POST-FASCISMO ED ELEZIONI. Per tracciare un profilo storico-identitario dell'estrema destra è necessario fare i conti con il passato. Non solo con quello del regime fascista ma anche con quello che ha drammaticamente attraversato gli anni della Repubblica giungendo ai giorni nostri.
Il 27 gennaio 1995 il congresso di Fiuggi chiudeva la storia dell’ultimo partito della «prima repubblica» rimasto in vita dopo il crollo del muro di Berlino e l’inchiesta giudiziaria «mani pulite».
Si compiva così una parabola iniziata il 26 dicembre 1946 con la fondazione semi-clandestina e terminata con il ritorno al governo del Paese dopo le elezioni del 1994.
Il mezzo secolo di vita del neofascismo nella Repubblica, la sua ascesa al governo (nella veste di Alleanza Nazionale e la sua riemersione dopo la crisi sistemica del 2011 (Fratelli d’Italia nasce l’anno seguente) confermano come nella complessa realtà italiana la destra abbia costituito, in virtù della sostanziale estraneità al moto di rinnovamento antifascista di ampi settori sociali, economici e politici, un’area molto più estesa della rappresentanza parlamentare del Msi.
Per contrastare le istanze regressive di oggi appare importante cogliere i caratteri del fenomeno della destra nostrana che
con sbrigative dichiarazioni di opportunità ha cercato goffamente di «consegnare alla storia» i pesanti lasciti del suo passato che informano il suo presente. Così nel messaggio registrato in più lingue da Meloni, la condanna del fascismo si appaia a quella del nazismo e del comunismo nel quadro di una ripetitiva formulazione qualunquistico-retorica tesa all’equiparazione di ciò che la storia ha mostrato essere non accomunabile.
Tuttavia tale espediente non è pratica limitata all’estrema destra. Nel settembre 2019 la risoluzione del Parlamento europeo sulla «importanza della memoria», non a casoproposta dai governi di Ungheria e Polonia fu approvata a larga maggioranza (anche con il voto del Pd) e parificò nazismo e comunismo con crisma «ufficiale».
Su quella linea proseguono in campo «liberale» prese di posizione che attingono a piene mani (con il risultato di sdoganare l’ascesa al governo in Italia i dell’estrema destra) a questa mistificazione della realtà. Così sul Corriere della Sera si legge che fascismo e comunismo rappresentano «un tutto unico» e vengono proposti parallelismi strabici tra la violenza squadrista del 1919, che instaurò la dittatura, e quella praticata nella Resistenza del 1943-45 dai comunisti (insieme a socialisti, cattolici, monarchici, repubblicani, azionisti e liberali) grazie a cui venne fondata la Repubblica democratica.
Per tracciare un profilo storico-identitario dell’estrema destra è necessario fare i conti con il passato. Non solo con quello del regime fascista ma anche con quello che ha drammaticamente attraversato gli anni della Repubblica giungendo ai giorni nostri.
Lungo questa strada si incontrano i presidenti onorari del Msi, Junio Valerio Borghese (a capo della X Mas a Salò; salvato dai servizi segreti Usa; promotore del fallito «golpe» del dicembre 1970) e Rodolfo Graziani (criminale di guerra in Africa; ministro della Guerra della Rsi; oggi omaggiato da un monumento ad Affile).
Con loro il segretario Giorgio Almirante (segretario di redazione de La Difesa della Razza, capo di Gabinetto del Ministero della Cultura Popolare a Salò; rinviato a giudizio e amnistiato per favoreggiamento nell’inchiesta sulla strage di Peteano del 1972) e Pino Rauti (esponente di Salò e poi fondatore di Ordine Nuovo, gruppo responsabile della strage di Piazza Fontana del 1969).
Le effigi di questi fantasmi del passato campeggiano nelle sedi post-fasciste di oggi. I loro nomi sono orgogliosamente rivendicati nelle piazze e proposti per intitolazioni di strade. Forse per meglio «consegnarli alla storia».
Nel frattempo, in nome delle «radici profonde che non gelano» si propongono: lo stravolgimento della Costituzione tramite il presidenzialismo; una legge fiscale che trasferisce ricchezza alle classi agiate e scarica povertà sui ceti popolari; i blocchi navali contro i migranti; la negazione dei diritti civili; il sostegno alla guerra; il populismo storico che equipara foibe e Shoah. Il tutto in un quadro di «affinità elettive» con Orbàn, Trump, Putin (indicato da Meloni nel suo libro Io sono Giorgia come «difensore dei valori europei») e Kaczynski, i conservatori inglesi fautori della Brexit e i postfranchisti spagnoli di Vox.
Il nodo di fondo da sciogliere, tuttavia, resta quello relativo agli esiti della crisi del paradigma egemonico liberale. L’allineamento ideologico al «liberismo reale», presentato come archetipo unico, irreversibile e totale (accolto come tale dalla sinistra di mercato), si è tradotto da un lato come processo di passivizzazione della società nei confronti di un ordine rappresentato come «naturale» e dall’altro come funzione di mantenimento della pace sociale e ritiro dei cittadini dalla sfera pubblica.
La «democrazia liberale» (diversa da quella costituzionale che prevede la «funzione sociale della proprietà privata») con la sua crisi è stata l’innesco di un sistema reattivo, il sovranismo postfascista, che si pone come negazione e antitesi del principio costituente della sovranità popolare. È questo il vero duplice fronte del conflitto a difesa della Costituzione che riappare dentro questa decisiva scadenza elettorale