Opinioni Molti governi Ue vogliono tornare, come gli Usa del Maga, a “fare la storia”. Ma non è facile cambiare le aspettative nel Welfare con i «vantaggi» da grande potenza tutta da
Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Donald Tusk davanti alla guardia d’onore a Berlino a marzo – GettyImages
Secondo quanto riferisce il Financial Times l’Unione europea si appresterebbe a dirottare parte dei fondi di coesione (gli stanziamenti previsti per ridurre gli squilibri tra le regioni della Ue) verso investimenti di natura militare, seppure non in forma diretta come l’acquisto di armi e munizioni. I fondi, ad oggi spesi in minima parte, verrebbero destinati ad infrastrutture necessarie (ponti, strade, ferrovie) alla mobilità delle forze armate e all’incentivazione dell’industria bellica.
Sia pure in mancanza di conferme ufficiali, una decisione in questo senso appare del tutto coerente con la spinta al riarmo, più volte enfatizzata dalla presidente della Commissione von der Leyen, che la guerra in Ucraina prima e ora l’elezione di Donald Trump alla Casa bianca alimentano in tutto il Vecchio continente. Il nuovo presidente degli Stati uniti minaccia infatti di non voler più supplire all’insufficiente spesa militare dei paesi europei inquadrati nella Alleanza atlantica. E sebbene sia del tutto improbabile che gli Usa rinuncino, anche solo parzialmente, al loro ruolo di superpotenza e al conseguente potere di controllo sui più importanti gangli politico-economici del pianeta, è pur vero che aspirano a esercitarlo con minor costo e coinvolgimento diretto, trattando direttamente, e a prescindere dagli interessi degli alleati, con le controparti geopolitiche.
L’Europa, nell’infervorata retorica di molti suoi governi, proclama di voler tornare, come l’America del Maga, a “fare la storia”, ma in realtà è la storia che ha fatto l’Europa del dopoguerra come oggi la conosciamo. E non l’ha fatta come potenza militare coesa e minacciosa, ma come una realtà plurale, talvolta rissosa, dedita ai commerci, agli scambi economici, alla diplomazia e all’impiego produttivo di una vasta immigrazione intra ed extraeuropea.
Niente di idilliaco, sia chiaro, ma non una realtà basata sull’esercizio della forza, né l’aspirazione a un ruolo di superpotenza, nonostante l’intervento nei Balcani in una contesa tutta intra-europea per l’egemonia della regione .
Questa sedimentazione non si cambia dall’oggi al domani, non si traghettano agevolmente le aspettative riposte nel Welfare e nella sicurezza sociale verso i vantaggi, i privilegi o le opportunità derivanti da una posizione, peraltro tutta da conquistare, di grande potenza. La penosa metafora zoologica del presidente francese Macron su un’Europa erbivora circondata da Paesi carnivori omette il fatto che quest’ultima categoria comprende tanto il volpacchiotto quanto il Tirannosauro. E non sarà certo la sua force de frappe moltiplicata per 27 a collocare in tempo utile la Ue tra i grandi predatori.
Le destre europee, in espansione e sempre più aggressive, hanno esultato in coro per la vittoria di Trump. Affinità ideologiche, esaltazione del valore esemplare dell’immagine, dello stile e del decisionismo del tycoon, alimentano ammirazione ed entusiasmo. Ma nel concreto nessuno sa prevedere il corso degli eventi. Gli interessi nazionali tendono naturalmente a confliggere e trasformare la competizione economica in guerra commerciale. Alla quale nulla garantisce che un’Europa così fortemente attraversata dai nazionalismi sappia o voglia rispondere unita. Una frammentazione sulla quale gli Usa hanno in fondo sempre puntato e ora più che mai. Nulla vi è di più imprevedibile e pericoloso di un nazionalista megalomane come Trump che può però contare su un raggio di azione imperiale.
L’Europa, di contro, e in particolare il suo cardine franco-tedesco, versano oggi nelle peggiori condizioni di sempre. Parigi ha consegnato il governo al potere di ricatto della destra estrema e a Berlino la coalizione liberalsocialista si è liquefatta, mentre la presenza, sia pure ancora isolata, della destra radicale di Afd cresce e condiziona pesantemente la politica tedesca. In questa situazione precaria e incerta ogni visione d’insieme è preclusa. E la strada del riarmo, di fronte all’evocazione del massimo pericolo e dell’emergenza estrema, sembra essere l’unica in grado di forzare il rigorismo finanziario e i vincoli di bilancio. Non senza pesare sui cittadini il cui consenso, o la cui rassegnazione, sarà affidata al talento autoritario dei governi della destra. Nonché all’illusione che la produzione bellica, più per il proprio riarmo che non per una esportazione che si annuncia irta di ostacoli, riesca a risollevare le sorti dell’industria e dell’occupazione. Uno schema più arcaico e ingenuo di questo è ben difficile da immaginare