Dopo 44mila palestinesi uccisi la Corte penale internazionale spicca i mandati d’arresto per i leader israeliani Netanyahu e Gallant e il capo militare di Hamas Deif. L’accusa: aver intenzionalmente affamato e sterminato Gaza. Ma i massacri continuano: altri 90 morti
Arrestateli La Corte penale emette mandati d’arresto per il premier israeliano, l’ex ministro della difesa Gallant e il capo delle al-Qassam Deif. Sui leader israeliani pesano le accuse di crimini di guerra e contro l'umanità: sterminio, fame, trattamenti disumani. Canada, Paesi bassi, Italia pronti a eseguire, Parigi e Londra oblique. Amnesty: «Momento storico»
All’Aja c’è una giudice, anzi ce ne sono tre. E, comunque vada, hanno fatto la storia: per la prima volta in 22 anni la Corte penale internazionale ha emesso mandati d’arresto per leader occidentali, parte di quel gruppo di paesi che si autodefiniscono democrazie liberali pure quando il più alto tribunale del pianeta – la Corte internazionale di Giustizia – dice che no, sei un regime di apartheid.
I due leader sono Benyamin Netanyahu, primo ministro di Israele, il più longevo di tutti, e Yoav Gallant, suo ex ministro della difesa con cui – pur avendolo malamente licenziato appena due settimane fa – condivide un sacco di cose: un’accusa di genocidio di fronte all’Aja e ora la «certificazione» di ricercati per crimini di guerra e contro l’umanità.
«Dì al mondo che qui non ci sono strutture, strumenti, non c’è niente con cui operare. Nessuno ascolta», gridava la notte precedente un soccorritore palestinese ad al Jazeera. Davanti aveva un corpo decapitato che non riusciva a tirare fuori dalle macerie a Sheikh Radwan, quartiere di Gaza City dove due notti fa l’aviazione israeliana ha spianato un edificio di cinque piani. Apparteneva alla famiglia Al-Arouqi, ospitava sfollati. Ventidue uccisi.
QUALCUNO ad ascoltare c’era. C’è voluto del tempo, troppo, molto più del solito: sei mesi dalla richiesta mossa dal procuratore capo Karim Khan di spiccare mandati d’arresto per Netanyahu, Gallant e i vertici di Hamas, Ismail Haniyeh, Yaya Sinwar e Mohammed Deif.
In mezzo c’è stato tanto: l’omicidio extragiudiziale di Haniyeh, fatto saltare in aria a Teheran a fine luglio; l’assassinio in battaglia di Sinwar, un mese fa; una mole di minacce dietro le quinte e di pressioni pubbliche sulla Corte da parte di mezzo Occidente; le memorie difensive di Stati alleati di Tel Aviv che mettevano in discussione la giurisdizione della Corte.
I giudici hanno risposto ieri, contestualmente all’emissione dei mandati d’arresto: il tribunale può agire perché ha giurisdizione sulla Palestina, aderente allo Statuto di Roma. Seppur secretati, la Corte ha reso pubblici i mandati, scrive, perché è «nell’interesse delle vittime e delle loro famiglie venirne a conoscenza». Quasi a dare sollievo, giustizia o almeno un’impressione.
Nella nota diffusa ieri in tarda mattinata la camera preliminare della Corte dice di ritenere Netanyahu e Gallant «co-responsabili» di «crimine di guerra della fame come metodo di guerra e crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti inumani» e di «attacchi intenzionali contro la popolazione civile» su base politica e nazionale: ci sono ragionevoli motivi per credere che Netanyahu e Gallant abbiano «intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicine e forniture mediche, oltre a carburante ed elettricità, almeno dall’8 ottobre 2023 al 20 maggio 2024».
I tre giudici citano il taglio dell’elettricità, dell’acqua e del gas e la scarsità di aiuti alimentari e medici in entrata, che hanno reso gli ospedali incapaci di salvare vite umane, costringendoli a operare e amputare arti senza anestetici, infliggendo una sofferenza disumana.
E poi il crimine di sterminio che ricorda il lessico utilizzato nella Convenzione contro il Genocidio per cui da gennaio è aperto un fascicolo alla Corte internazionale: ci sono «ragionevoli motivi per ritenere che la mancanza di cibo, acqua, elettricità e carburante e di forniture mediche abbia creato condizioni di vita dirette a condurre alla distruzione di una parte della popolazione civile di Gaza».
