Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Usa, il vincitore Trump si prepara a fare a pezzi lo Stato e i suoi rivendicano la famigerata agenda “Project 2025”:
«È tutto vero, la realizzeremo». Tra i vinti volano gli stracci, il capro espiatorio Biden non fa autocritica. Sanders e la sinistra dei democratici avanzano una spiegazione: i lavoratori vogliono un cambio, e hanno ragione

Stati uniti Biden e Harris promettono una transizione pacifica ma non si assumono responsabilità. Ci pensa la sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez. Dopo averlo negato per mesi, ora l’entourage trumpiano rivendica l’agenda: è il Project 2025. Sms e mail dalle città democratiche: terapia gratis per superare il trauma e farne resistenza

Joe Biden alla fine del suo discorso alla Casa Bianca - foto Ansa Joe Biden alla fine del suo discorso alla Casa Bianca - foto Ansa

In campagna elettorale Donald Trump si è più volte distanziato dal «Project 2025», programma politico lanciato dalla super conservatrice Heritage Foundation, per ridefinire i ruoli istituzionali del governo federale. Ora che ha vinto, tutto il suo entourage più destrorso rivendica la validità di quel progetto.

Da quando ha fatto il suo discorso da vincitore, Trump non ha parlato pubblicamente; a gongolare e a rivendicare le posizioni più a destra ci ha pensato Matt Walsh, podcaster di estrema destra, che su X ha scritto: «Penso che possiamo finalmente dire che sì, in realtà il Progetto 2025 è l’agenda. Lol». Subito dopo l’ex consigliere della Casa bianca Steve Bannon nel suo podcast ha elogiato Walsh, così come ha fatto l’influencer di destra Benny Johnson, sempre su X: «È un onore per me informarvi che il Progetto 2025 è sempre stato molto reale per tutto il tempo». E anche Bo French, un funzionario repubblicano del Texas ha scritto su X: «Quindi ora possiamo ammettere che implementeremo il Project 2025».

MENTRE SI ATTENDE di capire in che modo The Donald vorrà mantenere le sue promesse elettorali, la parola è ancora del partito sconfitto. «In democrazia prevale sempre la scelta del popolo, e noi lo accettiamo: non si può amare il Paese solo quando si vince» ha detto Joe Biden nel suo primo discorso dopo la sconfitta, promettendo una «transizione dei poteri pacifica e ordinata», sottolineando che avrebbe «onorato la Costituzione» e ricordando alcuni dei successi della sua amministrazione.

Anche Kamala Harris, quando mercoledì pomeriggio si è rivolta ai suoi sostenitori, ha parlato di «transizione pacifica» e rispetto della costituzione, così come Nancy Pelosi e il comitato elettorale democratico, per rimarcare la differenza fra questa amministrazione e quella che l’ha preceduta e che la seguirà.

MAGRA SODDISFAZIONE di stile, per un Paese che si è consapevolmente avviato verso l’autoritarismo. Dopo essersi assicurati Casa bianca e Senato (alla Corte suprema aveva pensato Trump già nel primo mandato), i repubblicani sono pronti a prendere il controllo della Camera: decine di seggi sono ancora impegnati in testa a testa troppo vicini per decretare un vincitore. Per i dem però, non sembra tirare una buona aria, neppure lì. Chiunque vincerà avrà una maggioranza risicata, ma se per i repubblicani sarebbe solo una facilitazione, per i Dem rappresenta l’unico appiglio.

«Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento. E ha ragione», ha detto il socialista Bernie Sanders commentando la catastrofica sconfitta elettorale, dopo essere stato rieletto per la quarta volta come senatore del Vermont. Sanders ha sottolineato il distacco del partito dalla sua base: «Non ci deve sorprendere che un partito democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra che la classe lavoratrice gli ha voltato le spalle alle urne. All’inizio è stata la classe operaia bianca, ora anche i lavoratori ispanici e neri».

