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Sono tornate, o meglio non sono mai andate via. Non una di meno riempie Roma (e Palermo). In piazza sono oltre 200mila, una conferma della forza del movimento transfemminista. Protagonista della lotta per la vita e la libertà delle donne, fuori dal potere maschile

Contaci Nella Capitale una marea fucsia contro i femminicidi e il genocidio e per il welfare

Un momento della manifestazione organizzata in occasione della Giornata internazionale contro la violenza di genere, a Roma foto Roberto Monaldo/LaPresse Il corteo di Roma – LaPresse

Resisteva un sospetto. L’enorme successo della manifestazione contro la violenza sulle donne dello scorso anno era forse dovuto esclusivamente all’ondata di emozione per il femminicidio di Giiulia Cecchettin? Era un sospetto sbagliato. Un anno dopo il corteo transfemminista convocato a Roma da Non una di meno ha visto sfilare almeno 200 mila persone con una piattaforma politica ed economica che prescinde, travalica e restituisce senso ai fatti di cronaca. «La violenza è politica e questo è un governo patriarcale, non basta una premier donna», spiegano le attiviste Nudm alla partenza, davanti la Piramide Cestia.

ALLA SPICCIOLATA arrivano donne e uomini di tutte le età, bambini e bambine: la piazza che all’inizio sembra troppo vasta, si riempie. Di certo un assist fortissimo per la partecipazione lo hanno dato, loro malgrado, il ministro all’Istruzione (e merito) Valditara e la presidente del Consiglio Meloni che ne ha rivendicato le frasi inopportune, xenofobe e negazioniste pronunciate alla presentazione della Fondazione Cecchettin solo lunedì scorso. Naturale quindi che la gran parte dei cartelli, ironici e irriverenti, fosse dedicata a loro. «Il patriarcato esiste, il razzismo istituzionale non è la risposta» è il coro di risposta unanime a Valditara. Ma c’è anche altro: «manifestiamo contro l’orbanizzazione della società, contro il Ddl sicurezza che si realizza nella criminalizzazione delle scelte di vita e del dissenso e nella militarizzazione del territorio mentre la crisi economica morde, contro il lavoro povero e il part time obbligatorio femminile che è un record di Meloni – spiegano dalla piazza – contro il governo che taglia welfare, sanità e scuola per finanziare il riarmo».

«104 morti di Stato. Non è l’immigrazione ma la vostra educazione», recita lo striscione dei collettivi degli studenti medi che arrivano in massa dopo aver fatto un flash mob davanti al ministero dell’Istruzione di Viale Trastevere. Lì hanno anche bruciato una foto del ministro leghista: gesto preso subito a pretesto dalla maggioranza per tentare di descrivere anche questo corteo come violento e per chiedere ai partiti di centrosinistra di prenderne le distanze. Altro segnale che al governo sfugge il senso di una mobilitazione femminista che non è convocata da nessun partito ma da una rete composita di associazioni, centri anti violenza, collettivi, centri di aggregazione giovanile.

Ci sono gli striscioni di Be Free, Differenza Donna, Lucha y Siesta, Giuridicamente Libera. Quelli della Casa Internazionale delle Donne, di Scosse della Rete degli studenti medi, di Aracne. C’è la Cgil e Nonna Roma. Ci sono anche diversi esponenti del centro sinistra ma senza alcun simbolo di partito. «È una manifestazione di tutti», spiega

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Libano Soldati israeliani vicino all’edificio, poi i razzi di Hezbollah. Onu: «Serve il cessate il fuoco». A Tiro uccisi cinque soccorritori libanesi, sono oltre 200 dall’8 ottobre 2023

Una colonna di fumo si alza dal quartiere Chiyah, a Beirut foto Ap/Bilal Hussein Una colonna di fumo si alza dal quartiere  Chiyah, a Beirut

Terzo attacco alla base militare di Chama nel sud del Libano in pochi giorni. E quattro militari italiani feriti in maniera lieve dopo il lancio di razzi probabilmente da parte di Hezbollah o di gruppi affiliati.

