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USA-ISRAELE. Quando dice a Netanyahu che lo Stato ebraico è impopolare in realtà dovrebbe allargare il tiro. È la politica americana nella regione che è impopolare

Il finto “strappo” di Joe Biden Joe Biden e Benjamin Netanyahu - Ap

Ogni volta i leader occidentali ci cascano o, da ipocriti, fanno finta di credere alla buonafede degli Stati Uniti in Medio Oriente. Biden, che si presenta apertamente come amico e protettore di Israele, ha dichiarato che lo Stato ebraico rischia di perdere il sostegno internazionale a causa di quelli che ha definito «bombardamenti indiscriminati» a Gaza.

Questo accadeva nella stessa giornata in cui l’Assemblea generale Onu votava a larghissima maggioranza una risoluzione per un cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza. L’Italia, con altri Paesi europei, si è astenuta certificando ormai che sulle questioni decisive siamo come Nanni Moretti in “Ecce Bombo”: mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? La risoluzione non avrà alcun effetto, non ha carattere vincolante.

In questi casi è il Consiglio di sicurezza a decidere e Washington ha già posto il veto su una risoluzione simile l’8 dicembre. E lo farà ancora, è una certezza, tanto è vero che il rappresentante israeliano all’Onu ha denunciato l’ipocrisia della votazione, definendo «inutile» il testo.

Gli Usa non hanno mai votato una condanna di Israele, non hanno mai messo un sanzione allo Stato ebraico e quanto agli insediamenti illegali dei coloni Washington si limita sempre ad ammonizioni verbali che cadono nel vuoto, senza conseguenze. I governi israeliani lo sanno perfettamente. È una commedia diplomatica che si replica da decenni e maschera una tragedia. Con un risultato evidente: dagli accordi Oslo del 1993 a oggi Israele ha portato i coloni in Cisgiordania da 100mila a 800mila e se si dovesse proclamare uno stato palestinese sarebbe ridotto al 22% di quello previsto dal piano di partizione dell’Onu del 1947.

L’atteggiamento americano è una presa in giro totale che si chiama doppio standard. Nel 1990 gli Stati uniti fecero votare al Consiglio di sicurezza sanzioni immediate per l’occupazione irachena del Kuwait. L’occupazione israeliana della Cisgiordania dura da mezzo secolo senza che nessuno abbia mai alzato un dito. Se questo lo chiamiamo diritto internazionale lo è sicuramente per gli Usa e l’Occidente ma non per il resto del mondo. In realtà esiste un legge per i ricchi e una per i poveri. Il premier Netanyahu lo sa benissimo, infatti ha subito replicato che per lui gli accordi di Oslo – da cui nacque un primo embrione di autogoverno palestinese – non esistono. Biden ci ha poi informati che Netanyahu non vuole una soluzione «due popoli, due stati».

Che strano, non ce ne eravamo accorti. E per difendere quello che dice, senza troppa convinzione, aggiunge che «Netanyahu deve cambiare il suo governo, il più conservatore nella storia di Israele». Ma questo avverrà soltanto quando Gaza sarà rasa al suolo da un pezzo e attuata la pulizia etnica. Il presidente non si è accontentato di criticare i bombardamenti ma ha anche manifestato pubblicamente le sue divergenze con i leader israeliani. Biden ha scelto di fare una specie di “strappo”.

Pur sostenendo la guerra contro Hamas, infatti, ha espresso il suo totale disaccordo con Netanyahu su ciò che sarà necessario dopo la guerra, visto che il premier rifiuta la soluzione Usa e occidentale di affidare Gaza all’amministrazione dell’Anp di Abu Mazen (per altro come se fosse una soluzione facile e praticabile). In realtà quello di Biden non è un vero e proprio “strappo” verso Israele. Quando dice a Netanyahu che lo Stato ebraico è impopolare in realtà dovrebbe allargare il tiro. È la politica americana nella regione che è impopolare: l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, il Kurdistan, sono la dimostrazione agli occhi dei popoli mediorientali di quali disastri abbia provocato Washington in questi decenni.

