Nella Striscia ieri non si smetteva di morire, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu continuava a rinviare il voto sulla risoluzione annacquata dalle pressioni Usa: nessun cessate il fuoco, ma «misure urgenti per una sospensione delle ostilità» (e non ancora votate al momento di andare in stampa).
Le ultime stragi hanno avuto come teatro i luoghi più martoriati, il campo profughi di Jabaliya e la città più a sud della Striscia, Rafah. Il luogo simbolo della prima Intifada, Jabaliya, è un cumulo di macerie. «I corpi sono ovunque – continuava a dire ieri il giornalista di al Jazeera Anas al-Sharif – Le vittime sono per terra. Ci sono cadaveri in pezzi. Non si può descrivere».
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Il simbolo dell’Intifada, la culla dei comitati popolariE poi c’è Rafah, dove si sono spostate centinaia di migliaia di persone in fuga prima dal nord e poi da Khan Yunis, oggi principale fronte di guerra dopo l’occupazione del nord da parte dell’esercito israeliano.
POCHI GIORNI FA fa Philippe Lazzarini, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, aveva detto che la città «ha quadruplicato il numero di persone in una notte. Manca tutto, non è un posto dove possono stare un milione di persone». Anche perché cadono le bombe. «Dormivamo quando abbiamo sentito un’enorme esplosione – dice Jihad Zoorob, sfollato a Rafah da Gaza city, alla Bbc – Siamo sfuggiti alla morte per miracolo, ci hanno tirato fuori dalle macerie».
Miracolo, fortuna: staying alive is only a matter of luck, restare vivi è solo questione di fortuna, era il titolo del comunicato di lunedì di Medici senza Frontiere. Non ce l’hanno avuta i parenti di Jihad: nel raid su Rafah ha perso nove familiari. Solo alcuni dei 19.667 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, dal lancio dell’offensiva israeliana seguita all’attacco di Hamas in Israele (1.200 uccisi). Andrebbero aggiunti migliaia di dispersi ma ormai si è perso il conto.
Secondo l’Unicef, oltre 7.700 sono bambini. Il Fondo Onu per l’infanzia è stato tra le agenzie delle Nazioni unite che ieri a Ginevra, a poche ore dal voto al Consiglio di Sicurezza, sono esplose di rabbia impotente. Unicef, Unrwa, Oms si sono dette «furiose».
«Sono furioso che bambini che si stanno riprendendo da amputazioni in ospedale vengano uccisi in quegli ospedali – ha detto James Elder, portavoce Unicef – Furioso che Natale porterà una crescente ferocia mentre il mondo è distratto dall’amore per sé. Furioso con me stesso per non essere in grado di fare di più». «È da non credere che il mondo permetta che questa situazione vada avanti, è immorale», ha aggiunto Margaret Harris, Organizzazione mondiale della sanità.
La dichiarazione delle agenzie Onu arriva tra le notizie sulle condizioni degli ospedali di Gaza, quelli ancora aperti. «I medici camminano sui morti per curare bambini che moriranno comunque», la nota terribile di ieri di Medici senza Frontiere che descriveva la situazione al Nasser Hospital di Khan Yunis, colpito due volte in 48 ore. «I pochi fortunati che sopravvivono hanno ferite che cambiano la vita. Ustioni gravi, fratture che se non curate richiederanno l’amputazione», ha detto Chris Hook, responsabile locale di Msf.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
La strage di civili a Gaza deve continuareIntanto l’Ahli al-Arab – l’ospedale bombardato il 17 ottobre e oggetto di inchieste per scoprire l’origine del raid, jet israeliani o missili del Jihad islami – ha ufficialmente smesso di funzionare dopo arresti di massa di medici e pazienti, come accaduto anche al Kamal Adwan Hospital e ieri, di nuovo, allo Shifa di Gaza city.
CADE ANCHE l’Al-Awda: secondo Msf, ieri l’esercito israeliano ne ha assunto il controllo dopo 12 giorni di assedio. Tutti i maschi sopra i 16 anni sono stati presi, spogliati, legati e interrogati. Tra loro anche sei membri di Medici senza Frontiere, poi rimandati dentro.
Perché dentro ci sono ancora 240 persone (80 sanitari, 40 pazienti e 120 sfollati), senza acqua. L’Al-Awda è l’ospedale di Jabaliya, il campo che ieri sera l’esercito israeliano ha annunciato di aver del tutto occupato, oltre ad aver «smantellato la brigata nord di Hamas»: «Jabaliya non è più quella di prima», ha detto il generale Itzik Cohen. In contemporanea arrivavano le parole del ministro della Difesa israeliano Gallant: le operazioni di terra «si espanderanno ad altre aree», ha detto dal confine con la Striscia, definendo Khan Yunis «nuova capitale del terrore».
Preso il nord, le autorità israeliane si spingono sempre più giù, prima che agli occhi del premier Netanyahu sia troppo tardi, prima cioè che il mondo imponga (a lui e a Washington) di smettere.