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Nella storia non c’è stata mai una guerra giusta, ma alcune guerre sono state necessarie: si poteva fermare Hitler senza l’Armata Rossa e senza gli sbarchi degli Alleati?

Sulla guerra la nostra Costituzione parla chiaro, al di là delle interpretazioni sofistiche che le sono state date negli ultimi trent’anni: l’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali. Ripudiare ha una forza costrittiva e morale che solo chi è in malafede può mettere in discussione. La Costituzione, però, non fa dell’Italia un Paese senza esercito e senza forza militare; li assoggetta invece, implicitamente, alla legittima difesa della Nazione: di fronte ad un attacco armato di un altro Stato, l’Italia si difenderà con le armi, nel pieno rispetto del dettato costituzionale, senza ombra di dubbio. Ma che ne è della nozione di ‘legittima difesa’ nell’epoca delle guerre asimmetriche e della lotta al terrorismo internazionale? Molti l’hanno allargata fino alla totalizzante, e per questo ormai inutilizzabile, nozione di ‘guerra preventiva’. Di fronte alla minaccia terroristica, ogni azione, anche un intervento militare fuori dallo stato di guerra, è ammissibile e riconducibile al dettato costituzionale: è una posizione che calpesta l’articolo 11 della Costituzione, ma è ormai la posizione che tutte le maggioranze parlamentari succedutesi al governo del Paese negli ultimi anni hanno fatto propria, avallate dalla presidenza della Repubblica. Oggi che si torna a parlare di nuove missioni militari è giusto domandarsi: sono necessarie alla sicurezza del Paese?

Per rispondere è utile rammentare i passaggi decisivi della politica estera occidentale dal 1991 e presentare un sintetico quadro della situazione sul campo oggi.

Nel 1989, la caduta del muro di Berlino, salutata come la fine della storia, doveva aprire un’era di convivenza pacifica sotto l’egemonia economica e culturale occidentale. La guerra è stata utilizzata subito, non appena questa egemonia è stata messa in discussione. L’attacco all’Iraq nel 1991 è stato, prima di tutto e soprattutto, una dimostrazione di forza dell’Occidente; nell’intenzioni degli USA e dei suoi alleati doveva servire come prima, ma anche ultima e definitiva esemplificazione della loro supremazia, come lezione da imparare a memoria da parte di tutti coloro che volevano opporsi ai loro piani di dominio e controllo. Era ancora una ‘guerra simmetrica’, una guerra tra eserciti nazionali (per quanto di impari forza), una guerra che la diplomazia internazionale sperava di chiudere con le sanzioni e gli USA con il controllo dell’economia irachena. Era una guerra che Norberto Bobbio definì “un caso esemplare di guerra giusta”. Si sbagliavano tutti.

Ma Stati Uniti e Inghilterra hanno fatto un altro errore, ancora più macroscopico: dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, hanno manipolato l’opinione pubblica internazionale per

giustificare un secondo violentissimo attacco all’Iraq, distruggendo completamente qualsiasi possibilità di risolvere con la politica i problemi dell’area mediorientale. Oggi Pawell è reo confesso di aver portato alle Nazioni Unite prove false che hanno indotto l’assemblea a dare la copertura giuridico-diplomatica all’attacco; Blair è stato messo spalle al muro da un’indagine del parlamento inglese per aver condotto il Paese in una guerra ingiustificata e la New York Review of Books lo addita come uno dei massimi responsabili della crisi internazionale che stiamo vivendo. Gli USA e loro alleati, non solo hanno distrutto ogni speranza di risoluzione politico-diplomatica dei conflitti nel breve periodo, ma hanno trasmesso ripetuti e terribili messaggi di sospensione delle minime garanzie democratiche proprie della nostra tradizione politica: invece di esportare democrazia abbiamo ridotto le nostre libertà civili e le nostre garanzie giuridiche; il 17 ottobre è stato scarcerato Mohamedou Ould Slay, un nativo della Mauritania che ha trascorso 14 anni nella prigione americana di Guantanamo, senza che in tutti questi anni venisse avanzato nei suoi confronti nessun capo d’accusa: e dire che il mondo anglosassone si vanta di avere introdotto l’habeas corpus (cioè il divieto di incarcerare un uomo senza accuse da parte di un giudice, accuse che l’imputato deve conoscere per potersi difendere) fin dalla Magna Charta del 1215; e il caso di Ould Slay è uno tra tanti.