In più, almeno finora, non c’è stata mai stata la volontà pratica di cambiare le cose ma di perpetuare il doppio standard. Come scriveva ieri Michele Giorgio sul manifesto, gli Usa continuano fornire a Israele i cannoni per far fuori i palestinesi. Israele riceve ogni anno circa 4 miliardi di dollari in aiuti militari: dalla fondazione dello Stato ebraico sono affluiti da Washington 130 miliardi di dollari di armi. Il bilancio delle forze armate israeliane supera quello di Egitto, Giordania, Libano e Iran messi insieme. Senza contare che Israele con dozzine di testate nucleari è l’unico Paese della regione con un enorme potenziale atomico. La Casa Bianca ha delineato un pacchetto sicurezza dopo il 7 ottobre per altri 14 miliardi di dollari, condiviso – diversamente da quello per l’Ucraina – anche dai repubblicani ma contestato da Bernie Sanders per l’assenza di condizioni a Israele.

Biden con le sue dichiarazioni si comporta come se Netanyahu non fosse quel che è: una creatura della politica estera americana. Che poi adesso gli Usa se ne vogliano sbarazzare è un altro conto. Il presidente Usa forse preferirebbe trattare con un uomo di centro come Benny Gantz, avversario di Netanyahu e attuale componente del gabinetto di guerra e in attesa del suo momento.

Ma intanto nel sostegno americano a Israele non cambia nulla. E oggi arriva a Tel Aviv il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, che alla vigilia del 7 ottobre aveva dichiarato che «negli ultimi vent’anni il Medio Oriente non era mai stato così tranquillo come oggi». Andiamo bene…

SINISTRA. Al congresso di Si i leader discutono la proposta di mobilitarsi insieme. Applausi a Bombardieri e Landini. Delegati solidali con la lotta delle donne

Fratoianni e Conte al Terzo Congresso Nazionale Sinistra Italiana, foto Mauro Scrobogna /LaPresse Fratoianni e Conte al Terzo Congresso Nazionale Sinistra Italiana - Mauro Scrobogna /LaPresse

Il secondo giorno del congresso di Sinistra italiana è quello del dibattito con i leader dell’opposizione e del sindacato. Tutti portano il fiocco viola della giornata contro la violenza sulle donne, che qui viene inserita dentro la battaglia politica a tutto tondo, a testimonianza di un pezzo di sinistra che ormai dà per consolidata l’intersezione tra le lotte e la commistione tra diritti sociali e civili. «I femminicidi non sono fatti isolati ma fenomeno sistemico. Le maree transfemministe che in queste ore attraversano le nostre città ci dicono che combattere è possibile». dice la responsabile diritti del partito Marilena Grassadonia.

Da qui si riparte per immaginare una nuova forma dell’opposizione. Tra gli ospiti, apre le danze Riccardo Magi che annuncia la sua «disponibilità a sedersi e lavorare sull’alternativa a questa destra. Nei fatti avviene già nella quotidianità parlamentare su molte questioni, ora serve che facciamo tutti un salto di qualità». Per il segretario di +Europa, «la vittoria delle destre peggiori in Italia, in Europa e nel mondo ci impone alcune riflessioni. Milioni di persone si sentono rappresentate dall’uomo solo al comando e da reazionari invece che da progressisti. Dobbiamo evidenziare ad esempio che il premierato non ha nulla a che vedere con la stabilità, vuole solo accentramento del potere. E in Europa siamo di fronte a un bivio della storia».

Anche Schlein ci sta: «Siamo disponibili a fare iniziative, campagne e mobilitazioni comuni e unitarie» contro una «destra feroce» che pensa che «la povertà sia una una colpa individuale». La segretaria dem strappa applausi quando dichiara un’affinità ulteriore: rivendica una radice comune e dice a Fratoianni: «Ci siamo formati insieme sulla consapevolezza che giustizia sociale e ambientale siano inscindibili». Poi riprende la proposta di Bombardieri sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. «Nel paese e in parlamento dobbiamo unire le nostre lotte e i nostri sforzi: è tempo di parlare di redistribuzione delle ricchezze, del tempo, del potere».

 L’abbraccio tra Fratoianni e Schlein al Congresso di Si foto Astolfo Lupia 

Prima di lei, il segretario generale Uil, tra gli applausi, aveva garantito: «Abbiamo tanta strada da fare insieme». Maurizio Landini, invece, costruisce una relazione tra violenza sulle donne e precariato: il link sta nella pretesa di possedere la vita e il lavoro delle persone.

