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LA GUERRA UCRAÌNA. Il ministro degli esteri russo con le parole «inopportune», ha dato un calcio negli stinchi a un Paese amico, Israele, che non aveva approvato le sanzioni né l’invio di armi

Il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov

C’era una volta la Russia… Questa è la triste impressione sentendo le parole di Serghei Lavrov, ministro degli esteri della Russia per 18 anni (dal 2004). La traduzione letterale della slavista Olga Strada dell’intervista a Retequattro – canale di proprietà di Berlusconi, amico di lunga data di Putin – è questa: «Posso sbagliarmi ma anche Hitler aveva sangue ebraico. Questo non significa assolutamente nulla. Il saggio popolo ebraico dice che gli antisemiti più accesi di regola sono ebrei». E Lavrov ha pure aggiunto: «Ogni famiglia ha la sua pecora nera».

Niente di più falsamente tragico e sbagliato poteva uscire da questa disgraziata intervista di Lavrov. «Ecco un esempio che ben dimostra come avviene il degrado del sistema», scrive su Instagram Ksenya Sobchak, figlia dell’ex sindaco di San Pietroburgo, amico di Putin. Il ministro degli Esteri era un tempo un diplomatico brillante, un uomo di grande cultura, un erudito. «Ma con il tempo tutto ciò – sottolinea Ksenya – si è rivelato per il sistema come un ammasso di qualità inutili. Quello che non serve sparisce. Mentre la qualità di «buttare lì» una frasetta è il nuovo standard delle relazioni diplomatiche».

Per fortuna il manifesto il suo saggio cronista ce l’ha in casa –  Michele Giorgio – che il 3 maggio ha spiegato benissimo il disastro diplomatico

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Carlassare, “Incostituzionale l’invio di armamenti e italiani non favorevoli a intervento”

Lorenza Carlassare, professoressa emerita di Diritto costituzionale a Padova, risponde al telefono con una certezza a fare da premessa: “La Costituzione italiana è pacifista”. E poi: “La retorica bellicista, a giornali e reti unificati, è insopportabile. Quando non si parla della guerra ‘santa’, c’è il telefilm che santifica Zelensky”.
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Partiamo dall’artico lo 11, così bistrattato in queste settimane.
L’Italia ripudia la guerra: il verbo’ ripudia’, che nella prima bozza era ‘rinuncia’, è stato voluto dai Costituenti perché esprime un rifiuto assoluto della guerra, anche con un valore morale, non solo politico. C’è stata, nella votazione, quasi l’unanimità.
L’ispirazione pacifista della Costituzione dunque è nettissima, anche per come è formulata la seconda parte dell’art. 11 quando afferma che l’Italia ‘consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia frale nazioni’. In definitiva: la guerra difensiva è l’unica consentita, le controversie internazionali vanno risolte per via negoziale, una via in questo momento completamente assente; non esistono ragioni diverse dalla necessità di rispondere a un attacco armato sul proprio territorio che possano legittimare la guerra.
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A proposito dell’aumento delle spese militari, cosa pensa?
Che in Italia ci sono 5 milioni e mezzo di famiglie in povertà assoluta. E che prima di spendere soldi in armi dovremmo assicurarci di non venire meno agli obblighi di solidarietà sociale che impone la Costituzione.
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La vendita di armi a un Paese in guerra è consentita?
Assolutamente no. In passato, i giuristi “giustificazionisti” hanno tentato di salvare la partecipazione ai vari interventi armati travestiti da missioni di pace (per non dire della guerra nei Balcani, in cui siamo intervenuti direttamente) come adempimento di obblighi derivanti dalla adesione a “organizzazioni internazionali” con le “limitazioni” conseguenti, usando la seconda parte dell’articolo 11 contro la prima.
Ma non ci sono due parti divise: l’articolo 11 è una disposizione unitaria, che va letta nella sua unità. Aggiungo che i trattati sono subordinati all’articolo 11, non viceversa. La Corte costituzionale (sentenza 300/1984) ha chiarito che le “finalità” cui sono subordinate le limitazioni di sovranità sono quelle stabilite nell’articolo11, non le finalità proprie di un trattato che, anzi, “quando porta limitazioni alla sovranità, non può ricevere esecuzione nel paese se non corrisponde alle condizioni e alle finalità dettate dall’articolo 11″. Il discorso è importante anche perché il ripudio della guerra non vieta solo la partecipazione a conflitti armati, ma pure l’aiuto ai paesi in guerra: il commercio di armi con tali paesi è illegittimo. Ora tra l’altro non si tratta nemmeno più di armi per difendersi, ma armi, come ha detto Boris Johnson, “anche per colpire in territorio russo”.
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Il Parlamento ha convertito due decreti Ucraina e approvato una risoluzione che autorizza l’invio di armamenti in Ucraina con un decreto interministeriale fino al 31 dicembre, senza nuovi passaggi in aula. La partecipazione alla guerra non è materia di stretta competenza parlamentare?
Certamente. Ora, dopo la riunione di Ramstein, si parla di un salto di qualità degli armamenti da inviare in Ucraina.
La lista delle armi non è pubblica per ragioni di sicurezza, ma non ci sarà nemmeno una discussione sulle scelte del governo, sull’opportunità di partecipare all’escalation bellica. Gli italiani non sono favorevoli a una partecipazione dell’Italia alla guerra, e questo ce lo dicono i sondaggi. Non solo la posizione pacifista e costituzionale non ha spazio nel dibattito pubblico, ma il popolo non può nemmeno esprimersi attraverso i suoi rappresentanti. L’opacità delle scelte su un tema così importante è preoccupante, perché non è trasparente la linea del governo. In questa fase rispetto alle decisioni non è irrilevante nemmeno l’interesse dell’industria bellica, che fa soldi e trionfa in Borsa vendendo morte.

Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2022

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IL RAPPORTO SIPRI. Altro che tregua. Le spese militari rappresentano ormai il 6% del Pil pubblico mondiale. Usa (800 miliardi) e Cina (300 miliardi) rappresentano da soli la metà degli acquisti di armamenti. Italia (32 miliardi) undicesima
Oltre 2mila miliardi investiti nel mondo per gli eserciti
 

Cioè di quanto i governi di tutto il mondo stanziano per armi ed eserciti, che secondo il Sipri di Stoccolma si è attestato lo scorso anno a ben 2.113 miliardi di dollari totali. Una crescita dello 0,7% pur in periodo di piena pandemia che conferma il rafforzamento già in corso dal 2016.

In media gli Stati hanno allocato quasi il 6% dei propri budget pubblici per le attività e strutture militari, con aumenti registrati in Asia, Oceania, Europa ed Africa e diminuzioni sia in Medio Oriente che nelle Americhe.

Ai vertici i “soliti noti”: primi gli Stati Uniti che, nonostante una leggera flessione in termini reali, hanno superato gli 800 miliardi di dollari (38% mondiale) seguiti dalla Cina che sfiora i 300 miliardi (14% sul globale); le due vere superpotenze globali superano dunque la metà del totale.

A una certa distanza troviamo India (76,6 miliardi), Regno Unito (68,4 miliardi) e Russia (65,9 miliardi) con la “Top 5” che raggiunge il 62% complessivo.

Nelle successive cinque posizioni FranciaGermaniaArabia SauditaGiappone e Corea del Sud: i primi dieci Paesi da soli sono responsabili dei tre quarti della spesa militare mondiale.

L’Italia si colloca all’undicesimo posto con 32 miliardi di dollari, ma sappiamo già dalle stime previsionali per il 2022 dell’Osservatorio Mil€x che la crescita sarà ulteriore anche nell’anno in corso.

Se consideriamo i primi quindici paesi della classifica (dopo di noi Australia, Canada, Iran e Israele) raggiungiamo una quota dell’81% che conferma come siano pochi gli Stati con una potenza militare di un certo rilievo.

Anche nel 2021 la Nato ha speso per armi ed eserciti oltre diciassette volte e mezzo quanto messo a bilancio dalla Russia (che pure ha registrato il terzo aumento annuale di fila) mentre i 27 paesi dell’Unione europea spendono tre volte e mezzo il regime di Putin.

Per il futuro, visti gli annunci delle ultime settimane, lo stesso Sipri prevede aumenti ancora più consistenti che si concentreranno soprattutto in fondi per nuove armi: di norma circa un quarto della spesa militare finisce nelle tasche del complesso militare-industriale, che già nel 2020 aveva registrato un fatturato di quasi 550 miliardi di dollari.

