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Alla fine Si affaccia una fragile speranza negli occhi dei bambini gazawi che le testimonianze dei medici che hanno operato sul campo descrivono come la «generazione perduta»

Un palestinese gioca con il suo bambino sotto le macerie della loro casa distrutta a Khan Younis foto Ap Un palestinese gioca con il suo bambino sotto le macerie della loro casa distrutta a Khan Younis – foto Ap

Ci sono due modi per affrontare quella che viene dichiarata come «tregua provvisoria di 42 giorn a Gaza», a quanto pare alla fine accettata da Hamas, dal premier israeliano Netanyhau e dall’Idf, l’esercito d’Israele che in un tiro al piccione quotidiano chiamato vergognosamente «guerra» dai media mainstream ha bombardato i “disumani” della Striscia di Gaza con il risultato di più di 46mila civili uccisi, tra i quali 17 mila bambini e migliaia e migliaia di donne, dopo l’eccidio del 7 ottobre e il sequestro di 240 ostaggi israeliani da parte di Hamas. Il primo modo, tradizionale ma assolutamente necessario, è quello di valutare i pro e i contro insieme alla veridicità degli impegni presi dalle parti nell’accordo; poi chi ha vinto e chi ha perso e perché la mattanza è continuata, se è possibile dopo tanta devastazione schematizzare così il risultato, ma farlo è importante perché la tregua era possibile anche 8 mesi fa; e infine il dare e l’avere, perché è chiaro che la concessione della tregua a Gaza avvia una più mirata e non meno distruttiva penetrazione israeliana nell’occupazione, nella colonizzazione e nell’isolamento della Cisgiordania.

L’altro criterio più velleitario se non rischioso, ma essenziale e lungimirante, è quello di leggere la tregua con il metro della speranza, con gli occhi di chi la guerra di annientamento l’ha subita, “sotto”, con lo sguardo rivolto al cielo. Di chi l’ha vissuta sulla propria pelle per più di quindici mesi. Una eternità, tanto è durata la rappresaglia di vendetta israeliana fatta con le armi più raffinate e potenti, cacciabombardieri di ultima produzione, carri armati indistruttibili e droni tecno-criminali pronti a colpire nel mucchio facili bersagli di masse umane indistinte e inermi come nelle migrazioni d’uccelli, per radere al suolo scientemente centri abitati, scuole, ospedali e luoghi di culto.

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E ALLORA COME non tirare un sospiro di sollievo, con due milioni e 300mila persone, un sospiro profondo, quasi impossibile tra la polvere delle macerie accumulate. Come non vedere che una piccola, ultima e fragile speranza si affaccia negli occhi dei bambini gazawi che le riviste scientifiche del mondo, le testimonianze dirette dei medici e delle Ong che hanno operato sul campo descrivono ormai come la «generazione perduta».

VALE A DIRE la generazione di centinaia di migliaia di bambini che non riescono più ad immaginare la realtà, il presente ed il futuro, senza la presenza sanguinosa della guerra, diventata per loro una coazione a ripetere che ha azzerato le menti. In una età che dovrebbe essere affettivo-formativa, abituati come sono – i più grandi tra loro lo erano anche prima del 7 ottobre per le tante guerre subite – invece alla violenza, al rumore assordante delle bombe che arrivano dall’alto di un cielo oscuro senza luce, imparando perfino a distinguerle, a evitare come in uno slalom i proiettili; ad avere terrore di perdere i propri cari, ma anche i grandi in una tale condizione hanno perso la ragione e non soccorrono – a Gaza le mamme chiedono aiuto ai bambini – ; ad essere costretti a correre ansiosi dopo ordini improvvisi di evacuazione, in fuga tra rovine, cadaveri e feriti urlanti, a scoprire la vulnerabilità di un corpo umano dilaniato. «Gaza ospita la più grande coorte di bambini amputati nella storia moderna», ha dichiarato Lisa Doughten, direttrice della divisione finanza e partnership dell’Ufficio affari umanitari dell’Onu al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E a trovarsi ogni mattina con la fame nera dopo un finto sonno, che li ha costretti e li costringe ancora a file disperate per strappare agli altri bambini e bambine con rabbia e scoperta crudeltà un po’ d’acqua e di pane. Spesso soli, abbandonati, senza familiari o amici.

LA TREGUA CHE si annuncia naturalmente non è la pace eternamente promessa al popolo palestinese senza diritti e a cui la propria terra è negata – singolare che il segretario di Stato Blinken che ha alternato rimproveri e tanti miliardi di armi a Israele, si ricordi dello Stato di Palestina cinque giorni prima di uscire di scena con il periclitante Biden. Ma a questo punto quella raggiunta ieri è molto di più della pace mai arrivata: è una zona temporale, una «finestra di opportunità» dicono le Ong – fondamentale per recuperare umanità e diritti, per avere voce, alzarla, pretendere verità – va eseguito l’arresto per crimini di guerra di Netanyahu, magari ora pronto a cantar vittoria, a nuove candidature e avventure politiche. Perché accade il paradosso imperiale che il nuovo Congresso degli Stati uniti metta sanzioni alla Corte penale internazionale: sta per entrare in scena alla Casa bianca Trump, il mentore della supremazia israeliana nella regione e del Patto di Abramo che escludeva i palestinesi, e che nei giorni scorsi prometteva altro «inferno a Gaza…» e ora s’intesta il risultato della tregua,

SE È VERA tregua un popolo intero deve pretendere e ottenere solidarietà. Non l’elemosina televisiva dei governi che sono stati zitti e complici. I bisogni umanitari dovranno essere soddisfatti. Almeno per non morire di fame e di malattie. Allora il ruolo del sistema delle Nazioni unite, anch’esso bombardato scientemente dal governo israeliano, deve essere ripristinato.
Se è vera tregua vale la pena sperare, nel verso del poeta palestinese Ibrahim Nasrallah: «Non si allontani il cielo/ ora è giunto luminoso/ lavato nel sangue bambino/ in campi di rossi papaveri/ soffocati sotto carri cingolati/. Non si allontani il cielo/ è giunto finalmente/…/ è venuto pulito”.