GUERRA. Non riuscendo a vincere con i mezzi e gli uomini finora messi in campo le truppe di Putin fanno terra bruciata, ovvero alzano i costi già immani di una futura ricostruzione umana, morale e materiale.
È ora di prenderci sul serio. Nel 2003 Usa e Gran Bretagna attaccarono Saddam Hussein spergiurando che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa che non furono mai trovate. Ora l’Occidente le ha trovate dove si sapeva che già c’erano.
Putin messo all’angolo fa paura: ma dove pensano di vivere in Europa? In un mondo di frutta candita dove a morire sono sempre gli altri e noi facciamo le guerre, direttamente o per procura, che per altro dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria alla Libia, non vinciamo mai?
L’unica cosa certa è che Putin non è Saddam, allora alla guida di un Paese militarmente ed economicamente già inginocchio dopo anni di sanzioni: il leader del Cremlino, sia pure messo male al punto di ordinare una mobilitazione parziale, vuole essere preso sul serio, sia fuori che dentro, anzi forse ancora di più all’interno di una Russia dove più che le contestazioni di piazza potrebbero fare notizia eventuali sinistri scricchiolii nei palazzi del potere. Putin deve serrare le file e prevenire le critiche degli ultranazionalisti che lo accusano di essere troppo «morbido». Così si agita lo spauracchio nucleare agitato ieri pesantemente da Medvedev, e – magari un’arma tattica o un dramma del genere di Chernobyl – visto che non basta la scia di massacri che in Ucraina si lasciano indietro i russi. Non riuscendo a vincere con i mezzi e gli uomini finora messi in campo le truppe di Putin fanno terra bruciata, ovvero alzano i costi già immani di una futura ricostruzione umana, morale e materiale.
La verità è che siamo di fronte alla tragedia di un uomo solo al comando e non sappiamo se questo è l’atto finale o l’inizio di un altro dramma. Stranamente adesso nessuno o quasi ricorda come è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Mesi di nobilitazione militare ai confini dell’Ucraina dalla primavera del 2021 sono passati con la maggior parte degli osservatori che non credevano a un’entrata in guerra di Mosca: soltanto nell’ultimo periodo gli Usa avevano lanciato l’allarme, sostenuto non solo dai rilievi satellitari ma forse anche da qualche fonte interna bene informata che già sapeva o temeva l’azzardo cui andava incontro la Russia.
Nessuno o quasi per altro ricorda neppure come è cominciata la guerra. Tre giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, il 21 febbraio, Putin riunisce in diretta il consiglio di sicurezza (il cui vice è Medvedev): i dignitari del regime vengono chiamati come scolaretti sul palco uno a uno per approvare con convinzione il riconoscimento da parte di Mosca delle due repubbliche del Donbass. Solo uno balbetta, il capo dei servizi esterni Naryshkin che forse equivocando ad arte parla di «annessione» di Donesk e Lughansk prontamente corretto dal capo che lo rimprovera aspramente. Oggi Putin ha dovuto cambiare politica lanciando l’annessione e i referendum farsa nelle regioni ucraine occupate. Ma quanti errori di calcolo ha fatto quest’uomo che spiegava al mondo che i soldati russi e ucraini sono «fratelli d’armi e mai sarebbe stati su barricate opposte»?
Di Putin non fa paura solo l’atomica ma lo spirito messianico di motore della storia di cui si sente investito. «Questo non è un bluff», ha detto Putin nel suo discorso, rimbeccato ieri all’Onu da Biden per «il suo irresponsabile disprezzo degli impegni sulla non proliferazione». Di fatto il bluff fa parte della dissuasione nucleare fin dall’epoca della guerra fredda tra Stati uniti e Unione Sovietica. Non si attacca un nemico con l’atomica se si pensa che anche lui possa distruggerti. In questo ragionamento c’è inevitabilmente una parte che può essere definita «bluff» perché nessuno può essere sicuro di niente.
Ma nel dubbio meglio astenersi. Da oltre sessant’anni il mondo vive questa ambiguità che evita le escalation fatali. Come scriveva ieri sul manifesto Tommaso Di Francesco «le armi atomiche tra un intercalare e l’altro, sembrano una sfida verbale ma alludono stavolta ad una minaccia concreta», come sanno bene la Cina e i Paesi della Sco riuniti recentemente a Samarcanda, che comunque ci guardano assai da lontano: più che l’atomica di Putin i cinesi temono le conseguenze economiche del conflitto tra gli europei che restano con gli americani i loro maggiori clienti.