Di fronte a tali scelte non certamente in grado di garantire maggiore sicurezza, men che meno Pace, alla comunità internazionale (altrimenti con gli aumenti registrati non dovrebbero esistere i sanguinosi conflitti presenti in ogni continente) è praticamente solo la voce della società civile a contestare ciò che papa Francesco ha definito ancora una volta una «pazzia» di cui vergognarsi e che «arricchisce solo i colossi delle armi» .

La Campagna Globale sulle spese Militari (Gcoms) in occasione delle sue giornate di azione internazionali ha diffuso una presa di posizione che sottolinea come «i Paesi che cercano di superarsi l’un l’altro comprando armi di tutte le dimensioni non stanno seguendo una corretta strategia di difesa e sicurezza. Non ha funzionato in passato e non funzionerà mai» ricordando inoltre che «la dipendenza globale dalla militarizzazione distrugge la fiducia tra popolazioni e mina gli sforzi di cooperazione tra i Paesi». La richiesta ai Governi è di «ridurre le spese militari impegnando i fondi per una sicurezza comune e umana, investendo nei veri bisogni delle persone e del pianeta al fine di costruire una pace giusta e sostenibile. Per darle una possibilità, dobbiamo dare fondi alla pace».

In Italia la Campagna internazionale è rilanciata da Sbilanciamoci e Rete Italiana Pace e Disarmo che, ricordando i sondaggi che evidenziano come la maggioranza degli italiani sia contraria all’aumento delle spese militari voluto dalla gran parte della politica, chiedono invece di spostare risorse da armi ed eserciti verso investimenti sociali e strumenti di pace.

Puntando in particolare su quattro richieste specifiche:

  1. moratoria di almeno un anno sull’acquisto di sistemi d’arma (nel 2022 previsti circa 8,2 miliardi complessivi per l’acquisizione di nuovi aerei, navi, blindati, sottomarini, droni, missili, munizionamento);
  2. spostamento delle risorse risparmiate su welfare, scuola, sanità e su maggiori iniziative umanitarie e di cooperazione a favore della popolazione ucraina e di tutti i civili coinvolti in conflitti;
  3. costituzione e pieno finanziamento del Dipartimento della Difesa Civile non armata e Nonviolenta proposto dalla campagna «Un’altra difesa è possibile»;
  4. completamento del progetto sperimentale dei Corpi Civili di Pace. Strade e percorsi concreti che potrebbero davvero portare più Pace nel mondo.

L’autore è Coordinatore Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo

 

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LO SPETTRO UCRAÌNO. L’escalation ormai non è solo nelle parole ma nei fatti e gli eventi purtroppo fanno pensare che sia da escludere la via diplomatica, almeno in tempi brevi

 

Lituania, 22 Aprile, Rukla: soldati tedeschi della task force Nato "Enhanced Forward Presence" davanti a un carro armato Wiesel durante una visita del ministro degli Esteri Baerboc - Ap

Lo spettro di uno scontro diretto tra Nato e Russia si fa sempre più consistente: la guerra per procura degli ucraini contro l’invasione di Mosca tra un po’ potrebbe essere combattuta senza la finzione del braccio legato dietro la schiena. L’escalation è nelle parole e nei fatti: gli eventi fanno pensare che sia da escludere la via diplomatica, almeno in tempi brevi.

Mentre la Nato a Ramstein decideva ieri l’invio di nuove armi pesanti (tra cui quelle tedesche) il ministro delle forze armate britanniche, James Heappey, spiegava che gli alleati forniscono all’Ucraina armi con gittate che permettono a Kiev di colpire in territorio russo e che la Gran Bretagna considera «perfettamente legittime eventuali azioni ucraine in Russia “per “prendere di mira in profondità le linee di rifornimento». Quasi una dichiarazione di guerra: armiamo gli ucraini per colpirvi in casa, ha detto sostanzialmente Heappey.

La replica di Mosca è stata immediata: Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri russo ha risposto su Facebook che la Russia, con la stessa logica, potrebbe ritenere altrettanto legittimo colpire «in profondità le linee di rifornimento ucraino nei Paesi che trasferiscono armi a Kiev». Il rischio di un allargamento del fronte di guerra è

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Era il 26 aprile 1986 quando il reattore numero quattro di Chernobyl esplose. Fu una catastrofe, il più grave incidente nucleare della storia. Una ferita non rimarginata, dopo 36 anni, anche se il territorio non appare più come un deserto post apocalittico, perché è sede di una riserva naturale creata per isolare i resti della struttura. Ma l’isolamento è stato rotto nientemeno che dalla guerra: sono entrati i soldati russi e i mezzi corazzati di entrambi i contendenti,  evocando lo spettro di un conflitto in cui la radioattività avrebbe spalancato scenari da incubo.

chernobyl centrale incidente

Sono 15 i reattori nucleari situati in Ucraina e rappresentano un elemento di ulteriore preoccupazione nell’infuriare dei combattimenti.