Andrea Tenenti, portavoce della missione Onu Unifil, non si sbilancia sull’intenzionalità o meno dell’attacco, ma invita per l’ennesima volta le parti al cessate il fuoco: «Non sappiamo al momento se quest’ultimo attacco a Chama sia intenzionale o no. Quello che però è importante è che cessino le ostilità per garantire la sicurezza dei caschi blu e soprattutto riportare stabilità nel sud del Libano», dice Tenenti al manifesto.

Sono state ore concitate quelle di ieri all’interno del contingente Unifil, la forza internazionale di interposizione Onu attiva in Libano dal marzo 1978 per garantire il ritiro delle truppe israeliane che avevano invaso il suolo libanese durante la guerra civile (1975/1990). La missione conta oltre 10mila militari da 48 paesi, di cui 1.200 italiani.

«QUELLO CHE SAPPIAMO al momento è che ieri mattina due razzi hanno colpito il settore ovest della base italiana del quartier generale di Unifil a Chama – spiega Tenenti – Quattro peacekeeper sono stati feriti e sono attualmente presso l’ospedale della base. Fortunatamente nessuno è in pericolo di vita. I razzi probabilmente sono stati lanciati da Hezbollah, o da gruppi affiliati, e ciò è deducibile dal tipo di razzo utilizzato (122mm, in dotazione di consuetudine a Hezbollah e non all’esercito israeliano, ndr). È stato colpito un bunker e un’area logistica militare utilizzata dalla polizia internazionale, causando gravi danni alle infrastrutture. Una struttura ha preso fuoco, ma l’incendio è stato domato dal personale della base. Si tratta del terzo attacco alla base di Chama in una settimana».

Trasversale la condanna. La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha espresso ieri «profonda indignazione e preoccupazione». Il vicepremier e ministro degli esteri Tajani ha dichiarato: «Come abbiamo detto a Israele di prestare la massima attenzione, diciamo con altrettanta fermezza a Hezbollah che i militari italiani non si possono toccare».

Il ministro della difesa Crosetto si è impegnato a parlare con il suo omologo israeliano Israel Katz della questione «per chiedergli di evitare l’utilizzo delle basi Unifil come scudo». Il motivo: i soldati israeliani si sarebbero posizionati accanto alla base.

Intanto la visita dell’emissario statunitense Amos Hochstein a Beirut e poi a Tel Aviv per negoziare un cessate il fuoco, nonostante i segnali positivi che aveva mandato dal Libano, pare non sortire ancora nessun effetto. I bombardamenti israeliani a Beirut si susseguono notte e giorno con grande violenza. Tre in poco più di 24 ore nel cuore della capitale libanese tra domenica e lunedì senza alcun preavviso, fuori dall’ormai famosa Dahieh, la periferia a Beirut sud.

Ieri è stato colpito, tra gli altri, il quartiere di Chiyah, uno dei pochi ancora abitati, ancora una volta senza preavviso e senza dare la possibilità ai civili di evacuare, una consuetudine ormai tanto a Beirut quanto nel resto del paese. A Tiro, Baalbek, su tutto il sud e l’est del paese si intensificano i colpi dell’aviazione israeliana dopo il tentativo di Hochstein.

SOLO NELLA GIORNATA di ieri sono state uccise nei bombardamenti 62 persone in Libano, con il bilancio totale che sale a 3.645, secondo il ministero della salute libanese. Oltre 15mila i feriti. L’esercito israeliano ha annunciato che 1.018 soldati sono stati feriti e 83 uccisi dall’inizio delle operazioni di terra nel sud del Libano da Hezbollah, che continua a concentrare i lanci dei suoi missili quasi esclusivamente su postazioni militari e non civili nel nord di Israele.