Elly Schlein

Non abbiamo nessuna presunzione di autosufficienza, siamo qui per costruire un rapporto paritario e percorsi di ascolto sul territorio

E Giuseppe Conte? Anche il leader 5 Stelle apre al dialogo ma ci tiene a rivendicare «l’autonomia» del suo M5S. Forse è eccessivo parlare di «freddezza» da parte dell’ex presidente del consiglio, come fanno alcuni delegati mettendosi in fila verso il buffet del pranzo.

Però è vero che Conte, l’unico che si rivolge alla platea dei delegati non usando l’appellativo «compagne e compagni» (lo aveva adoperato anche Magi, riallacciandosi alla consuetudine pannelliana), infila alcuni distinguo. Dice che il governo è portatore di una «sub-cultura tossica» che «punta a dividere interloquendo con sotto-blocchi sociali con i quali ha fatto accordi di potere». Poi apre. Ma, appunto, con prudenza: «L’unità è un obiettivo, il metro per arrivarci è un confronto serio sui progetti». E lancia un messaggio a un uditorio aperto ai diritti quando afferma che «non bisogna lasciare la sicurezza alla destra, va bene partire dalla tutela delle persone che emigrano ma ponendosi il problema di chi in periferia vive difficoltà reali»

Come reagisce questa gente a questa apertura? Per Giovanni Paglia, responsabile economia di Si, «abbiamo sempre vissuto l’unità delle opposizioni come costrizione, questa volta, contro questa destra, dobbiamo viverla da protagonisti».

Il deputato torinese Marco Grimaldi, figura molto ascoltata, esorta a fare un passaggio di scala: «Immaginate che questo sia ultimo congresso in cui ci sentiamo minoranza politica e culturale in questo paese».

Vincenzo Vita per l’Associazione rinnovamento della sinistra considera «apprezzabile il felice clima di dialogo tra le varie forze dell’universo progressista. Ci domandiamo se sia preclusa la strada di un’unica lista a sinistra del Pd per le prossime elezioni europee».

Stefano Ciccone, primo firmatario del documento di minoranza, accampa prudenti dubbi: «Siamo tutti d’accordo con la critica al capitalismo e la denuncia della crisi ambientale, il punto è come decliniamo tutto ciò».

«Abbiamo attraversato il deserto, adesso dobbiamo fare di più» sintetizza Jacopo Rosatelli, assessore a Torino, per indicare la fase che si apre.

Anche alla lista per la pace che vorrebbero fare Michele Santoro e Raniero La Valle? Da queste parti il senso comune diffuso è: «Abbiamo già dato». Che significa che dopo la fase della resistenza si vuole rilanciare «senza cambiare simbolo e nome», per dirla con le parole di Fratoianni. E non giova il fatto che qui si rimproveri al giornalista e frontman di non aver mai riconosciuto ad Alleanza Verdi Sinistra il merito di aver sempre votato contro l’invio di armi sul fronte ucraino.

 

Una lavoratrice di 26 anni è deceduta oggi in un incidente sul lavoro nella ditta di surgelati Bocon a Pieve di Soglio, in provincia di Treviso. Lo riferiscono le agenzie di stampa. Stando alle prime indagini dei carabinieri, la donna, di nazionalità albanese, per cause in corso di accertamento è rimasta incastrata, all'altezza del capo in un macchinario della ditta.

Un’altra tragedia si è verificata al polo chimico di Ravenna. Qui nel pomeriggio ha perso la vita un operaio di una ditta in appalto. Sempre secondo le agenzie, il 59enne è stato colpito da un escavatore, per cause ancora al vaglio, mentre lavorava all’interno di un cantiere. Sul posto il personale del 118.

L'ALTRA SPONDA. Prevista la costruzione di due Cpr per gestire tra 36 e 39 mila persone l’anno. L’Ue: «L’Italia rispetti il diritto internazionale»

Accordo con Edi Rama, l’Italia manderà i migranti in Albania 

L’Italia si prepara a costruire la sua Ellis Island, un posto dove rinchiudere i migranti, raccogliere ed esaminare le domande di asilo e organizzare gli eventuali rimpatri. Solo che al contrario dell’isola al largo di New York, dove fino alla metà dello scorso secolo veniva radunato chi cercava un futuro in America, questa troverà posto lungo la rotta balcanica, in Albania, lontano dai confini (e probabilmente dai controlli) nazionali.