Più che impaurire i leader occidentali i quali sanno che da febbraio non ci sono stati cambiamenti nel dispositivo nucleare russo, l’atomica di Putin punta a mettere sulla graticola un’opinione pubblica europea assai preoccupata sulla quale il leader del Cremlino punta per ridurre il sostegno militare ed economico all’Ucraina.
L’Europa sta passando dalla crescita alla recessione, la Cina non va più bene come prima, la Federal Reserve di Powell con il rialzo dei tassi sta dando una spallata alle Borse e all’ottimismo americano. La rabbia per il caro bollette, i possibili razionamenti di gas e l’inflazione sempre più alta forse sono l’arma più potente che ha in mano Mosca. Questo non è un «bluff» ma l’amara realtà che si intravede nell’inverno del nostro scontento.
Commenta (0 Commenti) Valdimir Putin al Cremlino - Ap
Putin alla fine ha rotto gli indugi, ha parlato alla Russia chiedendo sostegno per la «storica difesa della madrepatria» minacciata dall’Occidente «che ha superato ogni limite» nel sostegno militare a Kiev, giustificando come «inevitabile» l’operazione speciale con cui ha invaso l’Ucraina; i territori ucraini che vanno al referendum dal 23 al 26 settembre «hanno il sostegno di Mosca»; e ha chiamato alla mobilitazione parziale 300 mila veterani, escludendo i soldati di leva.
Concludendo con echi da “Grande Russia”: «È nostra tradizione storica e destino del nostro popolo fermare coloro che cercano il dominio mondiale, che minacciano di smembrare e rendere schiava la madrepatria», «che difenderemo con ogni mezzo» perché, in riferimento alle parole di Biden di due giorni fa, anche la Russia «dispone di vari mezzi di distruzione». Il ministro della difesa Shoigu ha aggiunto: «Combattiamo non solo con l’Ucraina ma con tutto l’Occidente» e ora l’obiettivo è «contrastare le armi fornite all’Ucraina dai Paesi occidentali».
Siamo all’escalation annunciata della guerra. Al punto di non ritorno. Del resto le dichiarazioni erano già nel precipizio da due giorni. «Non usare l’arma nucleare» ammoniva Biden a Putin per aggiungere «sarebbe consequenziale», vale a dire: lo facciamo pure noi. Altrettanto esplicita ma ancora criptica appariva la risposta dell’ineffabile Peskov, portavoce del neo-zar.
«Guardate la nostra dottrina, le useremo solo se sarà messa in pericolo la sicurezza del suolo russo». Una dottrina che ora Putin sembra voler forzare. Le armi atomiche tra un intercalare e l’altro, sembrano una sfida verbale ma alludono stavolta ad una minaccia concreta. Inoltre solo due giorni fa la Casa bianca aveva detto no alla ripetuta richiesta di Zelensky di missili a lungo raggio, non più di difesa, che possono colpire il territorio russo, mentre dallo stato maggiore Usa trapelava la notizia inversa dell’invio invece di carri armati di nuova generazione dalla lunga portata.
Un botta e risposta tragico, nella disattenzione della «nostra» politica immersa in una campagna elettorale che ha cancellato la guerra, nonostante sia stata tra i motivi decisivi della crisi del governo Draghi. E nell’irresponsabilità dei governi occidentali che hanno delegato l’interpretazione del leader russo al Sultano Erdogan, che solo ieri ripeteva: «Putin vuole finire la guerra al più presto». No, non sembra proprio la fine della guerra al più presto.
Con l’annuncio della data dei referendum da domani, dal 23 al 26 settembre – è settembre il più crudele dei mesi a quanto pare – per l’annessione alla Russia delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk – a cui si aggiungono Kherson e la provincia «atomica» di Zaporizhzhia a dir poco contesa – decisa da un Putin in difficoltà sul fronte militare e pronto a prendersi subito quel che ha conquistato e che non può perdere, si rendono evidenti interrogativi e certezze gravi quanto ineludibili.