L’AIEA, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, aveva lanciato l'allarme: "Abbiamo perso i contatti con la centrale nucleare di Chernobyl". (https://it.notizie.yahoo.com/ucraina-aiea-informati-da-kiev-053005826.html) ma gli operatori della centrale hanno scollegato l'impianto nucleare dalla rete, tamponando il possibile rilascio di sostanze radioattive nell'aria.

Gli scenari, comunque, non sono confortanti. Secondo l'operatore nucleare ucraino lo stop all'energia impedirebbe "potenzialmente il raffreddamento del combustibile nucleare esaurito sepolto sotto una coltre di metallo e cemento. Purtroppo, Chernobyl o Fukushima o Zaporizhzhia (la più grande centrale nucleare  d’Europa, anch’essa teatro di guerra) ci ricordano che il nucleare è per sempre, in contrasto con una narrazione che è ripresa nella crisi in corso e che vorrebbe convincerci che l’atomo potrebbe essere la soluzione dei problemi energetici. L’orrore della guerra in Europa richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari sono possibili obiettivi di missili e bombe).  La relazione tra la densità energetica e il tempo entro cui la natura e la vita possono disperdere gli effetti deleteri di una trasformazione prodotta artificialmente dall’uomo, fa rifletter come, su tempi storici, la fissione e la fusione di nuclei atomici, pur in uno spazio ristretto, corrispondano alla combustione istantanea di decine di migliaia di tonnellate di carbone o alla caduta da grandi altezze di enormi masse d’acqua: una prospettiva che, messa sotto questi termini di paragone, metterebbe in discussione la responsabilità della presenza umana sulla Terra e raggirerebbe la presunta progressività della sua storia e dell’incivilimento.

Non è un caso che tutti gli incidenti nucleari vengano nascosti. Cosa è successo davvero a Three Mile Island, cosa sta succedendo oggi a Fukushima, quanta radioattività viene riversato in mare? Questa discordanza sugli effetti è tipica di una tecnologia che non può che creare imbarazzo in una società fraterna e tanto meno in una società che non ripudia la guerra e, quindi è esposta a rischi catastrofici imprevedibili.

Si racconta del ritorno degli animali a Chernobyl nella foresta. Ma, come dice  l'ingegnere nucleare Alex Sorokin al Fatto online: (v. https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/17/un-esempio-di-resilienza-della-natura-lonu-festeggia-il-ritorno-degli-animali-a-chernobyl-ma-gli-esperti-radiazioni-ancora-gravi/5954218/ ) "Attenzione agli effetti delle radiazioni nel tempo. Un’esposizione prolungata provoca una probabilità di ammalarsi di cancro inaccettabile per gli esseri umani, mentre gli animali sono "inconsapevoli dei rischi che corrono". In effetti, gli effetti delle radiazioni su organismi viventi si accumulano nel tempo, quindi “un’esposizione prolungata alle radiazioni presenti oggi nell’area provoca una probabilità di ammalarsi di cancro inaccettabile per gli esseri umani”. Anche dopo 36 anni le radiazioni continuano a preoccupare perché rimangono attivi i radionuclidi a decadimento lento, che durano migliaia di anni e non vanno a zero.

II fatto è che il reattore tre (diviso solo da una parete, speriamo robusta, dal reattore quattro, quello esploso) continua a funzionare con frequenti arresti; mentre i responsabili politici dell’Ucraina assicurano di non poterne fare a meno.

In caso di incidente con fusione del reattore, le stesse reazioni di fissione dell’uranio, che producono molta energia e radiazioni, possono continuare, nonostante la distruzione dell’impianto. Coprire il reattore di cemento, sabbia e boro, in modo che smettesse di sputare fumo radioattivo, richiese poi settimane di lavoro e il sacrifico della vita di decine di operai, tecnici e vigili del fuoco, mentre migliaia di persone fra Russia e Portogallo, nei decenni successivi, si ammalarono e talvolta morirono per patologie, come tumori alla tiroide e leucemie, connesse all’esposizione agli isotopi radioattivi rilasciati dal reattore sovietico. Ma il disastro non è certo finito ricoprendolo di un cumulo di materiale assorbente.

