ELEZIONI. L’annunciato successo laburista nel Regno Unito fa i conti con i numeri e l’ultima carta dei tories: la paura della «supermaggioranza»
Il candidato laburista Keir Starmer al seggio elettorale insieme alla moglie Victoria - foto Ansa
Secondo il grigio acume di Benjamin Franklin, nella vita esistono solo due cose certe: la morte e le tasse. Nel Regno Unito, stamattina, ce ne dovrebbe essere a tutti gli effetti una terza: la vittoria elettorale laburista. Una vittoria tale da potenzialmente ridurre all’irrilevanza i conservatori, il partito più antico del mondo, dominatore assoluto della politica britannica da trecento anni in qua (i laburisti hanno governato meno di un terzo dell’ultimo secolo) e faro delle classi dominanti globali. Insomma, la vera razza padrona.
Tenendo sempre a mente il pessimismo dell’intelligenza, ecco gli scenari possibili. Risentono tutti del tellurico effetto Johnson/Truss, i penultimi due leader conservatori a cui si devono rispettivamente l’apoteosi Brexit, i festini a Downing Street di «Boris» mentre il paese era piantonato per il Covid e il mini-budget che ha semidistrutto il capitalismo britannico di Truss, determinandone il premierato più breve di sempre. Nel 2019, come si ricorderà, Boris Johnson aveva procurato ai conservatori una vittoria allora poderosa (maggioranza di 80), approfittando anche del fatale tentennamento del Labour di Corbyn rispetto alla permanenza o meno nell’Ue.
A SEI SETTIMANE dall’annuncio da parte di Rishi Sunak della data di ieri per la votazione, la situazione è tale da aver introdotto un neologismo nel lessico psefologico (psefologia, l’analisi statistica delle elezioni) e cioè «supermaggioranza». Si invererebbe se il partito di Starmer ottenesse 250 seggi (su 650) Probabilmente i miliardari nazionali che non l’hanno già fatto espatrierebbero: Starmer potrebbe cambiare i connotati di un paese che è la culla ma anche la tomba della democrazia (il deficit democratico dell’uninominale secco lo celebrano solo quelli che non lo devono subire; in questo caso avrebbe almeno il merito di tenere il Reform Uk di Nigel Farage a bada con meno di venti seggi). Ebbene, gli allibratori consideravano fino a ieri questo come lo scenario più probabile. Ragion per cui Sunak – che potrebbe addirittura perdere il suo seggio, un’altra prima assoluta – si è rassegnato a usare il termine «supermaggioranza» come monito negli ultimi giorni della campagna, ammettendo così l’imminente disfatta: o votate per me o avrete i Soviet a Westminster. Se salvasse la poltrona, Sunak ha detto che rimarrebbe al timone del partito fin quando necessario, ma c’è da scommettere (!) che se ne tornerebbe a Santa Monica, in California, dove ha una magione da sette milioni di euro vicino a Muscle Beach, noto caffè letterario.
Segue lo scenario cosiddetto blairiota, quello che portò Tony Blair a stravincere nel 1997: una maggioranza di almeno 150 seggi (allora furono 179) che avrebbe inflitto tredici anni di New
Labour con annessi ratifica della deregulation thatcheriana della finanza, invasione illegale dell’Iraq con le catastrofiche conseguenze che stiamo pagando tutt’ora, e privatizzazioni galoppanti. Questo scenario ammette la sopravvivenza dei Tories, la cui vagheggiata estinzione sarebbe commutata in un non meno desiderabile oblio ultradecennale.
TERZA IPOTESI, quella che in tempi “normali” sarebbe stata una maggioranza laburista comunque apprezzabilissima (oltre 50 seggi), ma che dopo tutto questo fragore bandistico dei sondaggi risulterebbe come un mezzo disastro, dando alla “sinistra” del partito la chance di mettere all’angolo il tremebondo Starmer per aver inflazionato il sostantivo Change svuotandolo per sempre di significato. E diciamo pure che “i mercati” non apprezzerebbero proprio: la timidezza nella spesa pubblica contenuta dal programma elettorale verrebbe presa giustamente di mira obbligandolo a recedere dai fioretti di disciplina fiscale con i quali si è faticosamente fatto accettare dai più abbienti.
L’ultima supposizione è quella di un parlamento hung, (appeso, non impiccato). Estremamente improbabile, e dunque lucrosissima per chi ama scommettere, sarebbe lo scenario in cui «Sir Keir» si ritrovasse senza maggioranza assoluta e dovesse allearsi con qualcuno: i liberaldemocratici in questo caso, che si ritroverebbero come nel 2010 a fare il kingmaker, a decidere, e a entrare in una coalizione, stavolta lib-lab, ma non senza chiedere qualcosa in cambio, nella fattispecie una possibile retromarcia su Brexit o una riforma del sistema elettorale che li condanna da sempre all’irrilevanza.
Potrebbero addirittura diventare l’opposizione, anche qui tornando indietro di secoli, ma soprattutto mandando gli psefologi a cercarsi un altro mestiere, magari meno triste