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Regionali De Pascale contro Ugolini, l’unica incognita é l’astensione. Lui pragmatico, punta a una riforma della sanità: «Non ci accontentiamo». Lei ambigua su aborto e fine vita. Scintille sul post alluvione

Elena Ugolini Michele de Pascale candidati alla presidenza dell' Emilia Romagna foto Cecilia Fabiano/LaPresse I due candidati alle regionali in Emilia Romagna – Cecilia Fabiano /LaPresse

Tra «Michele» e «Elena», i due candidati si chiamano rispettivamente per nome, non scorre neppure una goccia di sangue (politico). Mentre il mondo là fuori è in guerra, e a Roma Schlein e Meloni se le danno di santa ragione, questa campagna per le regionali in Emilia Romagna ha visto il fair play come protagonista assoluto.

Lui, De Pascale, 39 anni, è uno dei figli migliori della dinastia ex Pci che da Bersani (e ancor prima) è arrivata a lui passando per Laforgia, Errani e Bonaccini: padre bancario, scomparso quando lui aveva 20 anni, la mamma gestiva uno stabilimento balneare, sindaco per 8 anni a Ravenna, pronto a discutere con tutti, orgoglioso del modello emiliano ma anche disponibile alle correzioni che il tempo richiede.

Lei, Ugolini, preside ciellina dell’istituto Malpighi, nasconde bene gli artigli, che potrebbero graffiare norme regionali come quelle sul fine vita e l’aborto farmacologico a domicilio, uno degli ultimi atti della giunta uscente. Il 2020 sembra un secolo fa, quando Salvini gonfio del 34% alle europee incombeva sull’Emilia con la sua candidata Lucia Borgonzoni, le sardine riempivano le piazze e l’atmosfera era frizzante.

Stavolta il rischio è quello dell’effetto camomilla, di una campagna così sonnacchiosa che in tanti (lo dicono i candidati) non sanno neppure che domenica e lunedì si vota. De Pascale se ne fa un cruccio, non vuole vincere con un’astensione sopra il 50% come in Liguria e Lombardia, ha girato la regione in ogni angolo proprio per dare la sveglia agli elettori.

A suo svantaggio gioca il fatto che la preside ciellina (ma è un grave errore di percezione) non fa paura: ecumenica, quasi parrocchiale, fa leva sulla «voglia di cambiare» che alberga in tutti i sistemi di governo che durano da 50 anni. E soprattutto sulla delusione e la rabbia create dalle ripetute alluvioni, due in questo autunno tra la Romagna e Bologna.

Lui ha già fatto un mezzo miracolo, allargando la coalizione anche al M5S che qui è sempre stato all’opposizione, e tenendosi i renziani nella sua lista civica, nonostante gli strali di Conte. Un campo larghissimo, che non ha litigato neppure un minuto sul candidato che a Ravenna già aveva una coalizione formato gigante- Il leader M5S ieri era a Bologna per un tour in solitaria (nessun appuntamento con gli altri big del centrosinistra) e ai suoi ha detto: «Michele ha un approccio trasparente al governo, sa condividere. Capisco che qualcuno avesse dei dubbi, ma questa occasione non potevamo perderla».

Difficile che, dopo il voto, qualcuno dei suoi possa alzarsi e dire che era un candidato sbagliato. Semmai il problema per i 5S è sedersi a un tavolo dove il Pd domina da decenni. Per questo «ci serve un risultato corposo», sprona Conte, «i voti non piovono dal cielo».

Lo sa anche De Pascale, che ha messo al primo punto del suo programma la riforma del sistema sanitario, cosa che può apparire curiosa visto che l’Emilia-Romagna è al top in Italia. Lui vuole dare battaglia contro il governo per avere più fondi, riorganizzare, assumere infermieri, «non ci rassegniamo a diventare il meno peggio, l’eccellenza deve diventare la normalità», vuole realizzare case della salute efficienti in tutta la regione, alleggerire i pronto soccorso.

In questa campagna ha già incontrato oltre 3000 persone per scrivere il programma sulla sanità, se vince da martedì inizierà «un corpo a corpo con tutto il mondo sanitario, una fase di ascolto». «So che è una sfida difficile, mi sento come uno studente di medicina davanti alla prima operazione, ma mi sento pronto», ha detto ieri allo storico circolo Arci Benassi di Bologna, davanti a una platea selezionata di medici e infermieri.