Deif, comandante delle Brigate al-Qassam a Gaza – che Israele dice di aver ucciso a luglio, ma che la Corte considera in vita in mancanza di prove certe – è invece ricercato per i crimini di guerra di omicidio per le uccisioni di massa del 7 ottobre 2023 (1.100 israeliani vittime) e di rapimento (250 ostaggi) e per il crimine contro l’umanità di sterminio.
ORA – 44MILA, di sicuro molti di più, palestinesi uccisi dopo – ai 124 paesi firmatari dello Statuto di Roma spetta di fare da braccia esecutive di una Corte che non ha una sua polizia: se Netanyahu, Gallant o Deif mettono piede nel loro territori sono tenuti ad arrestarli e consegnarli all’Aja.
È su questo che si sono concentrate ieri le reazioni internazionali, con dichiarazioni di intenti chiarissime
Leggi tutto: «Ora Netanyahu è ufficialmente un ricercato» - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Il primo ministro di Israele e l’ex ministro della Difesa accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
In particolare il crimine di guerra della fame come metodo di guerra; i crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti disumani contro i palestinesi di Gaza; infine, in almeno 2 occasioni avrebbero attaccato intenzionalmente civili palestinesi.
Il comunicato della Corte penale internazionale
Invado avanti Per Washington il cessate il fuoco è possibile solo parallelamente al rilascio degli ostaggi. Un attacco aereo israeliano ha ucciso 36 persone nella storica città siriana di Palmira
Il premier israeliano Netanyahu a Gaza – Maayan Toaf/GPO
Nessuna sorpresa alle Nazioni unite. Il presidente uscente Joe Biden ieri ha ordinato ai rappresentanti Usa all’Onu di bloccare con il veto la bozza di risoluzione presentata dai 10 membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu per ottenere «un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente» a Gaza, «il rilascio di tutti gli ostaggi» israeliani nella Striscia e «un ingresso sicuro e senza ostacoli di assistenza umanitaria su larga scala». Il veto americano ha reso inutili i voti a favore degli altri membri del CdS.
IL VICEAMBASCIATORE Usa all’Onu, Robert Wood, ha spiegato che la richiesta di rilascio dei circa 100 ostaggi contenuta nella risoluzione non è sufficiente perché la tregua e la liberazione dei sequestrati «sono due aspetti collegati in maniera inseparabile». In sostanza, per gli Usa dovranno concretizzarsi allo stesso tempo, altrimenti niente fine dell’offensiva israeliana che ha ucciso almeno 44mila palestinesi e distrutto Gaza. Soddisfatto l’ambasciatore di Tel Aviv all’Onu, Danny Danon, che aveva definito «vergognoso» il testo della risoluzione. Hamas da parte sua ha ribadito che non libererà gli ostaggi senza la tregua definitiva a Gaza.
Il voto all’Onu è avvenuto mentre si realizzava una nuova strage nella città storica di Palmira (Tadmur), nella Siria centrale. Un bombardamento aereo attribuito a Israele ha ucciso almeno 36 persone (circa 50 i feriti), secondo quanto riferito dall’agenzia statale Sana. A Palmira ricordano ancora il massacro del 2015 compiuto dall’Isis che uccise a sangue freddo 400 civili, tra cui donne e bambini, e, pochi mesi dopo, decapitò lo stimato archeologo Khaled al Asaad davanti alle antiche colonne romane. Ieri la nuova strage è avvenuta secondo fonti locali con tre attacchi aerei distinti nella regione di Palmira contro edifici che ospitano combattenti alleati di Damasco e dell’Iran. La Siria è il fronte di guerra non dichiarato dal governo Netanyahu. Per anni Israele ha colpito in Siria presunti obiettivi legati a Teheran, ora ha intensificato le incursioni aeree per fermare presunti rifornimenti di armi da Teheran e Baghdad al movimento sciita libanese Hezbollah, in transito per la Siria. Di recente è stata presa di mira la provincia di Homs, vicina al Libano. Damasco subisce e tace, con il fine evidente di non lasciarsi coinvolgere in maniera diretta nella guerra regionale che Israele conduce contro i suoi avversari su più fronti.