SANDERS HA PARLATO di «grandi interessi economici e consulenti ben pagati che controllano il partito democratico» e si è chiesto: «Impareranno qualche vera lezione dalla

Commenta (0 Commenti)

Germania Il cancelliere Scholz licenzia il ministro delle Finanze Lindner. Incubo elezioni anticipate

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il ministro delle finanze Christian Lindner nel Bundestag a Berlino, in Germania foto di Michele Tantussi/Getty Images Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il ministro delle finanze Christian Lindner nel Bundestag a Berlino, in Germania – Michele Tantussi/Getty Images

Ufficialmente doveva essere solo il prolungamento serale della riunione dell’esecutivo sullo stato dell’economia iniziata in tarda mattinata fra i più larghi sorrisi dei ministri. Invece si è trasformata nella resa dei conti finale nella coalizione Semaforo che di fatto non esiste più dopo la clamorosa decisione del cancelliere Olaf Scholz comunicata in diretta televisiva a reti unificate a milioni di tedeschi poco dopo le 21.30.

«HO APPENA SOLLEVATO dall’incarico il ministro delle Finanze, Christian Lindner, per incompatibilità della sua visione rispetto a quella del resto del governo» scandisce il leader socialdemocratico con voce ferma, lo sguardo scuro esattamente come la giacca e cravatta. Al Semaforo di Berlino è scattato così lo stop al ministro e segretario del partito liberale, pronto a scaricare sul Paese il piano lacrime e sangue bastato unicamente sull’austerity finanziaria, lo smantellamento del welfare e la fine della svolta ecologica.

E la dichiarazione del leader della Spd significa di fatto fine del governo Scholz, anche se formalmente resta in piedi perché in Germania vige la sfiducia costruttiva e al momento non c’è una maggioranza alternativa già pronta al Bundestag da presentare al presidente della Repubblica. Ad ammetterlo è lo stesso cancelliere pronto a «chiedere il voto di fiducia a gennaio», la data sarebbe il 15, e in caso di insuccesso a dare il via libera alle elezioni anticipate al massimo entro la fine di marzo. Una vera e propria implosione interna nel primo governo dell’Europa, caduto – in buona sostanza – sul documento di programmazione economico-finanziaria di 18 pagine presentato da Lindner la settimana scorsa, respinto subito con forza da Spd e Verdi.

DOPO IL NEIN al Bundestag il cancelliere aveva convocato d’urgenza tre vertici con Lindner e il ministro dell’Economia, Robert Habeck, co-leader dei Verdi e vicecancelliere. Nulla da fare: invece di diminuire, la distanza fra gli ex partner della coalizione Semaforo è aumentata fino a sancire la separazione definitiva.
Non è ancora chiaro se il ritiro dall’alleanza riguarda solo Lindner oppure anche gli altri ministri del partito liberale, come il ministro della Giustizia, Marco Buchmann; ma appare certo che senza il leader di Fdp non potranno in alcun modo restare alla guida dei loro dicasteri.

IL LORO PASSO INDIETRO dovrebbe essere già annunciato domani in conferenza stampa, mentre dalle 22.30 di ieri nel quartiere generale Spd, ai piani alti della Willy Brandt Haus, era in corso la riunione semi-permanente fra i vertici del partito per definire il patch della crisi di governo aperta da Scholz e Lindner e la riassegnazione delle deleghe in una coalizione diminuita di ben un terzo.
Certo era tutto previsto dalle ripetute liti fra Spd e Verdi da una parte e liberali dall’altra praticamente su tutti i punti del programma concordato a inizio legislatura. Nessuno però si aspettava che il crollo potesse manifestarsi all’improvviso nel corso di un incontro in cui era stato previsto di parlare del rilancio del made in Germany.

«Il ministro Lindner ha tradito la mia fiducia troppo spesso. Come responsabile delle Finanze, non ha mostrato alcuna volontà di rispondere alle proposte per il bene del nostro Paese. Era solo interessato alla politica clientelare e alla sopravvivenza a breve termine del suo partito, un egoismo incomprensibile; e io non voglio più sottoporre la Germania a questo comportamento. Avrei preferito risparmiare ai tedeschi la decisione in questi in tempi difficili ma la situazione lo impone».

INFINE IL CANCELLIERE dettaglia la sua road map per marcare ancora più la distanza con Fdp. «Con il vice cancelliere Robert Habeck concordiamo che la Germania ha bisogno di chiarezza sul suo futuro corso politico in tempi brevissimi. Nelle settimane che ci separano da Natale metterò ai voti tutte le leggi che non possono essere rimandate» promette il leader Spd. Tradotto, vuol dire mettere mano alle pensioni e misure immediate a fondo perduto per l’industria, ovvero fumo negli occhi per l’austerity di Lindner. A cui Scholz già prova a togliere il terreno politico da sotto i piedi.