Il “sarcofago” frettolosamente costruito ha ben presto cominciato a mostrare segni di cedimento, e così, nel 2016, è stato coperto da un gigantesco capannone metallico, che, oltre a contenere eventuali rilasci di radiazione, permetterà di tentare, fra decenni, l’estrazione e messa in sicurezza del “corium”, l’estremamente radioattiva miscela di uranio, acciaio, cemento e grafite, fusa dal calore e infiltratasi nei locali al disotto del reattore.

Il fatto che si stiano verificando ancora reazioni di fissione nel reattore distrutto, le stesse che hanno portato alla sua esplosione, stupisce e preoccupa.

I ricercatori non hanno idea di cosa stia facendo ripartire le reazioni di fissione, ma se ciò fosse legato all’asciugarsi della massa fusa, temono che possano intensificarsi sempre di più, e, visto che nella stanza da cui provengono i neutroni stavolta non si può entrare, la reazione non si potrà bloccare. Ripeto: i tempi biologici sono incomparabili con i tempi di esaurimento dei processi radioattivi.

Sempre a proposito di raeattori nucleari A Zaporizhzhia (Ucraina) sono in attività sei reattori russi VVER-1000/320 (unità 1-6) nel sito, ciascuno con una capacità di generare 950 MWe. Nel 2017 c'erano 2.204 tonnellate di combustibile esaurito in deposito presso il sito: 855 tonnellate all'interno delle piscine di combustibile esaurito e 1.349 tonnellate nel vessel (https://www.iaea.org/sites/default/files /national_report_of_ukraine_for_the_6th_review_meeting_-_english .pdf ). Se si pensa che attorno a questa enorme potenza si sono svolte battaglie molto cruente e che ci sono stati molteplici problemi di sicurezza nel corso dei decenni con i reattori di Zaporizhzhia progettati e costruiti negli anni '70 e '90, l’incidente storico di Chernobyl appare solo un inquietante ammonimento.

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Rino Gennari – Domenico Sportelli

Chi sostiene che la resistenza degli ucraini contro l’invasione da parte della Russia autocratica, non è confrontabile con quella italiana della seconda guerra mondiale, che non sono la stessa cosa, è accusato di non riconoscere il carattere resistenziale della lotta degli ucraini. E’ un artificio noto, usato da chi si vuole creare un avversario di comodo. E’ un falso, confezionato a fini strumentali.

Nessun osservatore serio nega che in Ucraina sia in atto una resistenza contro l’invasore. 

Premetto che non sono uno storico, ma ho vissuto, ascoltato e letto.

Procedo sul filo della memoria, senza tornare a consultare i testi. Coloro che mi hanno raccontato non ci sono più.

Ho vissuto la seconda guerra mondiale, dagli otto ai tredici anni, e poi i primi anni del dopoguerra. Ho visto le distruzioni, le carni straziate, i morti. Ho subito la perdita di amici e di parenti stretti. Ho ascoltato i partigiani nel corso degli anni.

Dalla caduta di Mussolini nel luglio 1943, ho visto crescere la resistenza, divenuta a quel punto armata. I colpi inferti e subiti, questi ultimi a volte crudeli e insultanti.

Ho ascoltato, anche dopo la fine della guerra, quali erano gli obiettivi e le aspirazioni della resistenza, oltre a quello della cacciata dell’invasore e della definitiva sconfitta del fascismo.

Negli anni seguenti ho letto. So che all’ascolto e alla lettura, non segue automaticamente la comprensione, ma ne costituiscono tuttavia la premessa necessaria. Se ho maturato comprensione, altri giudicheranno.

Segue in sintesi quello che ho capito.

