Ravenna in Comune accoglie con entusiasmo l'appello Falcone Montanari - Ravenna in Comune
Ravenna in comune nasce due anni fa come lista di partecipazione civica, dalla spinta di tante cittadine e cittadini con l’intento di dare un cambiamento alle politiche e al sistema di governo locale. L’idea di “cambiare spartito” nel nostro Comune è stata accolta da molti partiti sinistra, anche da coloro che hanno posizioni diverse a livello nazionale, che hanno sostenuto il progetto civico appoggiandolo e realizzando un luogo nuovo di partecipazione. Immediatamente dopo le elezioni abbiamo aderito alla rete “Le città in comune”, una rete di amministratrici e amministratori di città e regioni di tutta Italia, che sono stati e sono protagonisti di esperienze politiche e elettorali nate sui vari territori e rappresentate da liste unitarie della sinistra diffusa e di alternativa. L’appello pubblicato qualche giorno fa da alcune cittadine e alcuni cittadini, provenienti da diversi territori della provincia di Ravenna, che hanno accolto l’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari sul solco del Brancaccio, non puo’ che essere accolto con entusiasmo da Ravenna in Comune. Auspichiamo, come chiesto nella lettera aperta, di poter incontrare i firmatari e di poter portare il nostro contributo nella realizzazione di un incontro aperto a tutti, associazioni, partiti, singoli cittadini, per provare a dare una voce ai tanti delusi dalla politica che non trovano più rappresentanza nell’attuale sistema partendo da un’attività sempre più intensa nel territorio provinciale.
A Faenza, da alcuni giorni, il fiume è stravolto da lavori, erroneamente definiti di “pulizia”, al fine di eliminare totalmente la vegetazione degli argini.
Come nel 2012, il Lamone viene invaso e degradato da un cantiere di tipo stradale, con aperture di larghe vie sterrate, attraversamenti sul fiume, ammassi di rami e detriti.
Alle conseguenze dell'emergenza idrica si aggiunge l'impatto brutale di un intervento che sfigura paesaggio e biodiversità dell’ambiente fluviale.
È la solita applicazione del metodo emergenziale: ci si ricorda dell’esistenza di un fiume solo in occasione delle piene, delle crisi da siccità e, in ultimo, dell’eccessiva crescita della vegetazione sulle sponde dell’alveo.
Per risolvere il “problema” della vegetazione si ricorre al periodico intervento di un’azienda che produce cippato da utilizzare come biomassa da bruciare.
Tra un intervento e l’altro, il tratto urbano del Lamone ritorna ad essere un luogo marginale e dimenticato dalla classe politica.
Esiste invece un modo per coniugare le prescrizioni dell’Autorità di Bacino sulla sicurezza idraulica, l’ecologia del fiume e la qualità del paesaggio: è il modello di gestione basato su una manutenzione costante.
Un modello che previene la formazione di grandi masse di vegetazione in alveo ed evita pesanti e frequenti interventi come quello in corso.
Con mezzi meccanici leggeri si può mantenere una copertura a prato e piccoli arbusti, conservando solo i principali alberi che, per posizione e stabilità, non rappresentino alcun rischio per il deflusso dell’acqua.
È una condizione di equilibrio che eviterebbe gli sconquassi fisici e ambientali dei luoghi, la degradazione della fruibilità del fiume e quindi della qualità abitativa della città.
In tempi di forte impulso ciclo turistico, l’attuale stato del Lamone offre un pessimo biglietto da visita della città anche per i ciclo escursionisti che, pur in assenza di promozione turistica, usano gli argini dei fiumi come percorsi di una rete ciclabile.
Da decenni a Faenza si susseguono annunci e grandi progetti: dal “Parco fluviale” dei vari PRG e PSC (definizione scorretta: l’ambito di un parco fluviale va dalla sorgente alla foce), ai “fiumi” di parole sulla qualità urbana (dei mesi scorsi), ai contratti di fiume; sarebbe ora di passare dalle roboanti dichiarazioni d’intenti alle azioni concrete e coerenti.
Il tratto urbano del Lamone deve essere considerato come un parco della città, inserito nel contesto territoriale di bacino; un luogo centrale per la qualità abitativa e paesaggistica.
I pesanti interventi della cosiddetta “pulizia” dimostrano che attualmente il fiume è visto solo come potenziale fonte di problemi.
Passare a un modello di manutenzione costante della sua “architettura del paesaggio” è il modo migliore per valorizzare un ecosistema, la funzione sociale, le potenzialità turistiche.
Lo stabilimento Cisa di via Oberdan è ormai ridotto ad un ammasso informe di macerie. Scompare, dopo l’Omsa e altre fabbriche, un simbolo e un pilastro dello sviluppo industriale nel faentino. Il suo posto verrà preso da strutture commerciali che andranno ad aggiungersi alle troppe già esistenti.
E’ l’atto finale di una storia scritta da tempo, forse con sue logiche e con gli atti a posto, ma che agli occhi dei faentini assume il significato amaro di una sconfitta. Il lavoro e l’intraprendenza di tanti avevano fatto della Cisa una sicura fonte di reddito e un marchio affermato nel mondo. Un marchio espressione dell’ingegnosità di Faenza. La multinazionale che ne ha acquisito la proprietà attraverso i passaggi che tutti conoscono ha deciso di portare all’estero le lavorazioni meccaniche cancellando 130 posti di lavoro. E’ così che vanno le cose in un mondo in cui prevalgono le leggi del profitto ad ogni costo, in cui la finanza speculativa domina sull’economia reale. Un mondo in cui i capitali, le fabbriche, il lavoro stesso possono essere trasferiti ovunque senza regole e senza frontiere, mentre le persone vengono respinte perché considerate “clandestine” se fuggono da guerre e miseria.