Se Lindner sta investendo nell’exit di Fdp dalla colazione Semaforo per presentarsi come alleato di minoranza per la Cdu nel 2025 (ammesso che superi la soglia di sbarramento del 5% al Bundestag), Scholz di contro si dichiara pronto al faccia a faccia con il leader della Cdu Friedrich Merz, capo dell’opposizione. «Cercherò il dialogo con lui quanto prima e gli proporrò una cooperazione costruttiva».

Partendo certamente dall’Ucraina non a caso citata – sul punto Lindner chiede di limitare l’impegno a favore di Kiev anche nei confronti dei rifugiati – alla fine del suo discorso sul licenziamento dell’ex partner di governo, il cancelliere conclude: « Il ministro delle Finanze ha proposto di ridurre le tasse ai ceti alti. Tuttavia i tributi servono per pagare le riforme sociali, attuare la digitalizzazione e la transizione ecologica. Oltre che ad aiutare l’Ucraina».

 

Commenta (0 Commenti)

Donald Trump stravince le elezioni e ottiene Casa Bianca, Senato, Camera e voto popolare (la Corte suprema era già sua): c’è un uomo solo al comando, più un’ombra pluto-tech di nome Musk. Per i democratici è un massacro, per il resto del mondo l’inizio di un incubo

Potere assoluto Watch party tragico per i dem a Washington. E Kamala come Hillary non si presenta

Donald Trump sul palco del Palm Beach Convention Center dopo la vittoria - foto Ansa Donald Trump sul palco del Palm Beach Convention Center dopo la vittoria

La mattina dopo il voto, Washington DC si è svegliata prolungando il silenzio inusuale che aveva avvolto la città già il giorno precedente. Se il concetto di silenzio può avere sfumature, a Washington DC sono state esplorate tutte: la città era insolitamente quieta, prima per il timore di disordini causati da Donald Trump in caso di vittoria – data per quasi certa – di Kamala Harris, poi per la sorpresa della sconfitta della candidata democratica, e infine per metabolizzare che, a differenza del 2016, Trump questa volta ha vinto a furor di popolo. Un fenomeno davvero inusitato, dato che nelle ultime otto elezioni il partito Repubblicano ha conquistato il voto popolare solo una volta, e per via di una guerra epocale.

LA NOTTE DEL VOTO nelle sedi dei watch party (le feste dove i sostenitori di un candidato si riuniscono per seguire insieme il conteggio dei voti stato per stato) organizzati dal partito Democratico, si è vissuta solo la prima delle tre fasi dell’elaborazione del lutto: la negazione. In una notte stranamente calda per i primi di novembre, il pullman blu con la scritta «Harris-Walz» sul quale hanno viaggiato i candidati dem per tutta la campagna elettorale, era stato parcheggiato all’interno del campus della Howard University, sede del principale tra tutti i watch party democratici, ed era preso d’assalto dai sostenitori che si facevano fotografie con il bus sullo sfondo.

Visto che lo spazio all’interno della Howard University era troppo esiguo per accogliere gli attivisti e i media di tutto il mondo accorsi per seguire la notte elettorale dalla parte della prima candidata nera alle presidenza degli Stati Uniti, all’esterno, nel giardino del campus, poco lontano dal pullman elettorale, era stato allestito un palco sul quale sarebbe dovuta salire Harris, per ringraziare della vittoria, salutando così anche chi era rimasto fuori dal magico perimetro.

SU QUEL PALCO Harris non è mai salita, ed è rimasto appannaggio del mega schermo collegato con la Cnn, mentre la base continuava a festeggiare e a sventolare bandierine americane con aria festosa, anche quando era ormai diventato chiaro che per la candidata democratica si stava mettendo male. C’è voluto tutto il tatto dei giornalisti della Cnn che commentavano i risultati dal vivo per obbligare questa base a guardare in faccia la realtà: «A quest’ora, quattro anni fa, l’Arizona veniva assegnata a Biden facendo infuriare Trump – ha detto uno dei commentatori – Quest’anno la storia è molto diversa». Anche il partito ha parlato ai suoi elettori come per ammortizzare la caduta, annunciando che il «cammino verso la vittoria si sta facendo più sottile».