Gli uomini e le donne della nostra resistenza hanno lottato con l’obiettivo di fondo, che unificava tutti, della cacciata dell’invasore nazista e della sconfitta del fascismo, come sopra già detto. Per il dopo erano unificati dall’obiettivo della conquista di un assetto democratico, più avanzato rispetto all’imbelle democrazia che non seppe opporsi alla nascita del fascismo ed evitare la sua vittoria. Sulle caratteristiche della nuova democrazia, le varie componenti della resistenza avevano posizioni diverse, che però fino alla vittoria furono saggiamente accantonate. Queste avrebbero poi trovato una composizione col referendum del 1946 e con la Costituzione. Nonostante ciò, le divergenze si sarebbero poi trascinate anche dopo, soprattutto con l’avvio della guerra fredda. Su questo non mi dilungo.

C’erano i monarchici, che ovviamente puntavano a mantenere la monarchia. I cattolici, divisi tra moderati e progressisti. Gli azionisti e i repubblicani, per una democrazia social-liberale. I socialisti e i comunisti, legati da un patto di unità d’azione, per una democrazia progressiva. All’interno della parte comunista, c’era chi guardava al sistema sovietico, vagheggiando una sorta di socialismo, che prima  o poi sarebbe venuto, si sperava meglio prima che poi. Di questo conservo un limpido ricordo. Dalle nostre parti si sosteneva che il terreno agricolo che i grandi possidenti erano disposti a svendere, non si doveva comprare, perché sarebbe venuta gratis col socialismo. Era una interpretazione a livello popolare della linea che prevedeva un riforma agraria la quale, secondo il sindacalismo e il PCI ravennati, avrebbe dovuto consentire l’esproprio del terreno agricolo dei grandi possidenti. Ciò non si realizzò, e nel giro di pochi anni ci fu la svolta a favore dell’acquisto. Si vedano anche gli avvenimenti succeduti all’attentato a Togliatti nel 1948, ai quali Togliatti stesso, dal letto d’ospedale, saggiamente pose fine. Col tempo, questa deviazione fu poi definitivamente superata.

Quindi, la nostra resistenza armata è stata guerra di liberazione, guerra civile tra italiani fascisti e antifascisti e guerra di “classe”, tra componenti “rivoluzionarie” e classe padronale. Su questo, fondamentale è stato il contributo di Claudio Pavone, con il suo saggio del 1991.

Queste cose le sa parte dei pochi lettori di questa nota, ma è bene richiamarle, volendo fare un confronto tra la nostra resistenza e quella ucraina. Ovviamente non metto in discussione anche la legittimità di quest’ultima.

Vediamo cosa si nota dal confronto.

Il solo obiettivo che parifica tra loro la resistenza ucraina e quella italiana, è la lotta contro l’invasore. Questa lotta però è stata combattuta dalla resistenza italiana in condizione di clandestinità, diversamente da quella attuale ucraina.

E’ vero che anche in Ucraina, da almeno otto anni , è in corso una guerra civile, ma è una lotta tra etnie, mentre in Italia è stata una lotta tra democratici e fascisti. Quindi, guerre civili molto diverse tra loro.

Abbiamo visto che in Italia è stata anche una lotta per conquistare la democrazia, invece gli ucraini difendono la loro democrazia, la quale è caratterizzata in modo fortemente oligarchico. 

Per quanto riguarda la lotta di classe, in Ucraina non esiste.

Quindi, parificare le due resistenze, certo ambedue legittime, ripeto, è un falso storico strumentale.

C’è un altro punto da sottolineare. 

La resistenza italiana, cominciata coi deboli oppositori al fascismo dei primi anni, è passata attraverso il periodo del massimo consenso popolare a Mussolini a metà degli anni trenta, per poi svilupparsi rapidamente dall’inizio della seconda guerra mondiale, fino a diventare di massa.

E’ però diventata resistenza armata solo quando si sono determinate le condizioni favorevoli: le potenze antinaziste stavano vincendo la guerra e la resistenza in armi non rischiava il massacro. Scelta saggia. Invece la resistenza degli ucraini, ripeto, del tutto legittima, se portata all’estremo, non appare saggia, perché in tal caso, o andrà al massacro o sarà l’innesco dell’ultima guerra mondiale.

Aggiungo un’osservazione su un dato: in Italia, i nazifascisti stavano da un sola parte, mentre in questa guerra stanno tra gli ucraini e tra i russi, forse più tra i primi. Gli uni contro gli altri. 

A parte tutto questo, ora devono tacere le armi, si deve trattare e fare una pace sulla base delle giuste ragioni, ove esistano, degli ucraini e dei russi.

Rino Gennari

21 aprile 2022

 

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