Che quello dei referendum sta per diventare per Putin territorio della «madrepatria»; che un cessate il fuoco è ormai lontano anni luce, nonostante che dall’Onu Guterres ricordi i positivi accordi sul grano e alcuni commentatori americani indichino in questo «riposizionamento»» un disperato finale di partita che chiama ad una ridefinizione della crisi – lontana anni luce dagli accordi di Minsk (l’autonomia del Donbass dentro l’Ucraina) a dire il vero seppelliti dai governi di Kiev negli 8 anni precedenti di «guerra che non c’era»; e che anche la risposta finora utilizzata dell’invio di armi a Kiev si trova di fronte ad un impasse drammatico, se è vera com’è vera la denuncia – in in queste ore pesa doppio -, di Amnesty International: che la grande quantità di armi, l’hub più grande del mondo, arrivate in Ucraina che li disloca in combattimento, in basi e siti in «centri abitati, anche in scuole e ospedali» mette in pericolo la popolazione civile».
I governi europei, Washington e la Nato fanno capire subito che non riconosceranno i risultati dei referendum di Lugansk e Donetsk, di Kherson e Zaporizhzhia. Ma che accadrà nei rapporti internazionali se altri Paesi come la Cina- pure cauta e recalcitrante – non condanneranno? Inoltre, quanto alla «normalità» dei referendum, come dimenticare che molte di quelle aree erano a maggioranza filorusse e che invece la guerra di Putin ha sconvolto la sua credibilità, al punto che non è e non sarà come la scelta popolare nella Crimea del 2014; soprattutto in quelle zone si combatte ferocemente e l’esercito ucraino galvanizzato dall’ultima avanzata non si fermerà.
Saranno referendum sotto le cannonate, e comunque una violazione del diritto internazionale, una usurpazione di un Paese sovrano e «fratello», e già scende in piazza in Russia la protesta contro la mobilitazione e la fuga spontanea di chi non vuole farsi arruolare.
Sulla violazione del diritto internazionale che rilancia l’Onu, qui almeno gli storici potranno riconoscere il comportamento speculare, da fotocopia e vendicativo, di Putin rispetto a quello dell’Occidente e della Nato nell’ex Jugoslavia: il riconoscimento di indipendenze fondate su base etnica, la guerra «umanitaria» contro Belgrado stavolta «speciale» nel disprezzo dell’Onu, l’avvio del referendum per l’indipendenza unilaterale del Kosovo nel 2008 con tanto di riconoscimento Usa e di gran parte dell’Europa come Stato in violazione di accordi di pace che sancivano il contrario. Noi non abbiamo dubbi, Putin con le sue stragi di civili è un criminale di guerra, ma che ad accusarlo siano altrettanti criminali di guerra che hanno disseminato il mondo di stragi di civili è davvero una farsa.
La pace rischia di restare in queste ore di «mostruosità», dice papa Francesco, parola velleitaria, per qualcuno chiacchiera morale «francescana». Non è, forse, inutile però che il tema della guerra, il suo sistema di distruzione dell’umanità e delle risorse con il suo permanente e «necessario» riarmo, torni in queste ore, almeno sul baratro di un conflitto atomico o nano-atomico che sia, ad essere pensata e rifiutata subito in questa campagna elettorale che azzera i contenuti. Il peggio è già arrivato e non è solo quello del dopo 25 settembre.
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IL LUNGO CONFLITTO. Proprio ieri, giorno delle nuove minacce di Putin, era la Giornata mondiale della pace. Lettera aperta al segretario Onu Guterres delle 400 organizzazioni di “Europe for Peace”
Dopo gli ultimi rovesci e le crescenti difficoltà interne Putin mostra di nuovo la «faccia cattiva»: mobilitazione militare rafforzata e rinnovate minacce nucleari. Per ironia della sorte queste preoccupanti mosse sono arrivate ieri, 21 settembre, data in cui da oltre quaranta anni si celebra la Giornata Internazionale per la Pace voluta dall’Assemblea generale dell’Onu per rafforzare gli ideali di pace chiedendo che vengano osservate 24 ore di nonviolenza e di «cessate il fuoco».