De Pascale non nasconde un certo tratto bipartisan, «da sindaco sono più fedele alla fascia tricolore che al mio partito, nessun ministro della destra può dire che non so dialogare». «Basta fare un giro a Ravenna per capire che sono una persona libera che discute con tutti». Anche con Ugolini, naturalmente. Pure se le idee sono diverse: lui vorrebbe diventare commissario per l’alluvione, critica le scelte del generale Figliuolo, «finora ci sono stai indennizzi solo al 2% , è inaccettabile», lei vorrebbe affidarsi ancora al generale, «servono persone competenti».

Al duello organizzato dal Carlino, ieri sera al teatro Duse, lui ha difeso le attuali addizionali regionali all’Irpef, «servono per il fondo per la non autosufficienza, delle fragilità si deve occupare la comunità. Ugolini è rimasta vaga sull’aborto farmacologico a domicilio: «La 194 va difesa in tute le sue parti, mi stupisce che sia stata presa questa decisione due settimane prima del voto».

Due ore di confronto, in cui Ugolini ha descritto l’Emilia Romagna come una regione in crisi: «Non sappiamo attrarre investimenti, le infrastrutture sono bloccate». De Pascale l’ha stoppata: «Non accetto una narrazione demolitoria su questa regione». Poi è corso a Modena per la chiusura con Bonaccini, assai più polemico contro la candidata delle destre.

Nessuno crede in un ribaltone, il Guazzaloca del 1999 è un ricordo lontano. Stasera lui chiude in piazza Santo Stefano, sotto casa di Prodi, che dovrebbe passare per un saluto e non nasconde il suo apprezzamento per il «ragazzo». Ugolini va a Ferrara, unica roccaforte leghista della regione che 5 anni sembrava contendibile

 

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La Corte costituzionale smonta la legge sull’autonomia differenziata firmata dal ministro della Lega. È illegittima nei suoi punti essenziali: non c’è un diritto delle regioni alla secessione e il parlamento non va tagliato fuori. Referendum in forse, ma governo già sconfitto

La decisione Censurati i due pilastri della legge: la cessione alle regioni di tutte le materie previste nel Titolo V, l’esclusione del Parlamento sui Lep. La devoluzione, in particolare, deve riguardare «specifiche funzioni» e deve anche essere giustificata. La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso da altre regioni

Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale foto Mauro Scrobogna/LaPresse Roma, la sede della Corte Costituzionale – Mauro Scrobogna/LaPresse

La legge Calderoli sull’autonomia differenziata è incostituzionale nei suoi due cardini: la devolvibilità alle regioni di tutte le materie previste dal Titolo V della Carta, nonché le modalità di determinazione dei Lep che escludono il Parlamento dalle decisioni in materia. In più altre norme vanno «interpretate» e attuate in una direzione diversa da quella su cui si stava muovendo il governo. Lo ha detto la Corte costituzionale in un lungo e articolato comunicato in cui ha annunciato le proprie decisioni, che saranno motivate sul piano giuridico nella sentenza che verrà pubblicata ai primi di dicembre.

Una sentenza che «smonta» la contestata legge targata Lega e apre scenari politici ancora da decriptare. Questioni inedite si aprono anche per la Cassazione, chiamata a decidere se vi siano ancora gli estremi per celebrare il referendum abrogativo della legge e, se sì, come riformulare il quesito.

IL COMUNICATO, diffuso ieri nel tardo pomeriggio, spiega che la Consulta «ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata», cosa che permette al governo di salvare la faccia. Tuttavia la Corte, dopo un preambolo sui principi solidaristici e unitari della Costituzione repubblicana, spiega che «ha ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge», con un elenco impietoso, visto che riguarda i cardini del provvedimento.

In primis il fatto che possano essere devolute intere materie o anche tutte e 23 le materie previste dall’articolo 117 della Carta, «laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata». In effetti l’articolo 116 comma 3 parla di «forme e condizioni particolari» di autonomia di competenze.

IN SECONDO LUOGO il fatto che in tutti i suoi passaggi la legge Calderoli abbia messo nelle mani del solo governo la determinazione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che, insiste il comunicato, «concernono i diritti civili e sociali». In particolare la legge Calderoli affida a uno o più decreti legislativi la determinazione dei Lep, sui quali il Parlamento può solo esprimere un parere; a ciò si aggiunge che la legge delega sia «priva di idonei criteri direttivi». In più, le successive modifiche ai Lep sono affidate a dei semplici dpcm, decreti della presidenza del Consiglio – di pandemica memoria – su cui le Camere non possono nemmeno dare un parere.

