(Di Pino Arlacchi * – ilfattoquotidiano.it) – La misura è colma. Lo Stato di Israele
non può più stare nelle Nazioni Unite. È diventato uno Stato fuorilegge che infrange
uno dopo l’altro i capisaldi del diritto internazionale e che fa sfoggio della propria
impunità potendo contare sulla protezione politica e sul sostegno militare senza
limiti degli Stati Uniti.
Se così non fosse, Netanyahu non avrebbe mai osato insultare l’Onu, in piena
Assemblea Generale, definendola “una palude di bile antisemita”, e non avrebbe
fatto uccidere, durante il solo 2023, 230 dipendenti dell’Unrwa nel corso di
bombardamenti, incendi e assalti a scuole, depositi di viveri, convogli di aiuti
umanitari marcati Onu. L’Unrwa è l’agenzia creata nel 1949 dall’Assemblea
Generale per assistere i rifugiati palestinesi creati dalla “Nabka”, la catastrofe del
1948 che vide 700 mila palestinesi cacciati con la violenza dalle loro case e dalla
loro terra dalla milizia sionista che divenne l’esercito di Israele. Tutto ciò facendosi
beffa dei piani di insediamento stabiliti dall’Onu, e inaugurando una lunga serie di
crimini e di illegalità che arriva fino ai nostri giorni. E che sta alla radice della
fondazione dello Stato di Israele nonché di Al Fatah, Hamas, Hezbollah e simili.
Accanto all’Unrwa, la seconda maggiore vittima dell’ostilità israeliana verso le
Nazioni Unite è l’Unifil, una missione composta da 50 paesi, creata nel 1978 dal
Consiglio di Sicurezza per promuovere la pace in Libano. L’Unifil ha pagato finora
con 337 vite umane l’attuazione del suo mandato. Non tutte le sue perdite sono
dovute ad attacchi israeliani, ma è proprio in queste settimane che è esplosa tutta
l’insofferenza di Tel Aviv contro possibili testimoni di atrocità pianificate e sul punto
di essere attuate.
Dal 1948 fino a oggi, sono oltre 24 le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che
criticano o condannano l’occupazione illegale di territori e le crudeltà di Israele
contro i palestinesi. Alcune di queste risoluzioni sono diventate famose per essere
richiamate di frequente durante le crisi scatenate da Israele.
La risoluzione 242 del 1967 stabilisce il ritiro di Israele dai territori occupati dopo la
Guerra dei Sei giorni allo scopo di favorire una pace duratura nel Medio Oriente. Le
risoluzioni 446 del 1979, 904 del 1994, 1073 del 1996 e 1394 del 2002 si uniscono
alle 155 risoluzioni approvate dall’Assemblea generale dal 2015 a oggi e che
riguardano i tre interventi militari in Libano precedenti quello in corso, gli
insediamenti illeciti in Cisgiordania, il ritiro da territori occupati, le stragi e le
deportazioni di civili palestinesi.
Queste deliberazioni della maggioranza globale sono altrettante tappe del solco
che si è scavato tra i governi di Israele da un lato, e le Nazioni Unite e il resto del
mondo dall’altro. I 41 mila morti di Gaza, i 100 mila feriti, i milioni di sfollati del
Libano e di Gaza, i ripetuti attacchi all’Iran, allo Yemen e alla Siria, gli assassini
mirati di singole personalità straniere avvenuti nel corso dell’ultimo anno non sono
giustificabili in alcun modo. Non sono eccessi di legittima difesa causati dal
massacro di 1200 civili israeliani.
Ci troviamo di fronte a uno Stato membro dell’Onu colpito da un processo
degenerativo. Diventato un aggressore seriale che non riesce ad astenersi dal
commettere crimini contro l’umanità, crimini di guerra, tentati genocidi e stragi a
ripetizione per poi fare la parte della vittima e rifugiarsi dietro lo scudo degli Stati
Uniti.
Nessuno Stato membro è mai stato espulso dalle Nazioni Unite. Tuttavia,
l’organizzazione ci è andata molto vicino, nel 1974, nel caso del Sudafrica, un caso
che presenta evidenti analogie con quello odierno di Israele. Il dibattito all’Onu
sull’espulsione del Sudafrica non fu scatenato solo dalla crescente avversione
internazionale nei confronti dell’apartheid, ma anche dalla continua occupazione
Sudafricana della Namibia, definita illegale dalla Corte internazionale di giustizia,
come nel caso dell’attuale occupazione israeliana del Libano e della Cisgiordania.
Tutto iniziò nel 1969, con la risoluzione 269, in cui si affermava che, qualora il
Sudafrica non si fosse ritirato dalla Namibia, il Consiglio di Sicurezza si sarebbe
“riunito immediatamente per stabilire le misure efficaci” da adottare.
Fu sollevato il tema dell’applicazione dell’articolo 6 della Carta delle Nazioni Unite,
che riguarda la procedura di espulsione di uno stato membro, da votare in
Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza.
Il Sudafrica non fu espulso dall’Onu solo perché tre su cinque membri del Consiglio
di Sicurezza – Usa, Francia e Regno Unito – posero il veto sulla proposta. Si
trattava pur sempre di un bastione anticomunista da proteggere. Ma l’Assemblea
Generale aggirò l’ostacolo nel 1974 rifiutandosi di accettare, a stragrande
maggioranza, le credenziali della delegazione sudafricana. Il Sudafrica restò così
escluso dalla partecipazione all’Assemblea Generale per ben venti anni, fino al
1994, rientrandovi solo dopo la fine dell’apartheid.
La situazione attuale di Israele è molto più grave di quella Sudafricana degli anni
70. In entrambi i casi siamo di fronte a regimi rogue, “delinquenti”, ai margini della
comunità internazionale. Ma lo Stato razzista bianco – posto di fronte agli attentati
commessi dall’ala terroristica del movimento di liberazione guidata dal giovane
Mandela e alle enormi manifestazioni di piazza – non tentò il genocidio o la
deportazione della popolazione nera. Gli anni della transizione alla democrazia,
perciò, costarono ai neri sudafricani “solo” 14 mila morti. Negli ultimi decenni della
sua vita, il regime di Joannesburg non mosse guerra né all’Onu né alle missioni
Onu. Il suo tramonto è avvenuto con un accordo tra le parti e con la promessa di
una futura riconciliazione.
Mandare via Israele dall’Onu è una misura drastica, ma necessaria. Occorre
rompere la bolla di isteria e onnipotenza dentro cui vive un regime di psicopatici
che non si rendono conto di essere in guerra non contro i palestinesi e il Medio
Oriente, ma contro il mondo intero. Lo choc può essere salutare anche per il suo
protettore, una superpotenza in declino tentata di andare nella stessa pericolosa
direzione.
* Già vicesegretario generale dell’Onu