miei coetanei era lasciare il duro lavoro dei campi e provare ad entrare all’Anic. Se lo si inquadra in questo contesto si coglie la forza e il diffuso consenso sociale che vi era attorno allo sfruttamento del metano, soprattutto a ciò che produsse la sua estrazione. Non mancava la consapevolezza che un prezzo era stato pagato, le violenze al delicatissimo ecosistema ravennate erano davanti agli occhi di tutti, ma era prevalente l’opinione che quel sacrificio andasse fatto.
Ma sono per l’appunto passati sessant’anni e il costo ambientale di quell’operazione si è dilatato a dismisura, anzi molte delle ragioni che allora convinsero i ravennati ad accettare il processo di industrializzazione si sono trasformate in costi pesantissimi. Letta in questo contesto la vicenda delle trivelle svela con forza il ridicolo contrasto che c’è fra le motivazioni di allora e il goffo tentativo di ripeterle oggi per giustificare una sorta di immortalità delle attività estrattive, in poche parole fino a quando l’ultimo metro cubo di gas non sia stato estratto. Contrasto, perché il consenso e le speranza di allora, in buona parte ripagate, si sono via via nel corso degli anni trasformate in disillusione se non in aperto dissenso. La realtà si è come rovesciata. La famosa città del lavoro, che ospitò oltre 2.000 lavoratori ora è uno stabilimento quasi fantasma, che occuperà qualche centinaio di lavoratori. Del famoso metano che ha permesso quel salto industriale ne resta poco e su quelle piattaforme, soprattutto quelle oggetto di referendum, lavoreranno poco più di un centinaio di persone. I famosi fertilizzanti azotati dell’Anic, che invasero e conquistarono i mercati, consentendo ai contadini di triplicare la produttività per ettaro, ci si accorge oggi che hanno finito per drogare e impoverire la terra. Chi torna ai campi, molti giovani lo stanno facendo, non guarda più ai consorzi di bonifica distributori di chimica e ai loro tecnici, ma a Slow-food e Terra Madre di Carlin Petrini. Non si preoccupa più della produttività, spesso finita al macero, ma alla qualità dei prodotti che solo il rispetto della terra e delle acque che vi scorrono può garantire. Ecco perché i nostri contadini vedono con sospetto gli organismi geneticamente modificati e pensano che il futuro dell’agricoltura e del loro reddito sarà più garantito dal ritorno ad un campo coltivato con criteri naturali. La popolazione ravennate è stata la prima a sperimentare l’altra faccia dello sfruttamento del metano. Ravenna sprofonda lentamente e i suoi preziosi monumenti sono a rischio.
Anche il mantra della convivenza fra industria, turismo ed ambiente suona ridicolo se ripetuto a Ravenna. Chi lo sostiene è probabilmente fra quelli che alla fine degli anni ’80, quando l’industrializzazione e l’agricoltura intensiva presentarono il conto al mare adriatico, diceva che scaricare tonnellate di gessi ricchi di fosforo, come faceva la Montedison a Marghera, era compatibile col turismo e l’ambiente. Anzi era salutare, perché nutriva il mare rendendo felici i pesci e i pescatori. Peccato che l’eccesso di nutrienti fece fuggire per diversi anni i turisti, perché faceva diventare rosso il mare, lasciandolo senza ossigeno, con conseguente spiaggiamento di pesci morti. Sono tutte verità che la gente conosce, così come è sempre più diffusa la consapevolezza che, non il futuro, ma il presente non è affidato ai combustibili fossili, ma alle fonti rinnovabili. Per questo i trivellatori e i loro mediocri sponsor politici evitano di misurarsi con la volontà popolare e puntano a far fallire il referendum, chiedendo di non andare a votare. Tutta la mia giovinezza ha dunque dovuto convivere con il metano e la crescita industriale del mio territorio. I dubbi sui prezzi ambientali pagati furono per tanti anni soffocati da altre preoccupazioni. Per anni il mio problema non era più ricostruire il meraviglioso ecosistema di quando ero bambino, ma come convivere col nuovo. La preoccupazione non era più l’Anic, le sue emissioni velenose, i suoi rifiuti, ma la qualità del lavoro che la fabbrica garantiva. Fu la tragedia dell’Adriatico, invaso di mucillaggini a farmi capire che qualità sociale e ambientale sono un tutt’uno e che non c’è futuro se non si risponde ai diritti di entrambi. Questa, a me pare, la vera posta in gioco del referendum sulle trivelle. Far comprendere alle cittadine e cittadini che votando sì il 17 aprile non si darà solo una scadenza alle attività di estrazione del gas, ma si dirà anche sì alla voglia di esserci e misurarsi con la sfida di un nuovo modello di società e sviluppo. Chi voterà no vuole continuare solo a guardare al passato. Chi invece non andrà a votare si chiama fuori e fa decidere della sua vita ad altri, decisione che da sempre ha annunciato tragedie e perdita di libertà.