Ma mentre il dramma della guerra (non solo in Ucraina, ma anche in tutti gli altri confitti armati «ignorati») prosegue sul binario di una follia che non sembra rallentare (e senza che i potenti della Terra capiscano di doversi impegnare seriamente per evitare la catastrofe) c’è chi continua a pensare a strade possibili di Pace: la società civile.
Ed è proprio nella data significativa della Giornata per la Pace che la coalizione “Europe for Peace” (formata da oltre 400 organizzazioni e promossa tra gli altri da Rete Italiana Pace e Disarmo, Sbilanciamoci, Stop the War Now, AOI Cooperazione e Solidarietà internazionale, Anpi) ha voluto inviare una lettera aperta al Segretario Generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, e ad altri esponenti delle strutture Onu.
Il cuore del messaggio del movimento pacifista italiano è chiaro: i conflitti e le violenze sempre più fuori controllo rendono
Leggi tutto: Regna la guerra e la società civile traccia strade di pace - di Francesco Vignarca *
Commenta (0 Commenti)E così, questo paese stanco e diviso, domenica prossima è chiamato alle urne. Il Parlamento che andava aperto “come una scatoletta di tonno”, nato dal trionfo dei richiami “anti-casta” ed egalitari (M5S) e “sovranisti” securitari (Lega), è stato sciolto prima del tempo, dando il via all’arrembaggio di un numero di seggi tagliato in nome dell’anti-politica, una legge elettorale truffaldina e un Paese di nuovo al palo. Perché dopo quattro anni e mezzo non è cambiato nulla.
Tutti gli indicatori sono in rosso: dal Pil, oggi più basso di allora, all’occupazione, in aumento ma solo nelle fasce precarie, dalle disuguaglianze più alte alla povertà più diffusa. L’abbandono scolastico non è calato, la distanza tra Nord e Sud è cresciuta, le tasse universitarie sono più alte e l’Italia resta il Paese con il più basso numero di laureati in Europa. L’analfabetismo di ritorno è una piaga, si muore sempre e tanto sul lavoro e anche per i tirocini scolastici. Il consumo di suolo continua imperterrito, come la cementificazione. E ora, inflazione, alti costi delle materie prime e la nostra supina adesione alla Nato, invece di vederci protagonisti di iniziative diplomatiche (perché lasciare fare Erdogan o Macron?), ci trova in prima linea tra i fornitori di armi che foraggiano la corruzione in Ucraina e il contrabbando.
Un bilancio non male per quelle forze che, grazie alla loro maggioranza (i 5Stelle), sono state al governo per tutta la legislatura. Ma anche per Lega e Pd, che hanno puntellato due governi su tre. Hanno istituito il reddito di cittadinanza, ma hanno anche emesso i “decreti sicurezza”, il cui impianto è rimasto poi inalterato. E che altro? Certo, si dirà, c’è stata la pandemia. Eppure, l’Italia si annovera tra i Paesi con il più alto numero di morti per abitante tra i paesi europei occidentali. La pandemia ha colpito i più anziani (per l’85%), che sono però anche quelli con più patologie, il più delle volte legate alle loro condizioni di vita.
La pandemia ha colpito i più fragili, tra le fasce più vulnerabili, anche economicamente. E i suoi effetti sono stati così pesanti anche a causa di un sistema sanitario negli anni privato di risorse, mezzi e personale, ove la regionalizzazione ha portato privatizzazioni e inefficienze. Non a caso, l’Italia è tra i Paesi in Europa che spende meno in sanità e spenderà ancor meno, secondo le decisioni di bilancio del governo “dei migliori”.
Un paese provato che oggi, di fronte a sviluppi per i mesi a venire che si prospettano drammatici, viene chiamato a scegliere quale classe politica lo guiderà per i prossimi anni. Se verranno premiate le destre non sarà perché “il fascismo non è mai morto”. La deriva, infatti, nasce prima di tutto dalla profonda delusione, disillusione persino.
Nessun ripensamento è stato espresso tanto dal M5S che dal Pd, nessuno sbaglio è stato ammesso, come se al governo ci fosse stato qualcun altro. Chi ha pagato maggiormente il peso di questi anni bui sono state le classi popolari, subalterne più che mai, attraversate dal disagio sociale e dall’esclusione. E sono quelle, più di ogni altra fascia sociale, per le quali la democrazia appare oggi un guscio vuoto, che non merita più nemmeno l’esercizio del voto. Pagheranno soprattutto le forze di centro e sinistra, che saranno punite per aver consegnato quelle masse al richiamo vacuo del sovranismo nazionalista.
