Gli interventi contro gli effetti della competizione individuale sono sbagliati. Il problema non è chi accumula ricchezza ma chi non partecipa alla gara del mercato "Still Being" di Antony Gormley
Victor Orban l’aveva detto in uno dei suoi più celebri discorsi, al Chatham House di Londra nel 2013: non si tratta di combattere il neo-capitalismo, bensì di difendere la produzione nazionale. Il codice del lavoro deve essere più flessibile. Il sistema fiscale non deve redistribuire la ricchezza bensì avvantaggiare coloro che vogliono lavorare di più e assumere personale. Il concetto di Stato sociale – per Orban – appartiene al passato e lo stato deve essere costruito sul merito e non sui diritti.
E’ facile notare l’affinità con gli orientamenti del governo Meloni: non bisogna ripristinare il diritto al reddito di tanti soggetti impossibilitati a esercitare pienamente la cittadinanza per meccanismi indipendenti dalla loro volontà, bensì chiedere in cambio qualcosa affinché se la meritino; il sistema fiscale deve procedere in senso anti-progressivo perché la redistribuzione toglie a chi ha meritato per dare a chi non merita; le pensioni minime non vanno alzate più di tanto perché l’anziano non produce e non è più meritevole.
Questi assunti si sposano all’idea che non bisogna disturbare “chi vuole fare”. Dunque qualsiasi intervento della collettività, per attenuare gli effetti della competizione individuale, è disfunzionale: anche il salario minimo. Il problema non è chi accumula ricchezza a discapito delle moltitudini, bensì chi non si getta con sufficiente energia nella gara del mercato per emulare questi campioni.
Stesso discorso per la questione ecologica. La Meloni lo ha detto chiaramente: tutela dell’ambiente sì ma finché non limita le esigenze produttive. A ben vedere la posizione vitalistica collima con quella di Fratelli d’Italia (e della Lega) nei mesi della pandemia: la collettività non deve disturbare chi vuole produrre imponendo restrizioni sia pure dettate da motivi sanitari.
Ma non vi ricordate l’irrequietezza di Renzi verso le restrizioni di Conte? Queste posizioni produttivistico-competitive, infatti, non fanno altro che radicalizzare quelle da decenni coltivate dallo stesso centrosinistra e dalla cultura mainstream. Né pentastellati, né democratici hanno sostenuto forme di patrimoniale. Lo stesso reddito di cittadinanza dei cinque stelle non è universale ma meritocraticamente subordinato allo scambio con il lavoro. Per non parlare del Pd che lo aveva recisamente avversato, con una determinazione che ritroviamo nella cultura imprenditorial-produttivistica portata avanti dall’ex renziano Bonaccini (non basta dirsi difensori della sanità e dell’istruzione pubblica per pensare di poter combattere le diseguaglianze e la precarietà del lavoro accresciuta con il job act), con la cui vittoria al congresso il cerchio politico del populismo di mercato verrebbe a chiudersi in modo pressoché ermetico.
Ma per capire cosa è successo guardiamo nello specchio della storia. C’è stato solo un punto da cui dissentivo nella bella intervista che qualche settimana fa, su queste giornale, Enzo Traverso ha rilasciato a Roberto Ciccarelli. E cioè che il culto del merito sia proprio di una cultura neoliberista e non del retaggio fascista, in quanto quest’ultimo sarebbe stato statalista e autoritario. Infatti – e questo valga anche per i critici di Stella Morgana – da un lato autoritarismo e neoliberismo sono venuti assieme alla luce della politica di governo novecentesca: con Pinochet nel ’73 per poi rideclinarsi in salsa “democratica” con Reagan e la Thatcher.
Ma andando più indietro al regno delle madri, va considerato che il fascismo nasce liberista in politica e – come variamente argomentato di recente da Alessio Gagliardi – anche nella fase in cui ha reagito alla Grande depressione con dirigismo e nazionalizzazioni, ha seguito un movimento globale interno al capitalismo, continuando peraltro a comprimere i salari e a predicare l’austerità per i ceti meno abbienti (su ciò anche gli studi di Clara Mattei).
La politica antiproletaria di Mussolini, infatti, raccoglie le istanze nazionaliste che non solo volevano scongiurare il pericolo bolscevico ma anche le politiche sociali riformiste imputate di sottrarre risorse alla competitività del capitale italiano. Se per il nazionalista “democratico” Sighele la democrazia si basa su diseguaglianze legate al merito, per il nazionalismo antidemocratico (quello di Corradini, Rocco e Coppola), invece, la democrazia affossa il merito, impedendo alle capacità e alle intelligenze di emergere. Ma sarà lo stesso Mussolini – come ha ben spiegato anni fa Angelo D’Orsi – a farsi interprete della reazione della borghesia contro l’erompere delle masse al governo delle città, rivendicando un filtraggio selezionista e meritocratico, di cui uno Stato forte si facesse garante. Per garantire, cioè, che i più forti continuassero ad avere la loro giusta ricompensa e non fossero disturbati