Politica. Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente […]
Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma - foto di Angelo Carconi/Ansa
Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente ottenuto dai partiti della sinistra radicale. Dall’altro lato, è altrettanto evidente: è impossibile che questo intero arco di forze possa concordare un programma politico comune. E allora, se il dibattito politico continua ad impantanarsi sul tema «chi sta con chi», non se ne esce: bisogna cambiare approccio, bisogna fare – se è lecito scomodare Vittorio Foa – una «mossa del cavallo».
Il modo corrente di impostare la questione rivela un vizio di fondo: molti, anche a sinistra, continuano a ragionare restando prigionieri della cosiddetta cultura del maggioritario. Secondo questa logica, accordi elettorali e accordi politici devono necessariamente avere lo stesso perimetro. Ma non è scritto da nessuna parte che debba essere così. Accordi elettorali e accordi politici sono due sfere ben distinte: un accordo politico, certo, si traduce in un accordo elettorale; ma non è vero l’inverso: si possono prevedere aree di accordo programmatico e aree di dissenso e differenza: ma questo non dovrebbe impedire una tattica e una strategia elettorale unitaria e cooperativa.
Questo, sul piano dei principi: ma, concretamente, come fare? In genere, si rimanda ad un futuro indefinito la soluzione dei dettagli tecnici: ma questi non sono mai solo tali. È bene cominciare a parlarne subito. Poiché è probabile che il sistema elettorale non cambi (il governo si è incartato nel rebus di una legge adatta all’elezione diretta del premier; il Pd non sembra aver sciolto le sue incertezze sul modello da proporre), allora bisognerà agire sfruttando strategicamente alcune caratteristiche del Rosatellum. Ricapitoliamo: questo sistema prevede il 37% dei seggi eletti attraverso sistemi uninominali maggioritari e il 61% su base proporzionale, mediante liste bloccate che convergono su una candidatura uninominale (con soglia al 3%). Il voto degli elettori è molto vincolato: nessuna possibilità di voto disgiunto, chi vota un simbolo vota il candidato collegato, e persino i voti di chi indica solo il candidato sono redistribuiti tra le liste. Ma va notato un aspetto: i dati delle precedenti elezioni mostrano come siano molto pochi gli elettori che scelgono solo il candidato uninominale, moltissimi invece quelli che votano solo per il simbolo del partito. Di fatto, la gran parte degli elettori segue una logica di comportamento tipica delle competizioni proporzionali. E i voti dei candidati uninominali sono, in larghissima misura, la somma dei voti alle liste collegate. E allora, l’obiettivo è semplice: si tratta di neutralizzare gli effetti distorsivi della quota maggioritaria e di «proporzionalizzare» quanto più possibile gli esiti del voto.
Questo è possibile se si costruisce una coalizione elettorale che impedisca un’asimmetria degli schieramenti e la conseguente sovra-rappresentazione della destra, frutto solo della divisione dei suoi avversari (scenario 2022).
In che modo? Non c’è bisogno di inventare nulla, ci si può ispirare ad alcuni aspetti della strategia elettorale dell’Ulivo, nel lontano 1994 (documentata anche da alcune ricerche). I passaggi tecnici (ma molto politici) sono i seguenti. Si tratta di: a) condividere una valutazione sul peso percentuale di ogni possibile alleato; b) classificare preventivamente i collegi uninominali sulla base della loro qualità competitiva (sicuri, probabili, incerti, difficili, impossibili); c) operare una distribuzione ponderata delle candidature, sulla base del peso di ciascuna forza e di un’equa ripartizione delle varie tipologie di collegi; d) riservare alla coalizione un certo numero di candidature indipendenti in cui possano riconoscersi più forze.
Si potrebbe configurare, quindi, uno scenario che è possibile descrivere con l’immagine di due cerchi concentrici: il primo è quello del nucleo centrale della coalizione, che condivide un programma comune; il secondo è quello costruito da altre forze che, con una propria autonomia, concordano tuttavia una strategia elettorale comune (contro la destra, ma anche nel loro stesso interesse: facendo parte di un cartello elettorale molto ampio si può disinnescare la tagliola del voto utile e può essere più facile superare la soglia del 3%; ci riflettano, in particolare, le forze della sinistra radicale, se non vogliono andare incontro all’ennesima tornata di delusione e frustrazione e magari vogliano provare a ottenere finalmente una presenza in parlamento).
Naturalmente, un’obiezione sarà subito sollevata: è un cartello elettorale, appunto, non una proposta di governo. Si può replicare con vari argomenti. Il primo nasce dal buon senso: certo, è un accordo elettorale: e allora? Bisogna forse impiccarsi alle divisioni e spianare la via ad un’altra iper-maggioranza della destra? Già nel 2022 l’autolesionismo è stato palese: bisogna ripetere lo stesso copione? Sarebbe folle. Ma si può dire molto di più: il nucleo centrale (e quanto più ampio possibile) dell’alleanza presenta un programma comune di governo, e dipende dagli elettori se potrà avere una maggioranza autosufficiente. In ogni caso, dopo il voto si potrà aprire una normale dialettica parlamentare, sulla base dei rapporti di forza emersi dalle urne. Forse potrebbe essere un modo per cominciare ad uscire da questo nostro, oramai insostenibile, sistema pseudo-maggioritario, sempre più asfissiante