Almeno cinque soccorritori del Comitato di sanità islamico, affiliato a Hezbollah, sono stati uccisi a Tiro e Jezzine ieri. Oltre 200 tra medici e paramedici sono stati ammazzati dall’inizio della guerra in Libano: in percentuale, molti di più di quelli morti nella guerra in Ucraina, ha evidenziato l’Organizzazione mondiale della Sanità in un rapporto di ieri.

 

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Reportage dalla striscia di Gaza dove gli aiuti non arrivano quasi più oppure vengono saccheggiati. Israele blocca i convogli e i pochi generi alimentari che si trovano hanno prezzi altissimi: 100 euro per un sacco di farina. La devastazione è totale, l’inverno è alle porte

L’arrivo di una consegna si nota subito: i pochi beni esposti diventano più vari, a qualche latta di piselli si affiancano bagnoschiuma o una decina di berretti per l’inverno. Intanto le gang saccheggiano i pochi camion in entrata sotto gli occhi delle truppe israeliane e piccole botteghe riaprono sotto le tende. E la gente mangia sempre meno

Folla davanti all’unico forno di Deir al-Balah Folla davanti all’unico forno di Deir al-Balah – Getty/Ashraf Amra

Qualche giorno fa, alle prime ore del mattino, gruppi di uomini camminavano torvi per il mercato di Deir al-Balah assicurandosi, con l’ausilio di spavaldi Ak47, che le serrande fossero abbassate. Il mercato del centro è forse l’ultimo ancora in piedi di tutta Gaza. Chi ha viaggiato lungo la Striscia ormai resta sorpreso non di fronte ai palazzi sventrati o crollati su se stessi, ai cumuli di detriti e ambulanze accartocciate, agli accampamenti precari di tende avvolti dalla polvere, bensì di fronte a strade ancora integre, pareti verticali e palazzine con vetri alle finestre.

COME ANNUNCIATO da giorni, in queste vie con negozi e magazzini, una serrata è stata imposta contro il caro prezzi. Solo le piccole bancarelle potevano vendere i loro pochi prodotti. La frustrazione per i costi dei prodotti è ovunque, la protesta è stata un atto autonomo guidato dalle grandi famiglie che abitano la zona.

Nella zona centrale della Striscia si riflette la condizione generale: ciò che resta dell’amministrazione pubblica è in affanno e, mentre i combattimenti continuano a nord e sud, la sicurezza interna delle comunità è precaria visto l’aumento di criminalità e instabilità. In questo contesto le grandi famiglie hanno deciso di agire direttamente per contrastare quelli che sono definiti gli speculatori della guerra. Da moltissimi mesi i prezzi seguono le più classiche regole del libero mercato; nessun prodotto è facilmente accessibile, alcuni sono assenti, altri in limitata quantità e perciò soggetti alla mera logica del profitto.

Lungo la strada del lungomare di Al-Mawasi si incontrano piccoli nuovi commercianti, o i negozianti che hanno visto sparire la loro bottega e ricompongono le loro insegne in un nuovo spazio. L’arrivo di una consegna all’ingrosso si nota subito quando i pochi prodotti esposti diventano un poco più vari, e quindi a qualche latta di piselli si affianca una fila di bagnoschiuma o una decina di berretti per l’inverno.

Un mercato improvvisato a Deir al-Balah - foto Ap
Un mercato improvvisato a Deir al-Balah – foto Ap

Oltre a questo genere di negozio si incontrano banchi più settoriali, come dei ferramenta con rubinetti impolverati e water raccolti intatti fra le macerie, elettricisti con router sporchi e pannelli solari bucati dai proiettili, venditori di legno da ardere ricavato sradicando alberi o spaccando pezzi di mobili.

LE VERDURE sui banchi provengono da quel povero 30% delle terre agricole sopravvissute e l’apparizione di confezioni di aglio era una conferma: alcuni camion commerciali hanno passato la frontiera facendo sperare almeno in un lieve generale calo dei prezzi.