La Russia di Putin ha dato un’altra spallata decisiva all’instabilità internazionale: le guerre in Cecenia sono state combattute con una ferocia e sulla spinta di un’ideologia nazionalista tesa a disumanizzare i nemici che non possono trovare giustificazione alcuna. E se è vero che gli Usa hanno alimentato conflitti e pressioni sui confini orientali della Russia (vedi crisi dell’Ucraina ed oggi stanziamento di truppe NATO, italiani compresi, nei paesi baltici), è altrettanto vero che la volontà di potenza di Putin è originaria e non indotta. Se oggi alcuni commentatori iniziano a parlare di una seconda guerra fredda, è perché sia Russia che Usa stanno perseguendo disegni d’egemonia internazionale, autonomi e, inevitabilmente, conflittuali.

Infine c’è il terrorismo internazionale. Esso si muove all’interno di una cornice ideologia religiosa, ma persegue obiettivi geo-politici ed economici razionali, distruttivi e pregni di violenza. La dissoluzione degli Stati nazionali favorita dalle dissennate scelte occidentali (Libia, Iraq, Siria, Libano, Afganistan oggi sono solo dei nomi sulle cartine geografiche), è stata la prima e più importante condizione che li ha alimentati: Al-Qaeda e il Califfato hanno prosperato sulle rovine di Stati distrutti, di amministrazioni centrali vaporizzate, di economie sabotate, di società civili terrorizzate e rese impotenti. Non essendoci nessun modello alternativo al capitalismo occidentale in crisi e alla sua democrazia screditata, la predicazione religiosa fa migliaia di proseliti, non tanto tra i disperati, ma tra coloro che confondono il mezzo per il fine, e scelgono la violenza e la distruzione come via feroce di autodeterminazione.

La situazione oggi.

Sopra abbiamo abbozzato il recente passante in cui inquadrare il ventilato intervento italiano in uno scenario di guerra, ma vale la pena riflettere un momento sulla congiuntura politica odierna: non solo essa è complicatissima, ma non suggerisce alcun ottimismo. Elenchiamo gli scenari di guerra attorno al Mediterraneo e nel Medio Oriente.

Libia: il Paese, dopo il feroce rovesciamento di Gheddafi voluto dall’Occidente (Francia in testa), è diviso di fatto; è conteso da almeno tre gruppi: uno con base a Tripoli appoggiato dall’Occidente; uno che fa riferimento all’Isis asserragliato attorno a Sirte; un terzo aspira al controllo di una parte del Paese, alla secessione ed ha base a Tobruk.

Siria: il Paese è devastato da una guerra civile. Il governo dittatoriale di Assad è sostenuto dai russi che hanno nelle acque territoriali siriane la loro unica base navale mediterranea (Tartus, divenuta ancora più strategica dopo la crisi ucraina); i ribelli, invece, sono finanziati ed armati dagli USA; nella crisi si è inserito l’Isis, con importanti conquiste territoriali. A nord operano i curdi, nemici dell’Isis, ma anche i Turchi, che hanno favorito in tutti i modi l’Isis e i ribelli anti-Assad in funzione anti-curda.

L’Iraq: i suoi confini non corrispondono più a quelli di uno Stato nazionale: a nord operano i curdi; ai confini con la Siria il territorio, oggi sotto attacco, è controllato dall’Isis; nel resto del Paese fortissimi sono i contrasti tra i sunniti e gli sciiti che fanno riferimento all’Iran.

L’Iran: è l’unico Stato forte della regione (con Israele). Per questo motivo, da Stato canaglia e nemico numero uno degli USA, ne è divenuto alleato in Iraq, in funzione anti-Isis, suscitando vibranti proteste da parte di Israele e dell’Arabia Saudita (sunnita). Con l’Arabia Saudita l’Iran è in guerra per procura, nello Yemen; lì si sta combattendo una guerra civile tremenda tra sciiti e sunniti - e lì gli Americani, sebbene defilati, sostengono il loro alleato storico contro l’Iran (con il quale invece hanno concluso un accordo sulla ricerca atomica).

L’Arabia Saudita, vera base economica ed ideologica del terrorismo con matrice fondamentalista, è così importante nella visione economica e strategica USA che Obama si è opposto alla richiesta delle famiglie delle vittime americane dell’attentato dell’11 settembre 2001 che chiedevano di avviare azioni giudiziarie contro l’Arabia Saudita, ormai acclarata culla di quella azione terroristica.