Le elezioni segneranno una svolta. Non tanto perché a vincere saranno le destre – non è la prima volta – ma perché questa volta il partito maggioritario sarà quello post-fascista, “imbellettato” dalla leadership di Giorgia Meloni ma poco diverso – nelle parole d’ordine come nel linguaggio e nel portato culturale che esprime – da quello di Gianfranco Fini. Sarà una svolta perché andremo finalmente a un redde rationem per il Pd e la sinistra tutta. Dal 26 settembre, la storia della sinistra in Italia dovrà ricominciare.
La destra non vincerà perché raccoglie più voti di prima, ma perché saranno M5S e Pd che perderanno quelli che avevano. Sono i voti validi che decidono il risultato. Dei 10,7 milioni che il M5S aveva raccolto, si e no la metà confermerà il suo voto; gli 8,6 milioni che il centro-sinistra aveva, quelli resteranno. E dal calo complessivo dell’affluenza beneficeranno le destre che, con ogni probabilità, non prenderanno più di quei 12,1 milioni che avevano preso nel 2018, ma saranno maggioritarie. E anche “l’altra” sinistra raccoglierà più consensi.
L’Italia in declino è arrivata al capolinea e con essa la prospettiva neo-liberista sposata da più di vent’anni dal centro-sinistra a guida Pd. Le classi popolari andranno riconquistate, mentre il conflitto sociale coverà sempre più rancoroso, gettando a mare la logica che siano i mercati a guidare le scelte. Sarà il momento di riprendere in mano il timone della giustizia sociale e ambientale se non vogliamo l’orbanizzazione definitiva di questo Paese.
Commenta (0 Commenti)ELEZIONI. Per contrastare la disaffezione al voto, e la crisi della sinistra, servirebbe un fatto clamoroso, un impegno straordinario di soggetti organizzati e di singole personalità che esprima una volontà "credibile" di un cambiamento di rotta.
Non si può che condividere l’appello al voto di Norma Rangeri, dall’inizio al finale: il peggio del peggio per la democrazia è togliere la voglia di votare. È il dramma che sta davanti a noi.
Un fenomeno drammatico che coinvolge tanti elettori democratici e di sinistra, nella convinzione diffusa che votare non serva. Ma se è così, per contrastare la disaffezione al voto, e la crisi della sinistra, servirebbe un fatto clamoroso, un impegno straordinario di soggetti organizzati e di singole personalità che esprima una volontà “credibile” di un cambiamento di rotta.
Che cosa si può fare oggi, giunti sulla linea di traguardo? Un impegno che valga dal giorno dopo, quando la dura realtà che temiamo sarà un fatto compiuto? Un impegno a fare insieme un esame congiunto del voto per avviare una fase nuova? Un contratto da un notaio in cui chi firma si impegna a lasciare il partito/movimento al quale aderisce per partecipare ad una nuova fase costituente?
Nella mia rete relazionale c’é chi voterà Pd, chi Verdi-Sinistra italiana, chi Unione Popolare, chi M5s. Non parliamo di entusiasmo che non sappiamo più cosa sia, ma gli argomenti a sostegno delle singole posizioni sono spesso deboli da un punto di vista razionale e talora anche simili: con lo stesso scopo (superare la soglia o poter condizionare..) si fanno scelte diverse, e la confusione regna sovrana.
Inutile adesso distinguere tra il 25 ed il 26. Tutti, convinti votanti, probabili astenuti e sostenitori di due voti diversi tra camera e senato per salvare capre e cavoli, saremo costretti ad iniziare un cammino nuovo. Allora cominciamo a tracciarlo e forse così facendo questo ci aiuterà a scegliere meglio cosa fare il 25.
