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Tre anni fa ho partecipato, una notte, all’assemblea permanente all’ex GKN di Campi Bisenzio. Una notte di sorveglianza, a fine agosto, con dei giovani operai. Otto ore di racconti e riflessioni molto varie. Avevano perso il lavoro con un messaggino sul cellulare e non è che si facessero grandi illusioni sulla vittoria finale. Apparivano anzi molto consapevoli del realismo capitalista che dettava le regole del gioco del lavoro (sfruttato) e della vita (precaria) un po’ dappertutto. Immaginare gloriose vittorie era difficile. E tuttavia al presidio c’erano, con un grande legame affettivo, cioè con un legame politico. Si sentivano in questo intensamente fratelli – anche di noi, solo solidali, solo di passaggio. Mi sembravano un pezzo di classe che esisteva non solo in sé ma anche per sé, come soggetto politico, per quanto con la consapevolezza amara di tutto. Ma il tutto resta un problema. E non solo in Italia, dove le tragedie acquistano dal Governo sempre un po’ il tono della farsa crudele. Carcere per i neonati, telefoni vietati per i migranti, galera per qualunque dissenso, proclami di epica difesa dei sacri confini. E però è tutta l’Europa che va verso il baratro. E tutto l’Occidente, muto sulle stragi in Palestina. Sulla scena politica sembrano restare solo una specie di centrosinistra da establishment e una destra antiliberale e iperliberista, nazionalista e razzista. Come fosse sempre Hillary Clinton contro Donald Trump. E allora davvero non c’è partita.

L’immigrazione genera dappertutto la paura che detta l’agenda, che l’estrema destra sia al potere o no. Vedi Germania e Francia, ora Austria. In Germania, oltre all’AFD avanza il partito di “sinistra conservatrice” di Sarah Wagenknecht. Una specie di socialismo sovranista e patriottico, ma antiliberista e attento ai bisogni dei ceti svantaggiati. E quei bisogni includono una drastica riduzione delle aperture alle frontiere. Perché sarà vero che in termini assoluti l’immigrazione non è un’invasione, ma in certi quartieri popolari, lontani dalla ztl, quell’invasione c’è o è percepita come esserci. Minacciosa e competitiva. La classica vicenda dei penultimi contro gli ultimi, o degli ultimi contro i nuovi ultimissimi. Il suo partito personale (BSW) in questo forse assomiglia un po’ ai Cinque Stelle prima maniera, quella di Di Maio e delle Ong taxi del mare. In una intervista spiegò che il popolo sentiva la presenza dei migranti come una minaccia da allontanare. E loro erano il popolo, dunque riflettevano quella paura e quel bisogno. Lo assumevano. Contano solo i bisogni così come si presentano sulla scena – scena data per definizione, quella della penuria di risorse e dell’impossibilità di redistribuirle. Tutto il resto è sovrastruttura, moralismo dei ricchi, etica ridotta a lusso per le élite. E la classe che libera se stessa non libera più tutto il mondo, anzi si libera se si chiude al mondo. È possibile, come sostiene anche Stefano Fassina, che così si riconquisti il popolo alla sinistra – e però si paga mi pare un prezzo molto alto, quello di chiudersi in una politica dei bisogni che si nega ai desideri, che legge tutto a partire da una condizione di abbandono e solitudine. E non vede le altre tante periferie del mondo, né quanto l’ostilità verso l’immigrazione sia non un dato meccanico, prodotto necessariamente dalla condizione economica, piuttosto il risultato di quella condizione dentro un isolamento, nella desertificazione di relazioni politiche, di vicinato e prossimità, indotta dal neoliberismo che poi si sposa serenamente con i mitici legami del sangue e del suolo.

Credo che agisca in questa sinistra anche l’idea un po’ bizzarra che rivendicando il concetto di patria e di nazione magicamente le masse popolari si riavvicineranno, ritrovando la nobile tradizione di risorgimento e resistenza – si chiama “Patria indipendente” la rivista dell’Anpi. E tuttavia a me la verità sembra molto più banale. Senza un “privilegio nazionale” associato alla patria, della nazione non credo che importi molto a nessun nazionalista, di sinistra o di destra. Se la definizione non serve a escludere, la patria torna ad essere puro sterile mito. Il contenuto di liberazione che possedeva, oggi mi pare del tutto scomparso – salvo in certi paesi del sud del mondo o in America Latina, dove appunto conserva un contenuto di emancipazione. Da noi funziona solo come autorizzazione a liberarsi dallo sguardo degli altri: di quelli che fuggono, soffrono, o desiderano vivere la propria vita, altrove. Forse alla base c’è di nuovo l’accettazione del realismo capitalista che rende il grande capitale, globalizzato e finanziarizzato, inarrivabile, assurto a dato di natura. Sottratto al discorso pubblico.

Quando nel paese in cui sono nato arrivarono negli anni Sessanta i migranti dal sud d’Italia – che chiamavamo tutti “siciliani” di qualunque regione fossero – anche per loro c’era una sorta di segregazione sociale e culturale. Avevano i loro bar, le loro piazze, nelle scuole i loro quadernini neri del patronato scolastico. Uno stigma. Credo che siano stati salvati dal 68-69 operaio: da un progetto di liberazione collettiva che li faceva alleati nella lotta contro il capitale. Ma oggi, se non c’è quell’orizzonte politico di emancipazione, che almeno ci si liberi dalla concorrenza verso le risorse sempre più esigue dello stato ex sociale delle famiglie numerose degli ultimi arrivati. All’epoca il vecchio PCI teneva insieme tutte le dimensioni: quella economica con quella culturale ed etica. A me non piaceva quella lettura universale che disegnava una specie di chiesa capace di offrire tutte le risposte, però mi rendo conto adesso che funzionava. Dava appartenenza e apertura alla complessità – insieme a un filo rosso per attraversarla. Oggi è un casino. E c’è una separazione triste fra l’etica dell’accoglienza, l’apertura a chi soffre, il rispetto della natura e dei diritti di chi è diverso e i bisogni quotidiani di strati popolari abbandonati, senza speranza, che la sinistra ha perduto.

Questo tuttavia mette in evidenza un aspetto sacrosanto. Senza spostamento di risorse verso uno Stato sociale che sia protettivo per tutte e tutti; senza conversione ecologica e una radicale redistribuzione del reddito, di fronte alla penuria, le guerre fra poveri saranno inevitabili. E dunque il conflitto per le questioni sociali e ambientali, quello per i diritti civili e la libertà delle migrazioni, sono da tenere insieme. In Francia, in Place de la République, si poteva leggere in uno striscione: La nation est un tissu de migrationEcco: il popolo tanto invocato dai sovranisti è un tessuto di migrazioni. Lo è già di fatto. Basta guardare nelle nostre scuole, o le squadre alle olimpiadi. È in un certo senso tutto già accaduto. Ma è una realtà difficile a farsi discorso politico. Se non torna pensabile cambiare tutto. Se non si torna a parlare del capitalismo e dei suoi disastri. Così poco naturali.