A GAZA intanto resta alto lo sdegno per il saccheggio sabato scorso, da parte di criminali, di 97 dei 109 camion di un convoglio di aiuti umanitari delle Nazioni unite. L’assalto avvenuto a breve distanza dalle postazioni israeliane al valico di Kerem Shalom. Il convoglio è stato intercettato da uomini armati che hanno costretto gli autisti ad abbandonare il carico e hanno ferito diversi operatori umanitari. I soldati israeliani non si sono mossi. Impossibile che non abbiamo visto quanto accadeva, peraltro i droni sorvolano in continuazione Gaza. Il saccheggio, dicono più parti, sarebbe la conseguenza del «crollo totale dell’ordine civile» causato dalla scomparsa delle strade della polizia civile, presa di mira dall’esercito israeliano. Netanyahu a inizio settimana ha ribadito che l’obiettivo dell’offensiva a Gaza non è solo quello di distruggere le capacità militari di Hamas ma anche quelle di governo.
INTANTO la carestia resta il pericolo più grave per due milioni di civili di Gaza. Ieri elicotteri giordani, autorizzati da Israele, hanno scaricato 7 tonnellate di generi di prima necessità nel sud della Striscia. L’aviazione di Israele invece su Gaza ha scaricato altre bombe che, secondo fonti giornalistiche locali, hanno ucciso almeno 28 persone. In Cisgiordania, nel villaggio di Kufr Dan (Jenin), un giovane palestinese è stato ucciso durante un raid dell’esercito.
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Il limite ignoto Per fermare l’avanzata delle truppe russe nel Donetsk il Pentagono invierà i pericolosi ordigni proibiti dalla Convenzione di Ottawa. Evacuate molte ambasciate nella capitale ucraina per timore di un raid massiccio
Militari ucraini sparano verso le posizioni russe vicino a Chasiv Yar – Ap
Dopo i missili a lungo raggio, le mine antiuomo. Le ultime settimane della presidenza Biden stanno diventando una miniera d’oro per l’Ucraina che, stando ad alcune indiscrezioni pubblicate dal Washington Post, riceverà a breve una grande fornitura di questi armamenti proibiti dalla Convenzione di Ottawa.
«La Russia sta attaccando le linee ucraine nell’est con ondate di truppe, a prescindere dalle perdite – scrive il Wp – Gli ucraini ovviamente subiscono molti danni e sempre più città e insediamenti rischiano di cadere. Queste mine sono fatte appositamente per contrastare tale tendenza». Gli ufficiali che hanno passato la soffiata al quotidiano statunitense hanno inoltre palesato la «forte preoccupazione per i recenti attacchi russi contro le linee ucraine». Non sapendo come arginare i progressi delle truppe di Mosca, il Pentagono avrebbe valutato che «la fornitura di mine sia tra le mosse più utili che gli Usa possano fare per contribuire a rallentare gli attacchi russi». La fonte del Post specifica che gli esplosivi sarebbero forniti per essere utilizzati solo in territorio ucraino, soprattutto nel Donetsk, e che gli ucraini si sono impegnati a non utilizzarle in aree densamente popolate. Inoltre, si tratterebbe di ordigni in grado di autodistruggersi o di diventare inattivi, «riducendo i rischi nel medio e nel lungo termine per i civili».
MA L’ESPERIENZA che abbiamo dei conflitti del Novecento in cui sono state utilizzate le mine antiuomo ci fa temere ben altri scenari. Non può essere un caso se tra tutte le armi utilizzate dagli eserciti del mondo la maggior parte degli stati abbia deciso nel 1997 di riunirsi per firmare un impegno vincolante per «la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e la loro distruzione». Tra i 133 paesi firmatari e i 164 aderenti al Trattato non figurano gli Usa, la Russia e la Cina, 3 membri su cinque del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
L’allarme sull’avanzata russa nel Donetsk si fa sempre più assillante per i sostenitori di Kiev, i quali temono che se una delle roccaforti del fronte dovesse cedere l’intero fronte potrebbe collassare. Dunque, non c’è convenzione o scadenza di mandato che tenga, per Biden l’intento è solo quello di «contribuire a una difesa più efficace» delle posizioni ucraine. Insieme alle mine Kiev riceverà a giorni un nuovo pacchetto di armi del valore di 275 milioni di dollari dagli Usa e un’altra fornitura molto ingente (che include munizioni e mezzi corazzati) dalla Germania.
