Per rimanere al potere la strategia «iraniana» del premier israeliano è una pistola puntata contro il mondo, Biden compreso. Cancellando la Palestina e il massacro in corso a Gaza
Benjamin Netanyahu durante un sopraluogo nel nord di Gaza - Ap
La trappola è scattata. Netanyahu continuerà a tenere il dito sul grilletto con il mirino puntato contro nemici e alleati, riluttanti o meno. Con l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile (in cui è morto anche un generale dei pasdaran) e la conseguente rappresaglia iraniana, in gran parte fermata nei cieli israeliani, ha ottenuto quello che voleva: allargare la guerra e oscurare Gaza dai titoli di prima pagina dei media. La questione palestinese va in secondo piano se deciderà di colpire duramente la repubblica islamica con un conflitto che si potrebbe espandere al Libano, alla Siria, all’Iraq e alla penisola arabica.
Nessuno potrà tenersi fuori, questo è l’obiettivo del premier che vuole coinvolgere tutti per tenersi in sella al potere _ questi sono i suoi calcoli – almeno fino alle elezioni americane di novembre. Ha ottenuto immediatamente con il suo spericolato cinismo la solidarietà militare degli Stati Uniti e di quei governi europei che hanno partecipato all’operazione contro droni e missili iraniani. E ora si parla insistentemente di una coalizione internazionale anti-Iran.
E’ vero che gli Usa e il G-7 hanno detto che non parteciperanno a un’eventuale attacco israeliano diretto contro Teheran. Ma si tratta di una posizione che potrebbe repentinamente cambiare: basta immaginare cosa potrebbe accadere se l’eventuale contro-rappresaglia verso l’Iran fosse seguita da un altro attacco di Teheran contro Israele. Netanyahu e il suo gabinetto di guerra infatti non hanno per niente rinunciato ad attaccare di nuovo gli ayatollah. E dopo avere detto che gli Usa sono al fianco di Tel Aviv in maniera “ferrea” diventerebbe assai sottile la differenza tra una guerra di attacco e una di difesa.
I capi delle potenze occidentali si sono già ampiamente sbilanciati a favore del premier e delle sue iniziative militari dissennate. Nessuno, tranne il segretario dell’Onu Guterres, ha condannato l’attacco israeliano del primo aprile all’ambasciata dell’Iran a Damasco che ha violato il diritto internazionale, la sovranità iraniana e anche quella siriana. In poche parole hanno applicato il solito doppio standard che è il vero e radicato motivo delle guerre in Medio Oriente. Del resto c’era da aspettarselo in una regione dove gli occidentali hanno invaso l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, attaccato la Libia di Gheddafi nel 2011 e fatto di tutto pur di sbalzare dal potere il siriano Assad. Ogni occasione è buona per eliminare qualche potenza mediorientale e fare di Israele l’unico guardiano (e potenza atomica) della regione. Con l’Iran la via diplomatica è stata abbandonata presto: nel 2015 Obama firmò l’accordo sul nucleare con Teheran – al quale per altro non si diede quasi seguito – mentre Trump ebbe gioco facile a uscire dall’intesa nel 2018 e a riconoscere Gerusalemme occupata capitale dello Stato ebraico contro tutte le risoluzioni Onu.
Indovinate un po’ chi è il candidato preferito da Netanyahu alla presidenza Usa? La verità è che qui ci facciamo beffe del diritto internazionale e Trump può essere l’uomo giusto per il premier ebraico. Il tycoon è disponibile ad arrivare a un accordo con Putin, che ha invaso un altro Paese, riconoscendone la sfera di influenza, ma non con l’Iran degli ayatollah e vuole mettere sotto il tappeto con il Patto di Abramo la questione di uno Stato palestinese, cosa che per altro ha fatto anche Biden. Ecco perché Netanyahu tiene la pistola puntata anche contro l’attuale presidente Usa e allo stesso tempo si prepara a fare pressioni sul Congresso Usa per ottenere oltre 17 miliardi di dollari di aiuti militari. Forse solo questo potrebbe trattenerlo da uno “strike” contro Teheran, che per altro troverebbe il modo di giustificare in qualche maniera. Il ricatto alla Casa Bianca è evidente.
La realtà è che quando ci si mette nelle mani di un governo estremista d’estrema destra come quello attuale di Israele può accadere qualunque cosa. Ma soprattutto possono verificarsi gli eventi più prevedibili. In primo luogo non finiranno i raid israeliani in Siria dove si è combattuto un conflitto con l’Iran definito in questi anni la guerra “invisibile”: ora può diventare un conflitto sempre più aperto in un territorio dove Israele occupa dal 1967 il Golan e dove di trovano le basi russe, quelle americane, della Turchia, oltre alle milizie di pasdaran, Hezbollah e alle formazioni jihadiste, Isis compreso. Una polveriera. Ma soprattutto gli israeliani vogliono punire il Libano degli Hezbollah, alleato cardine di Teheran. Qui il casus belli, come avvenne già nel 2006, non serve neppure crearlo, c’è già.
E cosa faranno gli iraniani? Il lancio di centinaia di droni e missili – colpiti dai sistemi di difesa anti-missilistica – era diretto al “pubblico” vero degli ayatollah, non tanto l’opinione interna, ignorata o manovrata dalla propaganda, quanto agli alleati di Teheran nella regione (Hezbollah, Houthi yemeniti, milizie sciite irachene) e agli avversari arabi dell’Iran nella regione, soprattutto verso quel Golfo che Teheran vuole assolutamente “Persico” dove è di stanza la sesta flotta Usa. Ma gli iraniani, al contrario dell’iracheno Saddam, non hanno nessuna intenzione di combattere contro Israele e i suoi alleati la “madre di tutte le battaglie”. Il loro obiettivo è la sopravvivenza al potere, come del resto Netanyahu, che non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal grilletto. Con lui lo scontro finale continuerà ad aleggiare come un incubo sul Medio Oriente. L’unica alternativa sarebbe la diplomazia ma passa inevitabilmente da una soluzione al dramma palestinese e alla guerra in corso a Gaza. Netanyahu non la vuole e noi siamo sicuri di volerlo?