Gli accordi sottoscritti col sindacato prevedono per la Allegion – così adesso si chiama la Cisa – investimenti e ricerca nel segno dell’innovazione. Si tratta di impegni che, se rispettati come si deve, possono in qualche modo limitare i danni. Ma alcune riflessioni sono d’obbligo: chi ha licenziato viene premiato consentendogli un’operazione immobiliare senza dubbio molto vantaggiosa; un altro colpo pesante verrà inferto al sistema distributivo locale (se le famiglie non hanno soldi da spendere che senso ha – o a quali interessi risponde – aprire nuove grandi strutture?); lavoro buono e durevole verrà sostituito da occupazione precaria e mal pagata.
Bisogna avere il coraggio e l’intelligenza di mettere in discussione questo modello. Non farlo vuol dire assumersi la responsabilità di quanto accade, delle crescenti diseguaglianze, dell’emarginazione dei giovani, del venir meno della coesione sociale su cui fino ad oggi ha retto la nostra fragile democrazia.
Se ne parla poco e pochi lo sanno: un’altra criticità del sistema socio-sanitario in ambito locale riguarda il servizio deputato alla cura e al recupero delle persone affette da patologie psichiatriche e di quelle che intraprendono il percorso per uscire da una condizione di dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti.
L’Unità operativa semplice del Centro diurno di recupero può contare solo su cinque operatori, mentre la pianta organica ne prevede uno in più (quattro educatori e due infermieri). Presso la struttura vengono attuati progetti intensivi a termine per il reinserimento di 35 pazienti, numero che dal 2015 – periodo in cui l’organico era al completo – è rimasto invariato. Non si giustifica quindi la diminuzione di personale, se non in una logica di tagli. Alla carenza d’organico, chi è rimasto deve comunque far fronte con buona volontà, alta professionalità e senso etico.
Siamo in sostanza di fronte, anche per queste attività, ad uno scenario già noto, sia a Faenza che in provincia. Il problema va risolto, avendo quale primo obiettivo – soprattutto per strutture il cui lavoro particolarmente difficile non può sfuggire a nessuno – i bisogni ai quali i servizi socio-sanitari pubblici sono chiamati a fornire risposte adeguate.
Una situazione altrettanto grave sta interessando anche l’area medico-psichiatrica: tre sanitari mancano dal servizio, due sono in uscita per trasferimento e un altro è in aspettativa di lunga durata. Non lontano nel tempo, inoltre, si profila il pensionamento del direttore del Centro di salute mentale.
Sono numerosissimi i pazienti seguiti dal Centro stesso: la carenza di medici rischia di tradursi in una riduzione del monitoraggio. L’approccio a tali patologie è necessariamente multidisciplinare: psicoterapia, psicologia e farmacologia si integrano in un delicato equilibrio che la mancanza di personale può compromettere.
Al quadro appena delineato si aggiunge il trasferimento dai locali dell’ex Baliatico a quelli di via Zaccagnini. La scelta si sta rivelando non idonea quanto a funzionalità e ad accessibilità. Si tratta in effetti di uffici riadattati e di un’ubicazione incongrua per un servizio come il Centro di salute mentale, il presupposto della cui funzione si basa proprio sulla scelta/bisogno di recarvisi da parte di persone in momenti di forte disagio. La facilità di accesso è dunque un requisito fondamentale per attrarre l’ampia sfera di potenziali utenti che restano purtroppo nel “sommerso”.
A tale proposito va assolutamente corretta l’impostazione data dal Servizio Sanitario Regionale: esso considera da tempo la malattia psichiatrica e le dipendenze da sostanze parte del medesimo ambito, quello psichiatrico, a differenza di quanto avviene in altre Regioni. Questa impostazione non favorisce i percorsi terapeutici di chi tenta di uscire dalla dipendenza che lo affligge: non vi è in effetti nessuna automatica correlazione fra la patologia psichiatrica e l’assunzione di sostanze nocive alla salute. Ridurre la dipendenza ad una questione da psichiatri vuol dire decontestualizzare la persona da una realtà sociale e culturale spesso degradante che invece va tenuta nel dovuto conto ai fini della prevenzione.
Problemi esistono anche a carico della residenza psichiatrica di Brisighella, una struttura che si occupa di 14 pazienti residenti, cinque dei quali con vincolo giudiziario (a seguito della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari avvenuta il 1º febbario 2013). Le risposte all’accresciuta complessità sono stati paradossalmente il passaggio di medici dal tempo pieno a quello ridotto e l’assegnazione al turno notturno di educatrici senza la compresenza della figura sanitaria.
Sul territorio si assiste ad un incremento delle situazioni di disagio sociale, in parte legate alla crisi, a nuove aree di povertà e all’incapacità della politica di farvi fronte. Là dove le persone più vulnerabili non trovano risposta ai propri drammi, cresce di molto la probabilità di sviluppare patologie psichiatriche latenti, oppure di cadere nell’abuso di sostanze. I servizi pubblici devono essere all’altezza di queste situazioni, ad iniziare dalla prevenzione che, inserita in un contesto sociale e accogliente, può fare la differenza per continuare a sottoporsi a terapie fruibili ed efficaci.
"ERO STRANIERO, l'umanità che fa bene" , per cambiare il racconto dell'immigrazione, una legge di iniziativa popolare per superare la legge Bossi-Fini e investire su accoglienza, lavoro e inclusione. La campagna, alla quale diamo la nostra adesione, è promossa da diverse organizzazioni (volantino allegato).
E' possibile firmare questa proposta in diverse occasioni pubbliche oltre che all'ufficio elettorale del Comune di Faenza.