ISRAELE / PALESTINA. L’attacco israeliano a Francesca Albanese (Onu) omette tutti gli altri fattori che confluiscono nella ostilità dei palestinesi verso le forme di oppressione che subiscono dallo stato ebraico
Soldati israeliani al checkpoint di Qalandiya a Ramallah, prima della guerra - foto GettyImage
I tweet sono una trappola mortale. Perché l’asserzione senza argomentazione si espone con ogni probabilità alle esecuzioni sommarie.
Prendiamo il caso di Francesca Albanese, l’inviata speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati, di cui Francia, Germania e una associazione di avvocati internazionali chiedono le dimissioni.
L’accusa che le viene rivolta è di avere infranto un tabù mettendo in relazione il massacro perpetrato il 7 ottobre dello scorso anno in Israele dalle milizie di Hamas con lo stato di oppressione in cui vive da decenni la popolazione palestinese, piuttosto che con una pura e semplice insorgenza di violenza antisemita.
Le due cose non sono però così fortemente in contraddizione, non si escludono a vicenda. Non vi è dubbio alcuno che tra i palestinesi, soprattutto quelli più vicini al fondamentalismo islamico, o segnati da un vissuto tragicamente ferito, siano andati affermandosi sentimenti antisemiti e fenomeni di odio antiebraico che hanno decisamente influito sulle forme efferate e mostruose dell’aggressione sferrata dai miliziani di Hamas lo scorso 7 di ottobre.
Non si può negare, tuttavia, che le condizioni in cui versa la popolazione palestinese e le vessazioni a cui è sempre più pesantemente sottoposta abbiano a loro volta contribuito al diffondersi di questi sentimenti di odio. Del resto, anche sul versante dei coloni fondamentalisti ebraici l’odio razziale non difetta e nemmeno il ricorso sistematico ad atti di violenza indiscriminata. La destra che governa a Gerusalemme si è dedicata senza sosta a esasperare le tensioni. La storia ha più volte mostrato come la reazione a condizioni di oppressione estrema possano darsi nelle forme più spaventosamente crudeli. Forse solo il Sudafrica con l’istituzione nel 1995 della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, ha contraddetto questa tragica concatenazione, laddove ci si sarebbe potuti attendere una soluzione alla Dessalines (il generale nero che, dopo aver proclamato l’indipendenza di Haiti, procedette nel 1804 allo sterminio di tutti i coloni bianchi). Questo non per procedere a paragoni indebiti, ma per ricordare che nessuna motivazione, sia pur legittima come la rivolta contro la schiavitù, è immune dal ricorso alla violenza più cieca e turpe o in grado di giustificarla.
Il tabu ha però, a ben vedere, una sua precisa funzione: usare l’argomento dell’antisemitismo non tanto per denunciarne l’effettiva velenosa presenza, ma per mettere in ombra tutti gli altri fattori che confluiscono nell’ostilità dei palestinesi verso le politiche e le forme di controllo esercitate ai loro danni dallo stato ebraico. Citare questi fattori non costituisce in alcun modo una giustificazione dei crimini commessi dai miliziani sul territorio israeliano. Ometterli, invece, vuol dire sottrarsi a ogni responsabilità politica e posizionarsi sul terreno dell’inimicizia assoluta, senza soluzione diversa dall’annientamento dell’avversario. Che uno stato in guerra si autoassolva di ogni crimine e si dipinga, contro ogni evidenza, come il più umano, corretto, democratico e rispettoso del diritto è cosa consueta. Ma per il resto della comunità internazionale, compresi gli alleati di Israele, stare a questo gioco di propaganda bellica non è certo un comportamento dignitoso.