Arma infame. Ennesimo ordine di evacuazione israeliano, i centri delle Nazioni unite sono inutilizzabili
Nella foto grande, sfollati palestinesi in fila per il cibo nel centro di distribuzione dell’Onu a Deir al Balah Ap/Abdel Kareem Hana
Domenica sera l’esercito israeliano ha emesso il quarto ordine di evacuazione in quattro giorni per Deir al-Balah, città che dà il nome a uno dei distretti centrali di Gaza. Ventiquattro ore dopo, ieri, le Nazioni unite hanno annunciato – ufficiosamente – lo stop alla consegna degli aiuti umanitari nella Striscia. In attesa di individuare nuovi luoghi in cui coordinare gli arrivi (sporadici) e le consegne (complicate) fa sapere un alto funzionario dell’Onu in condizione di anonimato, «stiamo provando a bilanciare i bisogni della popolazione con quelli di sicurezza del personale delle Nazioni unite».
LE RAGIONI DIETRO la decisione sono essenzialmente due, entrambe legate agli ordini di evacuazione che significano che una determinata area è considerata dall’esercito israeliano passibile di bombardamenti senza ulteriori avvertimenti: la prima è la posizione dei principali centri di immagazzinamento e di distribuzione degli aiuti umanitari, tutti dentro quelle caselle colorate con cui Tel Aviv da mesi seziona Gaza e che, ordine dopo ordine, non sono considerabili «sicure»; la seconda è il numero senza precedenti di operatori umanitari ammazzati in un’offensiva militare, 289 in quasi undici mesi, la maggior parte dei quali – 207 – appartenenti all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa.
«Non lasceremo Gaza perché la gente ha bisogno di noi», ha aggiunto ieri il funzionario dell’Onu spiegando che l’organizzazione si sta muovendo per individuare nuove postazioni, diverse da quelle di Deir al-Balah e di Rafah, a oggi i principali hub umanitari nella Striscia. Non è facile: «Dove ci trasferiamo adesso? La sfida è trovare un luogo da cui ripartire e dove poter effettivamente operare».
DI FATTO è l’identica sfida che si trovano davanti dal 7 ottobre i palestinesi di Gaza: dove andare, dove sentirsi davvero al sicuro. È una domanda senza risposta in un fazzoletto di terra che è ormai un’immensa «zona rossa»: almeno l’85% di Gaza ricade oggi sotto «ordine di evacuazione». L’allarme non è nuovo, da mesi le Nazioni unite implorano per corridoi umanitari davvero sicuri. A partire dalle porte di accesso, i valichi via terra sotto-utilizzati a causa della burocrazia di guerra israeliana: regole che non esistono su carta e che sono di fatto l’ennesimo strumento militare.
Ieri il World Food Programme (Wfp) ha denunciato «le autorizzazioni lente e i frequenti rifiuti quando si chiede il permesso a muovere» gli aiuti che, uniti ai saccheggi e all’ormai totale assenza di ordine, hanno fatto sì che «solo la metà delle 24mila tonnellate di aiuti alimentari necessari a 1,1 milioni di persone» arrivassero a destinazione.
L’AGENZIA UMANITARIA dell’Onu (Ocha) dà i numeri: dal primo al 22 agosto il 19% delle 147 missioni umanitarie verso il nord di Gaza (in piena carestia) è stato ostacolato, il 31% negato e il 6% cancellato all’ultimo momento. Totale 56%. La responsabilità, aggiunge il Wfp, ricade su «l’intensificarsi del conflitto, il numero limitato di valichi e le strade disastrate» e, infine, sugli ordini di evacuazione israeliani.
Oltre che di fame, a Gaza si continua a morire di bombe. Ieri l’aviazione israeliana ha colpito l’ennesima scuola, rifugio agli sfollati, in quella che è diventata la «normalità» dell’offensiva israeliana. Vittime si registrano a Gaza City, Nuseirat, Jabaliya e Deir al-Balah, dove a preoccupare è la condizione dell’ospedale al-Aqsa, «caduto» dentro gli ultimi ordini di evacuazione militare. All’interno ci sono ancora un centinaio di pazienti in gravi condizioni, di cui sette in terapia intensiva; altre decine, insieme a tanti sfollati, sono scappati nelle ultime ore, nel panico. Secondo le autorità sanitarie di Gaza gli uccisi ieri erano almeno trenta. Portano il totale accertato dal 7 ottobre a 40.435, a cui si aggiungono 10mila dispersi.
NUMERI che rimbalzano sul muro di gomma che è il negoziato in corso tra Israele e Hamas. Il tavolo atteso per domenica scorsa, con le speranze ridotte al lumicino, non ha riservato alcuna sorpresa: un nulla di fatto, Hamas se n’è andato quasi subito. Le due parti restano distanti anni luce sui punti chiave, ovvero il controllo dei due corridoi (Netzarim al centro e Philadelphia a sud) e sul destino dei prigionieri palestinesi da liberare. Ovvero sulle condizioni che il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha aggiunto alla proposta accettata dal movimento islamico palestinese, quella formulata il 31 maggio scorso dal presidente statunitense Joe Biden e approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
GLI UNICI a spacciare ottimismo sono gli Stati uniti, una posizione che ogni giorno di più appare dettata da meri calcoli elettorali interni e sempre meno da prospettive effettive.
Il dialogo non è morto, ma non sembra nemmeno mai nato. Washington dice che il lavoro prosegue, su quali basi non è chiaro nemmeno a loro