A luglio, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, l’indice dei prezzi al consumo è salito dello 0,4% rispetto al mese precedente (7,9% su base annua). E a galoppare sono innanzitutto i prezzi dei beni di prima necessità, nonostante il calo dei prezzi dei beni energetici. Si evince certamente dal dato sull’inflazione «di fondo» (al netto degli energetici e degli alimentari freschi) e da quello depurato dalla sola componente energia. Ma soprattutto dall’impennata dei prezzi dei prodotti ad alta frequenza e del «carrello della spesa». Quest’ultimo, in particolare, ha fatto registrare un +9,1% rispetto al mese scorso (massimo dal 1984).

Una stangata per i ceti popolari. La stima è che con questa inflazione una famiglia con due figli spenderà circa 750 euro in più all’anno solo per magiare (+3.152 euro complessivamente, a parità di consumi, rispetto all’anno scorso, per il Codacons). In termini aggregati, sono 53,5 miliardi di euro in più per l’acquisto di beni e servizi rispetto al 2021, di cui 10,9 miliardi solo per il cibo. Salari reali falcidiati. La risposta non sono i bonus una tantum di 200 euro. Peraltro ne sono esclusi proprio i ceti più fragili della

società: precari e poverissimi.

Così pure per la «rivalutazione delle pensioni» prevista nel Decreto Aiuti. Per un assegno di 952 euro al mese, un aumento lordo di 10,49 euro. Un’elemosina. C’è da adeguare salari, stipendi e pensioni all’inflazione. Salario minimo e nuova scala mobile. Nel mentre si agisce a valle riducendo o azzerando del tutto l’Iva sui beni primari. I soldi? Si prenda spunto dagli Stati Uniti, che finanzieranno un piano di investimenti e di aiuti alle famiglie per un valore di 740 miliardi di dollari («Inflation Reduction Act») con i proventi di una tassa al 15% sulle aziende che realizzano utili superiori al miliardo di dollari e di un’altra dell’1% sulle società che riacquistano azioni proprie sul mercato. «Il tutto riducendo il deficit e facendo pagare alle aziende più ricche la loro giusta quota», ha dichiarato Biden. Seguire gli Usa su queste scelte, anziché sulla corsa al riarmo, sarebbe davvero cosa buona e giusta.
Inflazione che sale, economia che arranca.

Dopo l’Istat che ha parlato di «decelerazione» delle attività economiche, è il momento di Bankitalia. Risalta, in particolare, il dato relativo all’indice «Ita-coin» contenuto nel rapporto mensile di via Nazionale («L’economia italiana in breve»): -0,49 a luglio. A marzo il suo valore era pari a 1,19. L’«Indicatore ciclico coincidente» è uno strumento pensato per restituire stime tempestive «sull’evoluzione tendenziale dell’attività economica», elaborando informazioni derivanti da una molteplicità di variabili macroeconomiche, sia quantitative (produzione industriale, inflazione, vendite al dettaglio, import/export), sia qualitativa (fiducia di famiglie e imprese). Un indicatore che guarda al medio periodo, partendo dalla congiuntura, insomma.

Per questo, del suo calo repentino faremmo bene a preoccuparci, anziché celebrare, a fini elettorali, i risultati effimeri del cosiddetto «rimbalzo». Intanto, oltreoceano, non c’è stata l’ulteriore impennata dei prezzi attesa dagli analisti. A luglio, +8,5% (ci si aspettava un +8,7%), dopo il +9,1% del mese precedente. Anche in America, tuttavia, si assiste ad una accelerazione dei prezzi dei beni alimentari. +10,9% su base annua (mai così dal 1979).

Il dato di luglio può comunque indurre la Fed ad attenuare la sua politica restrittiva? Molto probabilmente no. Un solo mese non basta. Le scelte della Fed possono avere un impatto negativo sul ciclo economico? E’ quello che si chiama «rischio calcolato». Ma adesso c’è da capire anche quali effetti avrà sull’economia (e sulla stessa inflazione) il citato pacchetto di misure per il clima, la sanità e le famiglie approvato domenica scorsa dal senato. Spingerà solo l’inflazione come dicono i Repubblicani o metterà l’economia al riparo dagli effetti recessivi della politica monetaria della Fed? La seconda ipotesi è quella che farebbe bene anche alla nostra economia barcollante.