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"Bibi" e gli ostaggi Il significato dell’accordo firmato mercoledì con Hamas suscita in Israele reazioni molto contrastanti, mentre il mondo guarda soprattutto alla questione del possibile cessate il fuoco a Gaza. Il primo annuncio […]

Il ruolo di Trump scompagina i falchi di Tel Aviv 

Il significato dell’accordo firmato mercoledì con Hamas suscita in Israele reazioni molto contrastanti, mentre il mondo guarda soprattutto alla questione del possibile cessate il fuoco a Gaza. Il primo annuncio di conclusione delle trattative è arrivato dal nuovo presidente statunitense, non ancora insediato, Donald Trump, che ha bruciato tutti sul tempo.

Dopo l’annuncio ufficiale della tregua che partirà domenica, l’accordo per molte ore è sembrato sospeso con accuse di non rispetto dei termini tra Netanyahu e Hamas, e così nella notte di ieri e ieri mattina Gaza è stata nuovamente bombardata e le vittime sarebbero decine e decine.

La questione degli ostaggi israeliani a Gaza è sempre stata centrale nella discussione politica ma ha continuato ad aggravarsi man mano che cresceva il numero di soldati caduti.

Gli ostaggi a Gaza sono per la maggior parte civili rapiti dalle loro case il primo giorno della guerra. Bambini molto piccoli – di pochi mesi o anni – fino ad anziani di oltre 80 anni. Hanno visto morire chi i genitori, chi figlie e figli, chi mogli e mariti.

Il presidente statunitense in carica Joseph Biden ha dichiarato nei giorni scorsi che i termini dell’accordo accettato dalle parti erano identici a quelli proposti dagli Stati uniti lo scorso anno. Era chiaro in Israele che tutta la vicenda era legata agli oscuri interessi del primo ministro Benyamin Netanyahu, impegnato a continuare la guerra quando già era chiaro che il famoso obiettivo della «vittoria finale», di continuo ribadito dal governo di Tel Aviv, non era altro che una farsa demagogica. Così venivano celati i sinistri interessi della classe politica al potere. Il premier ha sempre agito nell’ottica di evitare gli sviluppi di un processo che potrebbe portarlo in carcere per anni.

Inoltre la sua coalizione sarebbe ora minacciata dalla presunta opposizione alla tregua dell’estrema destra che vuole assicurarsi l’eventuale annessione di parte di Gaza per estendere i possibili insediamenti dei coloni, in modo simile al processo in corso attualmente nei territori occupati.

Una parte di chi si oppone non è necessariamente di destra; si tratta dei familiari di quei rapiti che non verrebbero necessariamente liberati nelle prime fasi del processo. Queste persone hanno trascorso più di 470 giorni di prigionia, sottoterra, in tunnel o caverne senza le minime condizioni vitali, sottoposti ad abusi e in alcuni casi aggressioni sessuali. Il primo giorno verrebbero liberate tre donne e dopo una settimana altre quattro. È facile immaginare il supplizio delle famiglie che non sapranno fino all’ultimo momento se i loro parenti sono ancora vivi e se potranno resistere fino al giorno della liberazione. Si parla di cento rapiti, ma credo che non più di 50 siano tuttora in vita. Dalle poche e brevi immagini che Hamas ha lasciato trapelare e che sono arrivate al pubblico in Israele, appare chiaro che non pochi dei rapiti si trovano in uno stato fisico e psicologico molto difficile.

Perché ci vogliono decine di giorni per ultimare il processo di rilascio? Per discutere lo status dei prigionieri palestinesi da liberare, e anche per consentire possibili ricorsi legali da parte di familiari delle vittime contro la liberazione di alcuni palestinesi condannati per omicidi accertati. Oppure, nei fatti, per lasciare spazio a possibili tattiche o stratagemmi delle parti.

L’affermazione del presidente Biden – «l’accordo è quello che avevamo proposto un anno fa» – per alcuni di noi non è una novità. La risposta oggi sembra chiara, positiva, ma dà molto da pensare. La maggior parte degli israeliani, soprattutto quelli che accettano con facilità il fascismo nel proprio paese, erano favorevoli a Trump, certi che un buon amico di Netanyahu sarebbe stata la migliore soluzione per i mali presenti della regione e del mondo.

Ma non solo noi possiamo immaginare o analizzare la politica del premier israeliano. Anche Trump. Mentre Biden prendeva in considerazione i problemi con Israele e con Netanyahu e le loro possibili ricadute sulle elezioni negli Stati uniti, Trump ha incaricato un suo inviato di incontrare il premier israeliano giorni fa. L’incontro è durato cinque ore. Netanyahu ha scoperto che il suo amico è stato per lui abbastanza problematico e non gli ha lasciato spazio per continuare con i dinieghi.

La destra israeliana già parla di una sua opposizione più dura all’accordo. Alcuni già evocano un attacco contro l’Iran per distruggerne la potenzialità atomica. Dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, la regione ha cambiato tutte le proprie coordinate e il dominio statunitense è diventato più che evidente. Senza Hezbollah e Hamas, la caduta di Bashar al-Assad in Siria è diventata possibile e facile; il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è capace oggi anche di cercare accordi con i suoi nemici curdi.

Trump cercherà di attuare concretamente i possibili piani che porterebbero a un accordo tra Israele e Arabia saudita, condizionato dalla presunta discussione su un possibile Stato palestinese. Piani «brillanti», in grado forse di assicurare ancor meglio gli interessi dell’Occidente «trumpiano», ma non necessariamente quelli dei popoli della regione.