Io metterei al primo posto una ammissione: riconoscere che siamo inadeguati a passare dai mega obiettivi ideali alla traduzione operativa in termini di risorse, tempi, modalità, ad agire nello spazio tra cultura di opposizione e cultura di governo. La prova concreta è per me l’aver accettato che il Pnrr, un’operazione storica per le scelte implicite, per le risorse che impegna e per le condizioni che impone, sia stato approvato dal parlamento senza discutere. Autoritarismo del governo? Si. Ma anche impreparazione dei partiti (sinistra compresa) e delega ai tecnici (scelta comoda per nascondere le proprie debolezze).
Questo vuoto va colmato costruendo un filo che colleghi bisogni sociali, loro traduzione in obiettivi, uso delle risorse, capacità di collegare risorse ed obiettivi e di misurare cosi la politica. Senza restare fermi agli slogan (su questo terreno vince il populismo) e senza mettersi nelle mani dei tecnici (che suicidio quello di Letta con l’agenda Draghi!).
Al secondo posto dovremmo mettere, penso, il tema guerra ed armamenti. Sul sostegno all’Ucraina e sulla condanna della Russia c’è stata una ampia, anche se non totale, convergenza. Ma sulla ricerca di una soluzione diplomatica e di pace e su una linea di riduzione delle spese militari siamo stati deboli. Ammutoliti dalla paura di essere inquadrati come filo russi. Possiamo riprenderci la nostra autonomia di giudizio e di proposte senza allinearci dietro gli Usa? Possiamo riappropriarci del tema del disarmo e delle spese militari come temi di pace e di futuro? Per parlare così ai giovani ed al mondo cattolico?
E che dire del silenzio sulla crisi della globalizzazione e sul multipolarismo di fronte alla rinascita di confini e dazi doganali, e muri commerciali e della nuova divisione globale in blocchi ideologici militari col rilancio di una Nato mondiale?
Per tornare ai temi quotidiani più vicini alla vita delle persone, abbiamo subito una cavalcata del malessere praticata con abilità dalla doppia destra di Salvini e Meloni capaci di collegarsi direttamente a bisogni popolari, a categorie sociali ed economiche colpite dalle crisi. Intrecciando cultura corporativa vecchia e populismo nuovo, queste forze hanno relegato la sinistra nelle aree privilegiate dei centri storici e delle élite. Mentre il sindacato era spinto all’angolo a proteggere i lavoratori vittime della crisi cercando forme e strumenti di difesa. Ma finendo così per abbandonare il campo sociale delle disuguaglianze, delle nuove povertà, del disagio giovanile.
Comunque vadano le elezioni il sindacato e le forze sensibili a questi temi dovranno trovare sintonia e sinergia per condizionare e cambiare la politica. Ne avremmo, quindi, cose da fare dopo il 25. Ciascuno guardi bene in casa propria. Perché della sconfitta che si delinea non siamo tutti ugualmente responsabili. Né possiamo cavarcela chiedendo scusa adesso. Dobbiamo prepararci ad una faticosa ricostruzione con tanta, tanta, umiltà.
Commenta (0 Commenti)25 SETTEMBRE È GIÀ PASSATO. Sembra autoavverarsi quella infausta profezia che vede il PD destinato al suicidio, come già accadde per Veltroni e Renzi e non c’è molto da rallegrarsi anche tra chi, da tempo, ha deciso di non votare più per esso
Molti e onesti compagni sono stati spiazzati, e ora smarriti, di fronte alla scelta di Letta di non fare accordi con Conte e di non aprire ad un’alleanza che comprendesse l’intero arco della sinistra frammentata. Una scelta incomprensibile tanto più rispetto a una legge elettorale infame che avrebbe dovuto obbligare le sinistre a fare fronte comune, almeno dal punto di vista elettorale, contro uno schieramento di destra che appare (anche se non lo è) compatto.
Ora Letta invoca il “voto utile” per non perdere indecorosamente. Ma questa volta la trappola non funziona, sia perché Conte appare capace e determinato di guidare lo schieramento M5S, sia perché a sinistra è nata la nuova formazione di Unione Popolare che si richiama a quei valori e a quelle classi da tempo abbandonate dal PD di Letta.
Unica giustificazione a sua difesa sarebbe la necessità di proseguire in quella fantomatica agenda Draghi e ricercare il consenso dell’establishment
Leggi tutto: Pensiamo al dopo, quanto mai minaccioso - di Enzo Scandurra
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