Un uomo che fuma a bordo strada attira l’invidia per il suo atto opulento poiché i prodotti di lusso come le sigarette (tutte di contrabbando) sono oggetto di quotazioni ormai leggendarie, 25 dollari una Marlboro, 30 dollari una Karelia egiziana, talmente pesante che può esser venduta ormai anche a misura, se in tasca non si ha abbastanza disponibilità: 10 dollari al centimetro.

Da ottobre 2023 l’importazione di sigarette è stata bloccata dalle autorità israeliane, anche i cerotti alla nicotina che alcune organizzazioni fornivano per trattare la dipendenza sono stati recentemente bloccati. Nonostante questo divieto, dagli aerei israeliani sono stati lanciati volantini con allegata una sigaretta, promettendone altre a chi avrebbe collaborato con lo spionaggio.

Anche i beni di prima necessità come cibo, materiale igienico, prodotti di uso quotidiano fluttuano con prezzi che fanno mascherare lo sconforto dei gazawi con un

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5 Stelle Sabato la kermesse del Palazzo dei congressi, ospite la socialconservatrice Sahra Wagenknecht

In attesa di «Nova» si aprono le urne digitali. Conte ha bisogno di  45 mila votanti Giuseppe Conte – Ansa

Da ieri mattina sono cominciate le votazioni degli iscritti al Movimento 5 Stelle: si tengono in occasione dell’assemblea generale convocata da Giuseppe Conte all’indomani delle elezioni europee dello scorso giugno, quando l’asticella dei consensi si fermò al di sotto del 10%. L’evento rokano del Palazzo dei Congressi, chiamato Nova, comincerà invece sabato nel primo pomeriggio. Ma lo statuto del M5S prevede ancora che la partecipazione degli iscritti alle scelte avvenga attraverso il voto online. Dunque, le consultazioni avverranno nell’arco di quattro giorni, da giovedì a domenica, e per un paio di giorni scorreranno in parallelo all’evento in presenza, che ricalca molto il modello talk-show (una serie di panel tematici con ospiti esterni).

A questo punto, gran parte delle attenzioni è concentrata sull’affluenza al voto digitale. Dopo l’annunciata «pulizia» delle iscrizioni silenti da troppo tempo (operazione guardata con esplicito sospetto da Beppe Grillo e dai suoi) dai vertici del M5S hanno fatto sapere che al momento gli iscritti validi sono circa 89 mila. Sul ruolo del presidente, del garante, sulle modalità di votazione per le modifiche statutarie, sul comitato di garanzia e sul nome e sul simbolo serve che almeno la maggioranza assoluta degli iscritti partecipi affinché la votazione non debba essere ripetuta: in pratica 44.473 persone devono trovare del tempo tra oggi e domenica per collegarsi al sito e dare il proprio contributo. Per tutti gli altri quesiti, il quorum non serve, ma dal pnto di vista dei contiani sarebbe auspicabile che la soglia della maggioranza dei votanti si raggiungesse per evitare polemiche e speculazioni di sorta. Si spiegano così gli appelli al voto di Conte, che in questi giorni si gioca di fatto la sua carica di leader. Le condizioni per restare le ha esplicitate proprio l’altro giorno: occorre disarmare i poteri del garante e fondatore Grillo, accogliere la collocazione progressista e riconoscere ai vertici la facoltà di stipulare alleanze.

Lo stesso Conte interverrà al termine di ognuna delle due giornate di assemblea in presenza, alla quale sono attese circa tremila persone. Alla domenica dovrebbe annunciare il buon esito del voto e, sperano i suoi, proclamare la nuova fase, quella de-grillizzata, della vicenda pentastellata. Dato per assodato che si derogherà una volta per tutte al tetto dei due mandati, resta il tema del simbolo. Cambierà anche quello? «È un quesito che non mi sono mai posto ha spiegato ieri Conte – Io non ho ancora votato. Sono molto indeciso perché da un lato il brand andrebbe conservato, dall’altro siccome è un processo di rifondazione così coinvolgente, travolgente, dei segnali anche importanti di rinnovamento andrebbero dati».