Nel tardo pomeriggio italiano Harris ha telefonato a Trump per congratularsi con lui.

HARRIS, COME HILLARY Clinton nel 2016, non si è presentata per rivolgersi ai

Commenta (0 Commenti)

Speriamo che sia femmina

Code ai seggi, tensione, uffici degli scrutini guardati a vista da polizia armata (e a volte droni e cecchini): gli Stati uniti scelgono il presidente, sarà un lavoro lungo, Musk ha già acceso la macchina del fango social. Balzo dei consumi di alcool e droghe: è l’election anxiety

 

Elettorale americana Elon Musk fa campagna per Donald Trump da mesi, e ora che le elezioni sono arrivate, il suo comitato di raccolta fondi, American Pac, ha lanciato un gruppo su X per segnalare i famigerati brogli alle urne. I gruppi di estrema destra diffondono i loro piani anche su altre piattaforme e minacciano di «agire» qualora Trump non vincesse le elezioni

Proud boys sostenitori di Donald Trump a Bedminster, New Jersey - GettyImages Proud boys sostenitori di Donald Trump a Bedminster, New Jersey – Getty Images

Da mesi il miliardario Elon Musk fa campagna per Donald Trump, e ora che le elezioni sono arrivate il suo comitato di raccolta fondi, American Pac, ha lanciato un gruppo sul social che l’imprenditore ha comprato e trasformato, X, ex Twitter, per segnalare i famigerati “brogli” alle urne.

L’Election Integrity Community, questo è il nome a dir poco orwelliano che è stato scelto, conta circa 50 mila membri, ed è il luogo in cui si possono «condividere potenziali episodi di frode elettorale o irregolarità riscontrate durante il voto alle elezioni del 2024».

DURANTE TUTTA LA CAMPAGNA, le forze dell’ordine federali e i funzionari elettorali dei due schieramenti hanno parlato costantemente delle minacce che gli operatori elettorali si sono trovati ad affrontare, mentre tentavano di svolgere dei compiti basici per organizzare il processo di voto.
Ora il giorno delle elezioni è arrivato, e il Team Trump, gli attivisti conservatori, i gruppi di pressione di destra e l’uomo più ricco del mondo, stanno conducendo una campagna di pressione coordinata e su più fronti per costringere gli scrutatori a eseguire gli ordini di Trump, spingendoli a rifiutarsi di certificare il risultato delle elezioni, se dovesse essere svaforevole a The Donald.

Per fare questo il piano è semplice e sotto gli occhi di tutti, e si basa sulle accuse infondate di frode elettorale e sulle incessanti bugie del tycoon su come i democratici gli stiano rubando le elezioni da due cicli elettorali.

Con il potere di X che amplifica, questa rete di sostenitori di Trump spera di costruire la narrazione di elezioni rubate su accuse non supportate, o basate su presunte prove che sono solo dei malintesi sulle funzioni fondamentali dell’amministrazione elettorale.

La repubblicana Liz Cheney, una delle voci critiche più accese nel Gop su Trump, la settimana prima del voto aveva predetto che «X sarà un canale importante» per quanti sostengono che le elezioni siano state rubate e ha definito la piattaforma un «pozzo nero» sotto la guida di Musk.

La Casa Bianca mentre la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris parla durante un evento della campagna elettorale sull'Ellipse a Washington
La Casa Bianca mentre la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris parla durante un evento della campagna elettorale sull’Ellipse a Washington, foto di Al Drago /Getty Images

IN EFFETTI AMERICA PAC è diventato un luogo di

Commenta (0 Commenti)

Sanità, Bindi smonta i numeri di Meloni: “Solo bugie, l’aumento è di appena 130 euro. Questa è una destra illiberale e liberista”. Su La7

I numeri non sono un’opinione e bisognerebbe evitare di dire bugie sui numeri, perché, appunto, siccome non sono un’opinione, sono bugie che hanno le gambe corte o il naso lungo, come si preferisce”. Così a In altre parole (La7) l’ex ministra della Sanità Rosy Bindi, parafrasando una dichiarazione di Giorgia Meloni, sbugiarda le cifre sciorinate dalla presidente del Consiglio e dal suo governo sui fondi destinati al Servizio Sanitario Nazionale.
“Devo dire che la gag nella quale la presidente del Consiglio sbaglia una sottrazione – premette Bindi, riferendosi all’ospitata di Meloni da Bruno Vespa – è stata anche simpatica, sicuramente più simpatica di quando fa alcune repliche in Parlamento con toni comizianti. Il punto è che non è che ha sbagliato la sottrazione, ma ha proprio sbagliato i conti“.