GIÀ L’ABBATTIMENTO dei due pilastri della legge Calderoli è una Caporetto per il governo Meloni; come se non bastasse i giudici hanno indicato che

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Milano Cemento, speculazione e ingiustizia sociale sono i grandi rimossi di questi quindici lunghi anni di centrosinistra milanese

Cantieri a Milano Cantieri a Milano – Ansa

Si scrive Salva Milano, si legge grattacielo facile. Il parlamento si appresta a votare il disegno di legge sulla rigenerazione urbana che contiene anche l’emendamento che potrebbe sottrarre ai magistrati l’edilizia milanese finita sotto inchiesta.

LO SCONTRO VA AVANTI DA MESI: secondo la Procura a Milano ci sono decine di palazzi costruiti abusivamente, senza rispettare le norme nazionali e fatti costruire con maxi sconti a favore dei costruttori; secondo la giunta di Beppe Sala, invece, tutto è stato fatto seguendo le norme nazionali e le modifiche apportate nel corso degli anni. In particolare è il decreto Fare del 2013 votato dal governo Letta ad aver aperto la strada ai grattacieli facili milanesi.

ORA L’ACCORDO TRA MAGGIORANZA di destra e Pd prevede il salvataggio dei presunti abusi milanesi tramite lo strumento dell’interpretazione autentica della legge. Il testo al voto del parlamento dice sostanzialmente che è corretto che con una semplice Scia (la segnalazione d’inizio attività) si possano realizzare nuovi edifici oltre i 25 metri d’altezza, anche al posto di edifici bassi. Al comma 3 il testo spiega che «rientrano tra gli interventi di ristrutturazione edilizia gli interventi di totale o parziale demolizione e ricostruzione che portino alla realizzazione, all’interno del medesimo lotto d’intervento, di organismi edilizi che presentino sagoma, sedime, prospetti e caratteristiche planivolumetriche, funzionali e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originari, purché rispettino le procedure e il vincolo volumetrico previsti dalla legislazione regionale o dagli strumenti urbanistici comunali».

TRADOTTO VUOL DIRE CHE E’ STATO corretto il rito dell’urbanistica milanese e che quindi costruire grattacieli lì dove prima c’era un edificio di uno o due piani è lecito anche senza approvare un piano attuativo, cioè quello strumento urbanistico che prevede procedure e valutazioni più complesse e costi per i costruttori più alti.

L’EDILIZIA CHE SFIGURA LA CITTA’ non è reato e le inchieste della magistratura milanese potrebbero finire lungo il binario delle archiviazioni. Un intervento a indagini in corso che aveva già sollevato le perplessità dei tecnici del Quirinale e che secondo diversi costituzionalisti sarebbe incostituzionale. Reato o non reato, ai cittadini resta sul groppone una città dove i grattacieli sono spuntati come funghi, dove il cemento verticale ha modificato la vista e gli orizzonti e dove la rendita immobiliare si sta mangiando ogni spazio libero.

CEMENTO E INGIUSTIZIA SOCIALE sono i grandi rimossi di questi quindici anni di governo di centrosinistra milanese. Con l’approvazione dell’emendamento Salva Milano il grattacielo facile diventerà però un modello nazionale, prêt-à-porter. I privati, i costruttori, gli sviluppatori, avranno più potere contrattuale nel pretendere dai comuni sconti e agevolazioni: se si può fare a Milano, si può fare anche altrove. Così nelle città scompare la pianificazione urbanistica pubblica a beneficio degli interessi e delle esigenze degli operatori privati.

UNA DEREGULATION CHE HA PORTATO in una città come Milano alla proliferazione di ristoranti e localini uno dietro l’altro, mentre librerie indipendenti e piccoli negozi al dettaglio, magari storici, sono costretti a spostarsi verso la periferia per l’aumento insostenibile degli affitti.

I GRATTACIELI FACILE INNESCANO a catena dinamiche di gentrificazione spinta tipiche delle città, ma che con questa urbanistica da luna park vanno alla velocità della luce. E la città premium che attira sempre più turisti consuma suolo ed espelle i suoi abitanti.