Grillo al momento non ha fatto sapere se e in che modo sarà a Roma. Mentre una posizione terzista, accostabile a quella formulata da Marco Travaglio, è quella di Chiara Appendino. Che parteciperà al voto e all’assemblea, e dunque non aderisce ai sotterranei inviti al boicottaggio, ma propende per un M5S più autonomo. «Ragioniamo su noi stessi, troviamo una nostra identità – sostiene – La mancanza di identità sta portando al risultato che il Partito democratico sta fagocitando il M5S. Torniamo protagonisti, e poi ragioniamo di ipotetiche coalizioni».

A proposito di coalizioni, c’è un’indicazione evidente nel programma di Nova: l’unica leader politica ospite è Sahra Wagenknecht, esponente della cosiddetta «sinistra conservatrice» tedesca, contro la Nato ma diffidente verso i migranti. Il M5S del dopo-Grillo va verso i progressisti, ma ha ancora qualche tic «né di destra né di sinistra».

 

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Rimpatriota L’ente gestore smobilita entro il fine settimana. Per ora non sono previsti ricambi. Il ministero dell’Interno insiste: andiamo avanti con il progetto. Piantedosi: «Il modello è stato tracciato. Non faremo passi indietro. Attendiamo a breve la pronuncia della Cassazione sulle nostre impugnazioni»

Flop Albania, rientrano in Italia gli operatori dei centri per migranti Gjader, il cpr realizzato dal governo italiano – Antonio Sempere/Europa Press

Gli operatori di Medihospes, l’ente gestore dei centri italiani di Schengjin e Gjader, stanno rientrando dall’Albania: saranno tutti a casa entro il fine settimana. Per loro al momento non sono previsti ricambi, mentre non è ancora chiaro cosa accadrà con i contratti dei lavoratori selezionati ma mai partiti. Del resto, ha denunciato mercoledì altreconomia, anche il contratto tra la prefettura di Roma e Medihospes è ancora «fantasma», a sei mesi dall’aggiudicazione.

GIÀ NEI GIORNI SCORSI alcuni operatori avevano ripreso l’aereo per l’Italia, ieri anche gli altri hanno iniziato a fare le valigie. Le informazioni trapelano attraverso diversi canali informali, mentre i dirigenti della cooperativa non hanno voluto rilasciare dichiarazioni in merito: sulle strutture detentive d’oltre Adriatico vige un «assoluto riserbo» in base agli accordi con le autorità.

La smobilitazione di Medihospes è uno dei tasselli utili a comporre il quadro. La scorsa settimana gli agenti in trasferta, che a pieno regime dovrebbero essere 295, erano stati ridotti quasi di un quarto: da 220 a 170. Fonti governative confermano che è stata prevista una rimodulazione, non occasionale. I funzionari della commissione territoriale per la protezione internazionale di Roma che erano stati incaricati delle interviste in Albania, intanto, sono stati messi a fare altro. Del resto dal centro di trattenimento di Gjader, dove dovrebbero essere esaminate le richieste d’asilo, sono transitate finora solo 18 persone: all’orizzonte non se ne vedono altre.

DOPO IL secondo round di trasferimenti è tornato a casa anche il personale sanitario dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (Inmp) presente nell’hotspot. Ordinaria amministrazione: la sua presenza è prevista solo quando arrivano i migranti e questo può essere comunicato anche pochi giorni prima. Dopo il nuovo flop dei trattenimenti, però, l’argomento Albania è stato messo da parte a livello dirigenziale: al momento non si parla di nuove trasferte.

«Ogni tanto qualche italiano viene ancora, ma non è più come prima», commentano amaramente dalla trattoria di Shengjin intitolata a Meloni.

