CONFLITTO. Quel che in questo tragico quadro manca del tutto è una prospettiva che si ponga per obiettivo il superamento della guerra, il ripristino di rapporti che assicurino la pace duratura tra le Nazioni.
Ormai la guerra è totale. Da un lato, il referendum farsa e la dichiarazione di annessione “irreversibile” dei territori occupati, dall’altro un atto presidenziale che stabilisce la definitiva “impossibilità di intrattenere negoziati” con il nemico. Nel frattempo, sul campo, gli eserciti si affrontano con diverse fortune (in questo momento è l’armata russa che sembra in difficoltà), nella prospettiva di una guerra di lunga durata. Sempre che non si realizzi la follia – oscenamente ipotizzata – dell’apocalisse nucleare, contro l’umanità: “Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.
In questa situazione è massima la responsabilità della comunità internazionale. Sino ad ora si è limitata a
schierarsi, a prendere una parte tra i due soggetti in conflitto.
La grande maggioranza delle Nazioni condannando la Russia per l’invasione (141 Stati, secondo una risoluzione assunta dall’Assemblea dell’Onu), una minoranza astenendosi (35 Stati) ovvero giustificando l’occupazione dei territori ucraini (5 Stati). Ma è sul piano diplomatico che è parsa del tutto insufficiente l’azione dei Paesi non belligeranti. Non si registrano serie iniziative, fatte salve le improbabili iniziativa di mediazione, affidata principalmente alla Turchia dell’autocrate Erdogan, arenata prima ancora di nascere; ovvero le misteriose interlocuzioni della Russia con le potenze orientali, le quali tentano di frenare gli “eccessi” ma, al tempo stesso, stringono rapporti commerciali sempre più intensi.
Certamente non possono essere annoverate tra le iniziative diplomatiche per far cessare la guerra in corso tutte quelle decisioni, pur così rilevanti, assunte dai Paesi del Nord Atlantico di sostegno armato ad una delle due parti in conflitto, quella ritenuta a buon diritto aggredita. Al di là di ogni possibile giudizio costituzionale, giuridico, politico, strategico, militare o etico che si pone a fondamento della consegna delle armi agli ucraini, non si può pensare che questa sia la via per giungere a ristabilire rapporti pacifici tra le Nazioni.
In caso, si punta a vincere la guerra e sconfiggere il nemico sul campo di battaglia, costi quel che costi, hors-la-loi e hors-l’humanité. Così anche l’aumento delle spese militari, la corsa al riarmo e il rafforzamento della Nato, con l’ingresso di nuovi paesi sino ad ora rimaste neutrali, sono misure assunte nella prospettiva di una possibile escalation. Anche in questi casi, al di là di ogni giudizio o auspicio, misure che devono farsi rientrare in uno scenario che sconta il proseguimento del conflitto armato ed anzi la possibilità di una sua estensione.
Quel che in questo tragico quadro manca del tutto è una prospettiva che si ponga per obiettivo il superamento della guerra, il ripristino di rapporti che assicurino la pace duratura tra le Nazioni. In fondo è questo il compito che lo Statuto delle Nazioni Unite affida agli Stati non belligeranti, i quali – ai sensi degli articoli 33 e 52 – devono anzitutto perseguire una soluzione mediante negoziati, accordi o altri mezzi pacifici di loro scelta.
Un tipo di azione non armata, ma tanto più necessaria in assenza di un intervento diretto del Consiglio di Sicurezza, paralizzato dalla sciagurata regola dell’unanimità di voto dei membri permanenti (ex art. 27). Un intervento reso ancor più urgente dalla chiusura di ogni canale o possibilità di accordo tra le due parti in guerra, che non può che essere intesa come un preannuncio di una lunga guerra di trincea, una guerra disumana e “senza fine”.
Non voltarsi dall’altra parte, come si suole ripetere invocando solidarietà per l’aggredito, non può voler dire esclusivamente fornire armi per proseguire la guerra, ma anche e soprattutto fare di tutto per rimuovere le cause del conflitto e giungere ad un nuovo equilibrio che coinvolga non solo le Nazioni belligeranti, ma l’intera comunità internazionale. Se è dunque vero che la guerra non è solo “affar loro”, costruire la pace è un “nostro” preciso dovere. Ecco il punto decisivo su cui dovremmo soffermarci di fronte alla drammaticità dei fatti.
Una precisa strada è stata indicata, sin dall’inizio del conflitto armato proprio da questo giornale, rilanciata ora con forza da Europe for Peace. Una proposta che, nell’ostinato silenzio di chi ha responsabilità di governo, in forme diverse è stata fatta propria anche dalla più alta autorità politica del nostro paese (Mattarella di fronte al Parlamento del Consiglio d’Europa) e dalla massima autorità religiosa del pianeta (Papa Francesco in molte occasioni).
La richiesta è quella – rivolta ai Governi, ma anche ai popoli – di promuovere una conferenza internazionale per garantire la pace e la sicurezza tra le Nazioni. Non è un compito facile, ma è questo ciò che spetta fare alla comunità internazionale in una situazione di stallo bellico e di incerto futuro come è quella attuale.
Non si dica che è pura utopia, in caso è sano realismo. È la storia, infatti, che ci insegna che non si è mai conclusa una guerra senza un’equilibrata e stabile intesa tra le parti. Senza un accordo generale potremmo avere solo una serie di tregue armate, in attesa dei successivi conflitti. Una conferenza internazionale che definisca un nuovo scenario e impegni tutti i Paesi al reciproco rispetto, sottoscrivendo un patto di convivenza tra i popoli e le Nazioni, è la forma giuridica che la storia ci ha consegnato: da Qadeš ad Helsinki.