IL CREMLINO ha accusato l’attuale amministrazione di Washington di «fare di tutto» per continuare la guerra nell’Est dell’Europa. Ma la giornata diplomatica a Mosca è stata segnata dall’apertura di Putin ai negoziati con la Casa bianca. Non con quella attuale, ovviamente. Il portavoce del presidente, Dmitry Peskov, ha dichiarato all’agenzia Tass di essere pronto al dialogo con la sua futura omologa statunitense, Karoline Leavitt, appena nominata da Trump. La notizia arriva dopo che in mattinata l’agenzia Reuters aveva scritto «il presidente russo è aperto a discutere con Trump un accordo per il cessate il fuoco in Ucraina, ma esclude di fare concessioni territoriali importanti e insiste che Kiev abbandoni le ambizioni di entrare nella Nato». Dal Cremlino non hanno commentato, ma Peskov ha chiarito che i russi non prenderanno in considerazione «nessuno scenario di congelamento del conflitto».
INTANTO LA GUERRA sul campo continua. Ieri Kiev ha fatto sapere di aver utilizzato i missili a lungo raggio britannici, gli Storm Shadow, contro obiettivi all’interno del territorio russo. Sui social media russi sono apparse alcune foto di frammenti di missile con la scritta in inglese ben visibile.
Nella capitale ucraina invece è stata una giornata di grande apprensione. Al mattino presto l’intelligence Usa aveva avvertito l’ambasciata a Kiev di un possibile «attacco aereo massiccio» in risposta ai raid ucraini del giorno precedente. Gli uffici dell’ambasciata hanno chiuso e il personale è stato evacuato con tanto di messaggio pubblico di avvertimento. Poco dopo l’ambasciata italiana, quella greca e quella spagnola (tra le altre) hanno preso la stessa decisione. Nel primo pomeriggio, tuttavia, l’allarme è rientrato. Molto critica l’Ucraina che ha invitato gli occidentali a non «alimentare le tensioni» e a non cadere negli «attacchi psicologici del nemico».
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Urbanistica I Verdi: «Questa norma, che interviene anche su procedimenti penali in corso, condanna anche il resto d’Italia a imponenti speculazioni immobiliari»
Il via libera al «salva Milano» blinda l’urbanistica milanese messa sotto indagine dalla procura e spacca il centrosinistra. Martedì sera in commissione Ambiente alla Camera hanno votato a favore della norma la maggioranza di destra, il Pd e Azione; voto contrario per Avs e 5S che parlano rispettivamente di «sanatoria che apre la strada alla speculazione edilizia» e «maxi inciucio destra-Pd». Questa mattina la proposta di legge sarà discussa e votata dalla Camera per poi passare al Senato.
Di «salva Milano» si era iniziato a parlare ad aprile, dopo che la procura aveva avviato una serie di indagini su alcuni dei nuovi palazzi dello skyline meneghino, tutti autorizzati dagli uffici comunali come ristrutturazioni degli edifici precedenti anche se di fatto si trattava di nuove costruzioni che salivano oltre i 25 metri d’altezza. Il metodo era quello della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) che prevede una procedura semplificata con minori costi a carico dei costruttori e conseguentemente minori introiti da parte del comune.
Una modalità che si stima abbia attratto su Milano il 45% degli investimenti immobiliari nazionali degli ultimi anni: un’isola felice per i costruttori, un sistema illecito per i pm. Indaga anche la Corte dei Conti per presunto danno erariale: il comune con questo metodo avrebbe incassato dai costruttori meno di quanto potuto. In un caso, quello delle Park Towers, i magistrati contabili hanno quantificato in 321 mila euro i minori introiti del comune, colpevole di aver applicato uno sconto sugli oneri di urbanizzazione pagati dai costruttori del 60%.
Sotto indagine sono finiti professionisti e funzionari comunali, ma non vengono contestate tangenti. I dipendenti comunali dell’ufficio urbanistica almeno dal 2013, con l’entrata in vigore del decreto Fare, hanno lavorato con queste modalità semplificate che il sindaco Sala e l’assessore all’Urbanistica Tancredi rivendicano come corrette, volute per velocizzare le ristrutturazioni del vasto patrimonio ex industriale o dismesso. Dal capannone di un piano si è così passati alla torre da 20, ma senza piani attuativi di zona che prevedono un iter più lungo, un confronto con il territorio e una rimodulazione dei servizi perimetrati sul più alto numero di abitanti.