E’ quanto stabilisce un accordo siglato dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni con il premier albanese Edi Rama e che una volta a regime prevede il trasferimento in due Cpr costruiti in Albania di tremila migranti al mese per un costo approssimativo di 36 milioni l’anno. «E’ un accordo di respiro europeo» ha spiegato Meloni al termine dell’incontro di ieri a palazzo Chigi con Rama. «Dimostra che si può collaborare sul fronte della gestione dei flussi. L’Albania darà la possibilità di utilizzare alcune aree del suo territorio all’Italia che potrà allestire i centri». Per il premier albanese l’intesa rappresenta soprattutto un investimento sulla possibilità di accelerare l’ingresso nell’Unione europea. «L’Albania non è uno stato Ue ma è in Europa – ha detto a sua volta Rama – E’ uno Stato europeo e questo non ci impedisce di vedere il mondo come europei». Proprio da Bruxelles arriva però la richiesta a Roma di agire rispettando i diritto comunitari e internazionale: «Siamo a conoscenza dell’accordo operativo tra le autorità italiane e albanesi», ha spiegato un portavoce dell’Ue. «Siamo stati informati di questo accordo ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate. Comprendiamo che questo accordo operativo dovrà ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato».

L’intesa sui migranti è nata la scorsa estate, durante la visita di due giorni fatta ad agosto dalla premier in Albania, ma stata resa nota solo una volta messi a punto tutti gli aspetti tecnici. Per Meloni si tratta di un altro tentativo nella sua strategia di raggiungere accordi con paesi terzi nella speranza di mettere un argine agli sbarchi (145.314 fino a ieri), specie dopo gli scarsi risultati ottenuti con il Memorandum siglato con la Tunisia e lo stallo in cui rischia di finire a Bruxelles il patto su immigrazione e asilo. Da questo punto di vista l’Albania, che per di più ha un forte scambio commerciale con l’Italia, offre a palazzo Chigi maggiori garanzie.

Stando a quanto previsto i migranti salvati in mare dalle navi di Guardia di finanza, Guardia costiera e Marina militare (ma non dalle navi delle ong) potranno essere trasportati direttamente in Albania a eccezione di minori, donne incinte e vulnerabili. Due centri verranno costruiti, «entro la primavera del 2024», uno nel porto di Shengjin e l’altro a Gjader, nell’entroterra, in grado di accogliere complessivamente tremila persone al mese. Nel primo si procederà allo sbarco e all’identificazione dei migranti, mentre nel secondo funzionerà come un Cpr. «La giurisdizione all’interno di questi centri sarà italiana», particolarità che, oltre a far valere le leggi italiane, dovrebbe consentire di raccogliere ed esaminare eventuali richieste di asilo. Italiano sarà anche il personale che opererà nelle strutture, mentre alle autorità albanesi spetterà la sorveglianza esterna.

Nei programmi del governo c’è l’intenzione di definire le varie posizioni – asilo o rimpatrio – entro il primo mese dallo sbarco, ma si tratta di un obbiettivo a dir poco ambizioso viste le difficoltà incontrate anche in Italia nell’organizzare i rimpatri. Senza contare che nonostante i tempi di detenzione nei Cpr siano stati allungati dal governo Meloni fino agli attuali 18 mesi, una volta superato questo limite i migranti dovranno essere rilasciati, e di certo non in Albania. Di conseguenza verranno portati in Italia.