 

E spiega, mostrando una tabella sul suo iPad: “Meloni ha detto che quanto viene speso per ciascuno di noi per curarci a carico del Fondo Sanitario nazionale sarebbe aumentato di 396,95 euro, da quando lei è al governo. In realtà questa cifra la si ottiene sommando dal 2018 fino al 2025. Peccato che la presidente del Consiglio – continua – stia governando l’Italia dal 2022 e che quindi lei possa attribuire al suo governo non 400 euro di aumento, ma appena 130 euro. Meloni ha preso le leggi di bilancio che hanno aumentato il Fondo Sanitario dei governi contro quali lei ha votato. Sono, infatti, il governo Conte e il governo Draghi che hanno aumentato il Fondo Sanitario”.

Bindi aggiunge: “I numeri non sono un’opinione, quindi Giorgia Meloni non può dire agli italiani che lei ha aumentato di 400 euro il carico di ciascuno di noi per poterci curare, perché è appena di 130 euro. E i numeri assoluti in sanità non dicono nulla. Il Fondo Sanitario aumenta ogni anno. Il problema è che l’aumento che conta è la percentuale sul Pil nel nostro paese e soprattutto sul bisogno effettivo: allo stato attuale, non è mai stato così basso il Fondo Sanitario in Italia rispetto al nostro Pil“.

 

L’ex presidente dell’Antimafia sottolinea che gli stanziamenti in bilancio della finanziaria del governo Meloni sono assolutamente insufficienti. E osserva: “È evidente che tutto questo poi stia portando progressivamente a qualcosa che non dicono, perché non hanno il coraggio di dirlo. Loro fanno mancare i fondi alla sanità che si potrebbero trovare tassando chi produce armi, le banche, quanti hanno guadagnato sui farmaci e sull’energia, ma non lo fanno – aggiunge – E non perché non ci sono i soldi, ma perché non hanno il coraggio di trovarli dove sono, perché non rispettano la progressività del sistema fiscale e soprattutto perché vogliono privatizzare la sanità. Io vedo una strategia precisa che loro non hanno il coraggio di dire”.
“Ma loro chi? – chiede Massimo Gramellini – Perché quella che è al governo nasce come destra sociale”.
“Eh ma se la sono proprio dimenticata – risponde Bindi – Questa è una destra illiberale e liberista“.

 
 
Commenta (0 Commenti)

Elettorale americana Il piano: rovesciare il voto con pertugi nella Costituzione

La Corte suprema Usa a Washington - foto Ap La Corte suprema Usa a Washington – foto Ap

L’ossessione dei media di tutto il mondo sul “testa a testa” nei sondaggi fra Trump e Harris crea una fitta nebbia che impedisce di vedere le questioni più importanti nella campagna elettorale degli Stati Uniti. Primo: Kamala Harris avrà alcuni milioni di voti dei cittadini più di Donald Trump. In qualsiasi altra democrazia del mondo chi ottiene più voti diventa presidente. I repubblicani, nelle ultime otto elezioni presidenziali hanno avuto una maggioranza di voti popolari soltanto una volta, nel 2004: Trump, nel 2016, vinse pur avendo raccolto circa tre milioni di voti meno di Hillary Clinton, grazie all’infernale meccanismo del collegio elettorale, che sovrarappresenta gli stati meno popolati. Questo scenario potrebbe ripetersi quest’anno.

Secondo: c’è un piano di Trump e dei suoi pretoriani per rovesciare il risultato delle elezioni anche nel caso che Kamala abbia la maggioranza nel collegio elettorale. Questo piano si basa sulla particolare vulnerabilità a brogli e manipolazioni creata dalla stessa Costituzione e quindi ha reali probabilità di successo. I dettagli sono un po’ intricati ma necessari per capire il progetto eversivo.