Le indagini sono nate da esposti presentati dai cittadini che si sono visti costruire grattacieli davanti alla finestra, oppure nuove costruzioni a ridosso dei parchi. Secondo la procura, per costruirle era necessario passare da un piano attuativo di zona. Proprio il giorno del voto del «salva Milano» in commissione, il tribunale del Riesame si è espresso sul ricorso presentato dai costruttori di uno dei cantieri finiti sotto sequestro, le residenze Lac a ridosso del parco delle Cave: «L’intervento edilizio è da considerarsi di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia con rilevante impatto sul quartiere». I nuovi abitanti stimati in poco più di 200, per i giudici era necessario «un piano attuativo» di zona.
Il testo uscito dalla commissione Ambiente è una «interpretazione autentica della legge» cioè il legislatore, davanti a norme considerate controverse, ribadisce qual è l’interpretazione corretta. In questo caso, come chiedevano il sindaco Sala e il Pd, dà ragione al metodo Milano. «Una sanatoria con profili di illegittimità costituzionale che interviene su procedimenti penali in corso – ha commentato da Avs Bonelli, che ha votato no -. Ciò che è stato fatto a Milano potrebbe essere replicato nel resto d’Italia. Con una semplice Scia sarà possibile costruire grattacieli accorpando volumi di capannoni, rimesse e altre strutture, alterando gli standard urbanistici. Con diminuzione degli introiti da opere di urbanizzazione. Questa norma condanna il resto d’Italia a imponenti speculazioni immobiliari». Voto contrario anche da 5S: «Una sanatoria indegna. Un inciucione Pd-destra in barba ai carichi urbanistici» ha commentato il vicecapogruppo alla Camera Santillo.
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Balla fino all’ultimo la nomina del meloniano Fitto a vicepresidente della Commissione Ue. È il Pd che spinge i socialisti ad accettarlo. Ma le manovre dei Popolari contro la spagnola Ribera tengono tutti in ostaggio. La nuova maggioranza europea, con la destra, è già all’opera
Passaggio a destra Firmata l’intesa tra Ppe, socialisti e liberali sui commissari. Ma i popolari spagnoli ricattano la spagnola Ribera e tutto si complica
Foto di gruppo dei nuovi commissari europei Ap – foto Laurie Dieffembacq
Sulla strada dell’accordo per il via libera ai vicepresidenti della Commissione Ue si sono messi di traverso i popolari spagnoli. Era fondamentale per loro che nella lettera di valutazione della commissaria spagnola designata, la socialista Teresa Ribera, fosse inserita una nota: dimissioni in caso di incriminazione per le responsabilità nell’alluvione di Valencia. Una richiesta irricevibile per i socialisti europei anche per il fondato timore di politicizzazione di un eventuale caso giudiziario sollevato in Spagna. Durante le trattative (ancora in corso a sera inoltrata, mentre finiamo di scrivere questo articolo) i socialisti hanno rifiutato ogni riferimento a eventuali dimissioni. Arrivando a ipotizzare lo stop al commissario meloniano Raffaele Fitto, Ecr ma appoggiato con forza dal Ppe.
Fino a poco prima, la matassa dell’accordo sulla Commissione sembrava essersi sbrogliata attraverso l’intesa tra i capigruppo di maggioranza (Weber per Ppe, Garcia Perez per S&D, Hayer per Renew). A cascata era arrivato il via libera per i 6 vicepresidenti: Fitto e Ribera passano entrambi, l’ungherese Varhelyi pure, ma senza le competenze sui diritti riproduttivi e la gestione delle crisi sanitarie (leggi: vaccini).
AL VOTO sui vicepresidenti si era arrivati in modo a dir poco affannoso. Perché l’accordo di maggioranza negoziato tra i leader e passato al vaglio dei gruppi politici fosse confermato, si dovevano riunire le commissioni parlamentari e votare a maggioranza dei due terzi, un voto espresso dai soli coordinatori (uno per ciascuno degli otto gruppi parlamentari). Eppure, le riunioni, tenute in simultanea a partire dalle 19 di ieri, hanno riprodotto lo «stallo alla messicana» già
Leggi tutto: Europa, l’accordo c’è ma è appeso a un filo - di Andrea Valdambrini BRUXELLES
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