L’accordo Italia-Albania viene definito dal Pd un «pericoloso pasticcio»: «Se si è di fronte a richiedenti asilo, appare inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse le procedure di verifica delle domande di asilo», commenta Pierfrancesco Majorino. «Non si comprende poi come possano essere gestiti gli eventuali ricorsi». Per il deputato di +Europa Riccardo Magi, invece, il governo starebbe preparando una «Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori della Ue senza che possa esserci la possibilità d controllare lo stato di detenzione delle persone richiuse in questi centri»

Dopo tante bugie ora è tutto chiaro: il governo fa peggio della legge Fornero. La mobilitazione continua con lo sciopero

 

Come assestare il colpo di grazia alle speranze pensionistiche di tante persone. Fatto! Bastano poche mosse in legge di bilancio. E non importa se è il contrario di quanto promesso in campagna elettorale da Salvini al grido di: “Quota 41”. Il risultato è sotto agli occhi di tutti: mesi di tavoli inutili, con una pletora di interlocutori, per fare peggio dei governi precedenti e addirittura della madre di tutti i guai di oggi: la legge Monti-Fornero che ormai appare persino lecito ribattezzare legge “Salvini-Meloni”. Insomma: dopo tante bugie la verità è chiara: motivo in più per proseguire la mobilitazione con lo sciopero

Duro il commenta della Cgil. “Sul disastro previdenza e sulla necessità di promuovere correttivi di emergenza alla legge di bilancio, leggiamo dichiarazioni che ci preoccupano – osserva la segretaria confederale Lara Ghiglione –. La modifica delle aliquote di rendimento per i pubblici è assolutamente sbagliata e per questa ragione l’esecutivo deve fare una retromarcia totale, e non parziale su questo provvedimento che ha dei profili di incostituzionalità”. 

 

“La norma - aggiunge la dirigente sindacale - deve essere cambiata per tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori pubblici che il Governo pensa di penalizzare retroattivamente. L'idea di fare cassa con le pensioni è un errore rispetto al quale sciopereremo nelle prossime settimane, insieme alla Uil". Ma vediamo in sintesi come cambierebbe, in peggio, la previdenza italiana.

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Il promesso superamento della Fornero si traduce in un ulteriore arretramento. Tagli per tutti e nessuna risposta per giovani e donne. Ghiglione, Cgil: la nostra mobilitazione prosegue

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FUORI QUOTA

Con le nuove norme non si dà alcuna risposta a giovani, donne e pensionati. Cominciamo dalle quote. “Quota 103”, cioè la pensione con 62 anni di età e 41 di contributi, subisce un ricalcolo col sistema contributivo che può portare a un taglio dell’assegno del 20%. Non solo: le finestre di uscita aumentano di altri 4 mesi per i privati e 3 mesi per i pubblici, mentre viene anche previsto un tetto massimo.

APE SOCIALE PIÙ DIFFICILE

Viene innalzato il requisito di età che passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi. Vengono esclusi tutti quelli nati dopo il 1° agosto 1961.

OPZIONE DONNA NON C’È PIÙ

È una delle novità più difficilmente digeribili, con l’innalzamento dei requisiti (35 anni di contributi e 6i anni di età al 31 dicembre 2023) e solo per caregiver, invalide dal 74%, licenziate o dipendenti da aziende con un tavolo di crisi aperto. La misura viene di fatto azzerata.

GIOVANI: SEMPRE PIÙ TARDI

Innalzato l’importo soglia da raggiungere per accedere alla pensione anticipata nel sistema contributivo (a 64 anni con almeno 20 anni di contributi), da 2,8 a 3 volte il minimo (1.596 euro circa)

QUALE ANTICIPO

Il traguardo agognato della pensione viene spostato ancora più avanti. Dal 1° gennaio del 2025, se crescerà l’attesa di vita, potrà non bastare più avere 42 anni e 10 mesi di contributi, uno in meno per le donne.

INDICIZZAZIONE, TAGLIO CONFERMATO

Nessun intervento per la piena indicizzazione delle pensioni. Viene infatti confermato il taglio previsto lo scorso anno oltre 4 volte il trattamento minimo. Si punta poi a costituire una commissione che possa rivedere l’inflazione attraverso l’utilizzo del deflattore del Pil, sentito il Cnel.

SCURE SULLE PENSIONI PUBBLICHE

Infine, la ciliegina sulla torta. Dal 1° gennaio 2024 vengono riviste le aliquote di rendimento per la quota pensione retributiva per chi lavora negli enti locali, per chi è iscritto nella cassa sanitari, alla cassa degli ufficiali giudiziari e insegnanti delle scuole dell’infanzia o parificate.

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