 

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Striscia continua Due camion dell’Onu entrano in una scuola del nord ormai svuotato, l’esercito la attacca. Il quotidiano israeliano: presenza militare di lungo periodo attraverso la distruzione degli edifici e le infrastrutture esistenti e la costruzione di nuove strade e basi militari

Palestinesi ispezionano un cratere dopo i bombardamenti israeliani in un campo che ospita sfollati interni a Khan Younis foto Haitham Imad/Ansa Il cratere provocato ieri da un raid israeliano nella «zona umanitaria» di al-Mawasi, vicino Khan Younis – Epa/Haitham Imad

I camion di aiuti umanitari erano appena arrivati nel cortile della scuola Mahdia al-Shawa di Beit Hanoun, nel nord di Gaza in piena carestia. Poi l’incendio: a denunciare l’attacco perpetrato dall’esercito israeliano sono video sui social che hanno trovato conferma nelle dichiarazioni dell’agenzia Onu per gli affari umanitari, Ocha. I due camion trasportavano razioni di cibo, sacchi di farina e acqua imbottigliata, una missione organizzata dal World Food Programme e autorizzata da Israele l’11 novembre.

A GAZA NORD sono arrivati martedì, nella scuola-rifugio per sfollati tramutata come centro di distribuzione alla popolazione della città sotto assedio. Ma subito dopo l’arrivo, dice Ocha, l’esercito israeliano ha attaccato la scuola costringendo gli sfollati a fuggire. Ha poi appiccato l’incendio che ha definitivamente distrutto l’edificio. Una pratica denunciata da settimane, la distruzione meticolosa di case e rifugi per gli sfollati volta a impedire il ritorno della popolazione cacciata via.

Si somma alle stragi: sarebbero oltre 2mila i palestinesi uccisi nel nord di Gaza dal 6 ottobre scorso. Da parte sua il ministero della difesa israeliano, tramite un suo portavoce, ha detto all’agenzia Middle East Eye che non esiste al momento alcuna politica per l’invio e la distribuzione di aiuti a nord per mancanza di «direttive da parte della leadership politica». Dichiarazioni che smentiscono le già vaghe indicazioni israeliane date al dipartimento di stato Usa, che ha comunque balbettato di apparenti «miglioramenti» della situazione per non interrompere l’invio di armi a Tel Aviv, come minacciato un mese fa.

Otto organizzazioni internazionali tra cui Oxfam e Save the Children hanno risposto in un rapporto di 19 pagine in cui accusano «Israele non solo di aver fallito nel rispettare i criteri posti dagli Usa…ma di portare avanti azioni che hanno drammaticamente peggiorato la situazione». Oltre al fuoco, allo sfollamento e agli assedi, anche il blocco degli aiuti: di 98 missioni umanitarie dell’Onu, scrive Ocha, solo nove sono riuscite ad accedere al nord in sei settimane.

L’ultimo esempio è di ieri: otto uccisi nella «zona umanitaria» di al-Mawasi a sud, un raid ha centrato la casa della famiglia Abu Taha, dove vivevano tante famiglie sfollate. Più tardi altri cinque uccisi nella stessa zona. È in questo contesto di mix di pratiche genocidiarie che ieri Haaretz ha pubblicato un’inchiesta in cui – citando alte fonti dell’establishment militare – scrive che Tel Aviv intende mantenere una presenza a Gaza di lungo periodo.

ALMENO FINO al 2026, scrive il quotidiano israeliano, attraverso «la distruzione degli edifici e le infrastrutture esistenti di modo che nessuna forza possa nascondercisi dentro, ma pure che nessuno possa viverci» e la costruzione di nuove strade e basi militari. L’esercito, aggiunge Haaretz, dice di aver trasformato il nord di Gaza in un’enclave militare, costringendo la popolazione civile a sfollare. Dei 400mila suoi abitanti, ne resteremmo appena 20mila.

