Gaza non conta Il primo gennaio il Palestinian Central Bureau of Statistics ha pubblicato un rapporto secondo cui la popolazione di Gaza si è ridotta del 6%. Mancano all’appello (ufficiale) 160mila persone. Oltre […]
Corpi dei palestinesi uccisi a Deir al Balah – Zuma Press/Omar Ashtawy
Il primo gennaio il Palestinian Central Bureau of Statistics ha pubblicato un rapporto secondo cui la popolazione di Gaza si è ridotta del 6%. Mancano all’appello (ufficiale) 160mila persone. Oltre 100mila sono fuggite in Egitto, e sono i «fortunati»: possedevano abbastanza per pagare i trafficanti dell’agenzia Hala, 5mila dollari a testa, o erano messi così male da ottenere il via libera alle cure all’estero.
ALTRI 45MILA sono stati uccisi. Un numero non meglio definito è sparito sotto le macerie: da mesi ormai si resta su una quota fissa, 10mila, il lavoro di ricerca e identificazione è reso quasi impossibile dal collasso della protezione civile. Restano fuori dal conteggio i morti per mancate cure, fame o ipotermia. La rivista scientifica Lancet ieri ha rivisto il bilancio: le morti dirette per i raid israeliani sarebbero 70mila. Un bilancio che viene rivisto e discusso a suon di 10mila, 20mila, 30mila morti ammazzati.
La redazione consiglia:
Lancet: 70mila, le vittime a Gaza sono il 40% in piùNon si dibatte sulle decine o le centinaia. La folle unità di misura va di migliaia in migliaia, tanto da perdere quasi senso. E (assurdamente) visibilità.
Poi ci sono i feriti, 110mila. Il 25% ha riportato danni permanenti, amputazioni, disabilità È l’ipoteca sul futuro di Gaza, una società che non sa più come immaginarsi il futuro, figurarsi il presente, con una terra che si restringe, devastata e inquinata, infrastrutture inesistenti, settori civili basilari – sanità, educazione – sradicati. Quando si parla di genocidio, si parla di questo, di un’azione calcolata di privazione del presente e del futuro, dell’invivibilità dello spazio e del tempo di oggi e di domani.
Per punire e soprattutto per porre fine a tali azioni, volontarie, la Corte penale internazionale a metà novembre ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro alla difesa Yoav Gallant. Sono trascorsi due mesi e l’impunità – che pareva essersi sgretolata all’Aja – viene risollevata, come un muro, nel luogo dove è nato il diritto internazionale contemporaneo.
La redazione consiglia:
«Ora Netanyahu è ufficialmente un ricercato»La Polonia, in aperta violazione dello Statuto di Roma (di cui è parte), giustificandosi con un intervento di natura politica privo di qualsiasi legittimità, annuncia una protezione speciale per il ricercato Netanyahu se decidesse di partecipare all’80esimo anniversario dalla liberazione di Auschwitz.
IL LUOGO che più di ogni altro simboleggia l’abisso in cui l’umanità è stata in grado di sprofondare e da cui la stessa umanità è riemersa, costruendo sulla disumanizzazione assoluta dell’essere umano un sistema di valori condiviso e una memoria collettiva, è lo stesso luogo in cui – scriveva mercoledì su queste pagine uno dei più noti studiosi dell’Olocausto, Moshe Zuckermann – si consuma «l’orrendo tradimento». Un tradimento perpetrato, scrive Zuckermann, non solo dal primo ministro Netanyahu ma dalla simbiosi tra la barbarie dei suoi sottoposti (i soldati) e la gelida indifferenza della società israeliana.
Non sono soli: il tradimento pesa sulle sedicenti democrazie liberali a cui sono bastati appena 80 anni per violare un processo di rinascita condiviso e il riconoscimento della pari dignità di ogni essere umano.
Se quella dignità pari non lo è mai stata e radicate sono le diseguaglianze che erigono barriere tra le persone in ogni paese del mondo, lo scudo penale per Netanyahu è un simbolo potente: legittima la supremazia di alcuni paesi (titolari del privilegio a usare la violenza contro chi è considerato subalterno) e la legge del più forte come punto cardinale dei rapporti internazionali.