INSOMMA TUTTO suggerisce che con l’arrivo dell’inverno il progetto Albania resterà congelato. Certo la stagione fredda complica le cose: gli sbarchi tendono a diminuire, il mare a peggiorare e i trasbordi su e giù per la nave Libra a diventare più difficili. «Gli spazi dedicati alle operazioni di pre-selezione e all’accoglienza dei migranti a bordo non sembrano adatti a operazioni in condizioni meteorologiche avverse o a basse temperature», dice un report interno dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha personale impiegato sul mezzo militare, riguardante la missione di due settimane fa. I problemi principali, però, prima che logistici sono giuridici: se non cambia qualcosa dal punto di vista legale sul governo rischia di abbattersi la Corte dei conti, con possibili cause per danno erariale.

La prossima novità sarà la conversione in legge del decreto flussi in cui è stato inserito l’«emendamento Musk», a firma di Sara Kelany (FdI), per spostare la competenza sulle convalide dei trattenimenti dalle sezioni specializzate in immigrazione alle Corti d’appello. Poi il 4 dicembre ci sarà la Cassazione sui ricorsi del ministero dell’Interno contro le prime non convalide dei trattenimenti in Albania disposte dalle toghe capitoline e, insieme, su un rinvio dello stesso tribunale in merito ai poteri di controllo della magistratura sulla lista dei «paesi sicuri» (precedente alla sentenza della Corte Ue). È su questo passaggio che dichiara di puntare il ministro Matteo Piantedosi: «Il modello è tracciato. Non faremo marcia indietro. Attendiamo con interesse il pronunciamento della Cassazione davanti alla quale abbiamo impugnato i provvedimenti adottati dalla magistratura finora».

MOLTI ESPERTI DELLA MATERIA, però, dubitano fortemente che da quella sede possano venire notizie positive per l’esecutivo. L’esito più probabile sembra un nuovo rinvio in Lussemburgo. Davanti alla Corte di giustizia Ue pendono già diversi rinvii sul decreto-legge che trasforma la lista «paesi sicuri», ovvero la base legale dei trattenimenti in Albania dei richiedenti asilo, in norma primaria. Quel dl è poi confluito nel decreto flussi che lunedì arriverà alla Camera.

I quesiti ai giudici europei sono partiti dai tribunali di Bologna, Palermo, Catania e Roma. Tutti hanno chiesto l’attivazione della procedura d’urgenza o, in subordine, accelerata. La Corte ha iscritto queste domande di pronunce pregiudiziali, che verosimilmente saranno accorpate in un solo procedimento, assegnando loro il numero di pratica. Non ha ancora stabilito, però, quale sarà il tipo di procedura. Quella più rapida richiede tre mesi, la seconda sei/otto, quella ordinaria fino a due anni. È difficile dunque che la sentenza, dall’esito non scontato, arrivi prima della prossima primavera. A essere ottimisti.

 

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Il limite ignoto Il discorso del presidente dopo il lancio di un nuovo modello di missile balistico su Dnipro

Una casa a Dnipro in Ucraina colpita da un attacco russo foto Ap Una casa a Dnipro in Ucraina colpita da un attacco russo foto Ap

«Da questo momento il conflitto in Ucraina ha acquisito elementi di carattere globale». Lo ha dichiarato Vladimir Putin, certo del fatto che i missili a lungo raggio occidentali usati per colpire il territorio russo negli ultimi giorni «non possono essere manovrarti senza specialisti dei paesi in cui sono state prodotti». Molti analisti sono convinti che il bombardamento di Dnipro con il nuovo missile balistico Oreshnik di ieri sia frutto proprio di questa logica: far capire a Kiev cosa succederebbe in caso di attacco a obiettivi sensibili russi e, al contempo, mostrare all’Occidente che Mosca è pronta all’escalation. D’altronde il presidente non ha usato mezzi termini: «in caso di escalation risponderemo in maniera decisa e speculare».