Sul fronte libanese, nuovi ordini di evacuazione a Beirut come nel su del paese e nuove stragi: 78 gli uccisi solo nella giornata di martedì. E nuove chiusure al cessate il fuoco: se le autorità libanesi continuano a sperare in una tregua, a spegnere eventuali entusiasmi è stato ieri il neo ministro della difesa israeliano Katz, secondo cui Tel Aviv non intende «concludere nessun cessate il fuoco e non autorizzeremo nessun accordo che non includa il raggiungimento dei nostri obiettivi di guerra». Ovvero il disarmo di Hezbollah, aggiunge Katz, e il suo ritiro oltre il fiume Litani

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Fratello grande Il Capo dello Stato dopo i tweet contro i giudici: «Chi fa parte di governi amici non ci dia prescrizioni». Il miliardario lo sfida: non mi fermo. Il precedente del 2022, quando il Colle frenò le critiche a Meloni della Francia. Nel 2023 il monito del presidente contro gli oligarchi del web che concentrano poteri e «non vogliono regole». L’Anm: perchè il governo non reagisce? Anche questi sono confini da rispettare. Schlein: i sovranisti italiani si fanno dare la linea da un magnate Usa

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella foto Francesco Ammendola Sergio Mattarella – Ansa

«L’Italia sa badare a se stessa nel rispetto della sua Costituzione» e nessuno dall’estero «può impartirle prescrizioni». Sergio Mattarella replica con ferma durezza a Elon Musk, che in due tweet – tra martedì e ieri- aveva scritto «questi giudici devono andarsene», per poi definire i magistrati italiani «un’autocrazia non eletta che prende le decisioni».

Ma il miliardario fresco di nomina nella squadra di Trump, che aveva messo nel mirino i giudici italiani sul caso Albania, sente l’amica Meloni e replica a stretto giro: «Continuerò a esprimere le mie opinioni tutelate dal Primo emendamento e della Costituzione italiana». Tra i due tweet anti-giudici, era riuscito a scriverne un altro per definire la ong Sea-Watch un’«organizzazione criminale».

LA REPLICA DI MATTARELLA, pur senza citare Musk, è molto diretta. E arriva circa due ore dopo il terzo tweet di Musk, quello sull’autocrazia. «Chiunque, particolarmente se, come annunziato, in procinto di assumere un importante ruolo di governo in un Paese amico e alleato, deve rispettarne la sovranità e non può attribuirsi il compito di impartirle prescrizioni».

Nel suo messaggio, il capo dello Stato ricorda che già nell’ottobre 2022, quando Meloni vinse le elezioni, aveva utilizzato le stesse parole per replicare alla ministra francese Laurence Boone, che aveva annunciato una sorta di «vigilanza» sull’operato del governo di destra centro. «L’Italia sa badare a stessa» ripete il Capo dello Stato esattamente due anni dopo rivolgendosi a Musk, appena nominato capo del Dipartimento per l’efficienza del governo americano.

NEPPURE DOPO IL SECONDO tweet del miliardario vicino a Trump, da palazzo Chigi e dintorni nessuno aveva sentito il bisogno di dire qualcosa. Ci ha pensato il Quirinale che, sempre nel rispetto delle sovranità di tutti i paesi, da tempo avverte dei rischi democratici rappresentati da individui e imprese multinazionali che nello scenario globale pesano più dei singoli stati.

Parlando alle alte cariche dello Stato a fine dicembre 2023, Mattarella aveva evocato 1984 di Orwell, ricordando per i giganti del web «l’esigenza di regole per evitare che pochi

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Riforme Da una parte quattro regioni guidate dal centrosinistra contro la legge Calderoli, dall’altra tre del Nord in linea con il governo. Lo scontro sull’Autonomia differenziata è arrivato ieri alla Consulta, […]

Autonomia, la Consulta decide entro dicembre

 

Da una parte quattro regioni guidate dal centrosinistra contro la legge Calderoli, dall’altra tre del Nord in linea con il governo.

Lo scontro sull’Autonomia differenziata è arrivato ieri alla Consulta, chiamata a pronunciarsi su questioni di costituzionalità sollevate dai ricorsi di Puglia, Toscana, Sardegna e Campania che hanno impugnato la legge nella sua totalità e anche con riferimento a specifiche disposizioni.

Una battaglia a suon di ricorsi che ha visto alternarsi ieri in Aula, durante un’udienza fiume, gli interventi degli avvocati delle regioni ricorrenti (Campania, Puglia, Sardegna, Toscana), delle tre del nord (Lombardia, Piemonte e Veneto) che si oppongono a questi ricorsi e dell’Avvocatura dello Stato.

La Corte si riunirà a partire da oggi in camera di consiglio e la decisione è attesa nelle prossime settimane. La sentenza verrà depositata in ogni caso entro metà dicembre, quando la Cassazione deciderà sull’ammissibilità dei referendum abrogativi.

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