In Afghanistan, proprio in questi giorni, sono stati avviati contatti tra il governo nazionale e i talebani, che controllano gran parte del territorio del Paese, con l’esclusione dei grandi centri urbani, per cercare una soluzione diplomatica ad un conflitto lungo oltre quindi anni.

Anche il Pakistan è una polveriera, con forze di sicurezza e militari sempre più schierati con i talebani e un potere laico sempre più in difficoltà rispetto ai leader religiosi.

La Turchia - dove da poco è stato sventato un colpo di Stato dai contorni poco chiari che ha comunque consentito al regime di Erdogan di rafforzare il proprio potere a scapito delle opposizioni e delle libertà civili e democratiche - pur restando fedele alleato degli USA, ha riallacciato le relazioni diplomatiche con la Russia dopo la crisi per l’abbattimento del Mig russo sul confine tra Siria e Turchia. Alla base del nuovo accordo stanno sicuramente fondamentali progetti energetici, logiche di import-export tra i due Paesi e un ventilato accordo sulla questione curda (per impedire la nascita di uno Stato curdo).

Detto che il Libano è ormai da un decennio un simulacro di Stato, rimane per ultima, ma non ultima, la questione palestinese. La sua mancata soluzione è un fattore durevole e decisivo d’instabilità.

Questo lo scenario di guerra che sta producendo migliaia di profughi e migranti che si riversano in Europa, il 70% dei quali vittime di organizzazioni criminali che lucrano sulla loro disperazione.

Se il governo italiano non chiarisce i propri obiettivi politici e diplomatici, ogni missione militare è destinata al fallimento. Non è accettabile inviare i soldati per dimostrarsi fedeli alleati degli USA, né è tollerabile che siano dispiegati semplicemente per difendere i nostri interessi economici in Paesi devastanti dalla guerra, gli stessi interessi economici che ci impediscono di avere una posizione di fermezza nel caso Regeni. Del resto, gli esempi che ci vengono dalla Francia sono lì a dimostrarci che le ex potenze coloniali non hanno rinunciato a difendere con la forza i propri interessi, siano essi in Africa o in Medio Oriente.

Sono 25 anni che si combatte contro ‘Stati canaglia’ e terrorismo internazionale, e il fallimento dell’opzione militare è sotto gli occhi di tutti: sono stati distrutti interi Stati, la democrazia è regredita anche in Paesi laici come la Turchia, i focolai di guerra si sono moltiplicati, il terrorismo internazionale è cresciuto in potenza di fuoco e capacità di reclutamento; in Europa è aumentato il numero degli attentati, i flussi migratori si sono ingrossati nonostante la crisi economica internazionale, alimentando pericolose derive di destra e populiste e mettendo in crisi la stessa UE a seguito della Brexit. I cristiani in Medio oriente sono stati perseguitati e quasi completamente espulsi da terre che abitavano da due millenni. Tutte le minoranze, ‘etniche’ religiose culturali, sono in balia dei signori della guerra. I morti e i feriti sono centinaia di migliaia.

Prima di replicare gli errori del passato, sarebbe opportuno ripensare completamente la strategia politica. Ma chi può farlo? Non certo l’America di Trump, ma nemmeno quella della Clinton, segretario di Stato uscente e quindi responsabile della politica estera statunitense negli ultimi anni. Putin non sta certo abdicando, Erdogan agisce sempre più da autocrate. Le monarchie arabe dei petrodollari, invece di essere costrette all’angolo, sono lustrate e lusingate con l’assegnazione delle massime manifestazioni sportive internazionali, compresi i campionati del mondo di calcio. Israele ha mano libera verso i palestinesi.

Se non si cambia paradigma politico, non ha alcun senso schierare l’esercito. Lo scrivo provocatoriamente: io sarei favorevole al dispiegamento di soldati italiani se essi fossero utili alla creazione di uno Stato curdo e di uno palestinese; se, come in Libano nel 2006, garantissero un reale cessate il fuoco in Yemen, Siria e Libia; se facessero ripiegare nelle loro basi i militari turchi e quelli russi; se fossero utili alla rinascita delle società civili irachena, siriana e afgana; se fossero un pungolo per l’avvio di un processo democratico in Arabia Saudita. Nulla di ciò trovo nelle parole del Presidente del Consiglio, del Parlamento italiano, della Mogherini. Così, nelle condizioni date, un intervento militare italiano in Libia o in Medio Oriente non è utile, non è necessario, non è costituzionale.