Siamo il terreno di prova di un vicino folle che disprezza la vita umana. Ma oggi ha mostrato che ha talmente paura che sta già usando nuove armiVolodymyr Zelensky

PER TUTTA LA GIORNATA di ieri le notizie sul lancio dell’Oreshnik si sono susseguite confuse e frenetiche. I primi a dare l’allarme erano stati proprio gli ucraini. «Un missile balistico intercontinentale [noto con l’acronimo inglese Ibm, ndr] russo è stato lanciato da una base nella regione di Astrakhan», a poca distanza dalla costa del Mar Caspio, aveva dichiarato l’aeronautica gialloblu. L’annuncio ha fatto in fretta il giro del mondo perché si sarebbe trattato del primo attacco con questo tipo di arma dall’inizio della guerra in Ucraina e perché gli ibm possono trasportare testate nucleari. Come altri missili già usati dal 24 febbraio 2022 del resto. Ma era evidente il fatto che il Cremlino avesse deciso di fare una dimostrazione di forza. «Vi consiglio di rivolgervi alla Difesa, non ho nulla da dire in questo momento sull’argomento» ha risposto ai giornalisti che lo pressavano Dmitry Peskov, il portavoce di Putin. Poco dopo gli ufficiali ucraini hanno iniziato a parlare con le agenzie e si è venuto a sapere che il missile non trasportava testate nucleari. Niente catastrofe irrimediabile, dunque, ma la novità dell’ordigno usato destava comunque grande sospetto e interesse. Secondo l’emittente televisiva statunitense Abc, prima a smentire gli ucraini, non si trattava neanche di un missile intercontinentale ma di una testata a media gittata. Zelensky ha preso tempo, dichiarando che un’indagine era già in corso.

L’UNIONE EUROPEA si è detta molto preoccupata tramite il portavoce per l’azione esterna, Peter Stano, il quale alle domande sull’eventualità che si trattasse di un primo passo per un attacco nucleare ha risposto: «Sappiamo solo che è irresponsabile e costituisce una minaccia globale non solo per la stabilità e per la sicurezza in Europa ma in tutto il mondo». Per Parigi si sarebbe trattato di «un fatto estremamente grave se confermato», mentre per Londra di «comportamento totalmente irresponsabile». Entrambi i governi concordavano sul rischio di escalation causato da Mosca. A quel punto Zelensky ha rotto gli indugi, dichiarando che «molto probabilmente» si trattava di un ibm e ha scritto su X: «Oggi il nostro folle vicino ha mostrato ancora una volta ciò che è veramente […] E quanto ha paura. Ha talmente paura che sta già usando nuovi missili». Ma la retorica del nemico in difficoltà che per difendersi attacca alla cieca non è adatta a questa fase del conflitto. La Russia, al netto delle enormi difficoltà dimostrate sul campo di battaglia, dell’impreparazione dei suoi ufficiali e dei problemi logistici che gli sono costati 3 anni di guerra sanguinosissima laddove si immaginava una cavalcata trionfale verso Kiev, è sempre una delledue maggiori potenze nucleari del mondo. Se Zelensky può fingere di non saperlo perché è impegnato direttamente nel confitto, in Occidente il ragionamento dovrebbe essere più consapevole.

LA PORTAVOCE del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, durante il pomeriggio è stata protagonista (inconsapevole o complice?) di un siparietto durante una conferenza stampa. Mentre parlava, la funzionaria ha ricevuto una telefonata che le ha chiesto di non parlare del presunto Ibm. «Masha non parlare del lancio del missile balistico su Yuzmash, [l’area colpita dal missile, ndr] perché gli occidentali ne stanno già parlando» avrebbe detto una voce maschile. Che la telefonata fosse preparata o meno, in serata ci ha pensato il capo in persona a fugare ogni dubbio. Con un intervento imprevisto trasmesso alle reti Tv.

VLADIMIR PUTIN ha chiarito che si trattava di un nuovo missile a medio raggio lanciato contro un sito militare non meglio specificato della città di Dnipro in risposta agli attacchi ucraini degli ultimi giorni. Inoltre, ha aggiunto, questa nuova tipologia di missile non sarebbe intercettabile dalla contraerea occidentale. E per non lasciare adito a fraintendimenti: «La Russia si riserva il diritto di usare le armi contro gli obiettivi dei Paesi che permettono l’uso delle loro armi contro gli obiettivi russi»

 

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