QUESTO GOLPE bianco si può attuare grazie al XII emendamento della Costituzione, approvato nel 1804, che ovviamente non prevedeva la possibilità che un aspirante dittatore arrivasse alla fase finale del processo elettorale. Il testo dice: “Gli elettori si riuniranno nei rispettivi stati, e voteranno a scrutinio segreto per il presidente e il Vicepresidente (…) essi faranno distinte liste di tutte le persone votate (…) liste che essi firmeranno e certificheranno e trasmetteranno sigillate alla sede del governo degli Stati Uniti, dirette al presidente del Senato. Il presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei rappresentanti, aprirà tutti i plichi certificati e i voti saranno contati”.

Questa procedura era quella che Trump voleva sfruttare già nel 2020 costringendo Mike Pence, allora vicepresidente e quindi presidente del Senato, a non accettare alcune liste di stati che avevano votato per Biden, creando una situazione in cui nessuno dei due candidati avesse la maggioranza. Il piano fallì perché Pence rifiutò di prestarsi al tentativo eversivo. Non a caso la folla che invase il Congresso il 6 gennaio gridava “Impiccate Mike Pence”.

L’EMENDAMENTO prosegue con questo passaggio, che è la chiave di tutto: “La persona che avrà il più alto numero di voti come presidente sarà presidente se tale numero è la maggioranza del numero totale degli elettori nominati”. Attualmente il numero dei grandi elettori è 538 quindi la maggioranza è 270. E se nessuno ottiene questa maggioranza, allora (…) la Camera dei rappresentanti sceglierà immediatamente, a scrutinio segreto, il presidente. Ma nello scegliere il presidente i voti saranno dati per stati, e la rappresentanza di ciascuno Stato disporrà di un voto”.

NEL CASO KAMALA raggiunga o superi i 270 voti, i repubblicani si sono preparati da tempo a usare la clausola “se nessuno ottiene questa maggioranza” per spostare la scelta del presidente dal collegio elettorale alla Camera. Lo strumento è semplicemente il rifiuto di certificare i voti in alcuni stati controllati dai repubblicani stessi. Per esempio, la Georgia aveva approvato una legge che dava al Board of Elections il potere di sospendere la certificazione dei voti e di “condurre indagini” se aveva il sospetto di brogli. La legge è stato poi sospesa da un giudice ma il modello è quello.

Poiché esistono delle scadenze fissate per legge per contare e certificare i voti (il presidente deve, in ogni caso, entrare in carica il 20 gennaio prossimo) alcuni stati hanno effettivamente la possibilità di creare una situazione in cui la scelta del presidente passi alla Camera dei rappresentanti, dove i repubblicani hanno la maggioranza. Naturalmente, questo richiede la sfacciata complicità della Corte suprema ma la Corte ha già dimostrato in passato di essere al servizio di Trump che ha nominato 3 dei suoi 9 membri.

Uno scenario plausibile, secondo gli ultimi sondaggi, è che Kamala Harris ottenga una risicata maggioranza nel collegio elettorale: 270 voti contro i 268 a Trump. In questo caso, sarebbe sufficiente che uno degli stati in cui i cittadini hanno votato a maggioranza per i democratici sospendesse la certificazione dei voti per far avanzare il piano: potrebbe accadere in New Hampshire, dove il governatore e il parlamento locale sono controllati dai repubblicani.

È GIÀ ACCADUTO che un presidente sia stato nominato dalla Camera e non dal collegio elettorale: per la prima volta nel 1800 (un’elezione non meno drammatica di questa) quando furono necessari 36 ballottaggi per scegliere tra Thomas Jefferson e Aaron Burr che avevano ricevuto lo stesso numero di voti; il rinvio alla Camera avvenne una seconda volta nel 1824 quando i candidati erano quattro e nessuno ottenne i 131 voti necessari per avere la maggioranza nel collegio elettorale: un accordo tra John Quincy Adams e Henry Clay permise al primo di essere eletto e al secondo di diventare segretario di stato.

Difficile, quindi, che mercoledì mattina sia chiaro chi sarà il presidente degli Stati Uniti per i prossimi quattro anni: è più probabile che un tourbillon di conteggi e ricorsi faccia restare il mondo con il fiato sospeso per alcuni giorni, o settimane, come accadde nelle elezioni del 2000 in Florida. E il risultato finale potrebbe non essere quello voluto dai cittadini

Commenta (0 Commenti)