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Molte fini, un nuovo inizio. – Tesi per una sinistra democratica sociale repubblicana

di Carlo Galli il 26 ottobre 2015

La sinistra – Metodo
È da superare il togliattismo senza Togliatti. Il realismo senza una grande idea da preservare e da realizzare non è sinistra, ma opportunismo. È finito il blairismo – l’applicazione pratica della tesi di Giddens che si è raggiunto il culmine della socializzazione e che ora la sinistra deve stare dalla parte del capitale. La terza via ha prodotto una più facile penetrazione del neoliberismo in Europa, mitigandone solo in parte gli effetti. La miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea (soprattutto quella tedesca – storicamente leader del socialismo continentale), incapace d’iniziativa e del tutto schiacciata sulla difesa dell’esistente, è la prova di ciò. Ed è anche finita l’idea che i problemi politici siano tecnici. Destra e sinistra sono ancora gli assi portanti della politica, per nulla sostituibili da ‘vecchio’ e ‘nuovo’.
Sinistra non è un catalogo di valori, né semplicemente lo schierarsi con i deboli, né occuparsi degli ultimi; è una interpretazione intellettuale della società volta a rilevarne le contraddizioni strategiche, a identificarne l’origine, e a porvi rimedio con azioni politiche. Se la sinistra è riformista, le riforme devono essere strutturali, non cosmetiche né populistiche. In ogni caso la sinistra è una parte che persegue egemonia, successo elettorale e orizzonte nazionale senza perdere il proprio carattere orientato.
Che la sinistra sia parte non implica che sia un’ideologia; ideologia è semmai, al contrario, il pensiero unico neoliberista (e ordoliberista) che pretende per sé la naturalità e la non-ideologicità, celando le contraddizioni reali che gli ineriscono.
Oggi ‘radicalità’ significa cogliere che la contraddizione centrale è quella che contrappone ristretti strati elevati, in grado di comprendere le dinamiche del capitale mondiale, e di determinarle attraverso leve economiche o tecnico-burocratiche (a tali strati si aggiungono infatti i tecnici esperti e le forze capitalistiche medie), e gli strati subalterni perennemente agiti e incapaci di protagonismo. La contraddizione centrale è insomma che la società degli individui concorrenziali, che vuol essere il trionfo dell’umanesimo moderno, è organizzata economicamente e culturalmente in modo tale che la grandissima maggioranza delle persone è spossessata della propria autonomia (materiale e intellettuale) spesso senza esserne pienamente consapevole (grazie al ruolo mistificatorio dei media, veicoli del pensiero unico). Questa inconsapevolezza si presenta come disagio, anomia, apatia, o protesta violentemente populista o in comunitarismo escludente (l’individualismo frustrato si rovescia in egoistico etnocentrismo).
All’interno di questa contraddizione strategica, non visibile, si formano poi altri cleavages, visibili, fra chi ha qualcosa e chi non ha nulla, fra integrati ed esclusi (o semi-esclusi, o pericolanti), che derivano in ultima istanza dalla contraddizione principale. I cleavages che molti si compiacciono di enumerare ammonticchiati l’uno accanto all’altro – come se la nostra società fosse davvero liquida e imprendibile concettualmente (il che è falso: questa è l’ideologia del neoliberismo) – implicano in realtà una dimensione dura, strutturale, che li ricodifica: appunto la dimensione dell’accesso (o dell’esclusione) alle (dalle) decisioni che danno forma al mondo d’oggi. Insomma, come i conflitti teologico-politici non avvengono su punti di dottrina islamica, così la fuga dall’Africa e dal Medio Oriente non avviene per una generica ‘miseria’, e la xenofobia non si fonda primariamente su pulsioni psicologiche naturali. Il primum movens è la spinta contraddittoria del capitalismo, e il suo impatto diverso in diverse aree geografiche e in diversi strati sociali.
Compito della sinistra, certo, è scegliere la parte debole ma non restare ferma al livello della sua semplice difesa compensativa; anzi, deve cercare di ricondurre il fuoco dell’attenzione politica sulla contraddizione principale, per non restare intrappolata nelle contraddizioni derivate. Compito fondamentale della sinistra è agire a livello critico e intellettuale per rompere questa inconsapevolezza, per criticarne in modo non moralistico le derive, per spostare l’attenzione dai livelli – pur importanti – della corruzione e della illegalità alle contraddizioni strutturali del presente stato di cose. Insomma, è dare forma politica a contraddizioni crescenti che fino a ora non trovano espressione concettuale e politica. E mostrare concrete alternative, anche attraverso una fisiologica conflittualità democratica.

Economia
È finita l’era del neoliberismo trionfante, anche nel discorso pubblico. Lo Stato non è né un ingombro né un mero regolatore, né mai lo è stato. Non esiste un mercato, un’economia, senza una politica che la sorregga. Ciò che è avvenuto negli ultimi trent’anni non è semplicemente il trionfo del mercato ma di una politica che ha voluto agevolare il mercato e indebolire il lavoro e lo Stato sociale, e che – soprattutto ma non solo in Europa occidentale – non ha creato né lavoro né sviluppo né ricchezza da ridistribuire, ma piuttosto bolle finanziarie di debito privato il cui periodico esplodere mostra la natura strutturalmente di crisi di questa forma del capitalismo.
È finita l’idea neoliberista che ci sia una spontanea convergenza di interessi fra democrazia e mercato, fra capitale e lavoro. La convergenza è semmai episodica, contrattata volta per volta; è il risultato di un parallelogramma di forze, non un a priori indiscutibile.
È finita l’idea che si possano sacrificare i diritti per l’occupazione. Abbiamo avuto il sacrificio reale ma non il beneficio sperato. L’attuale modesta ripresa si fonda quasi esclusivamente sugli incentivi statali alle assunzioni (le esportazioni dipendono dal ciclo internazionale). Intere aree del Paese – il Sud – sono immerse in una depressione senza fine.
Nel linguaggio corrente e anche nel discorso pubblico si sono poste in alternativa equità ed efficienza, e i diritti e l’uguaglianza sono stati sostituiti da concetti come opportunità e merito. Ma è uno schema mistificatorio (fornisce una lettura individualistica e non strutturale della società) e fallimentare (destinato a essere frustrato continuamente), che nasconde la trasformazione oligarchica e plutocratica della società (ormai fondata sulla nascita molto più che sul merito). Il disposto dell’art. 3 Cost. è sostanzialmente violato: è la disuguaglianza e non l’uguaglianza a strutturare l’esistenza collettiva; l’ingiustizia e il privilegio economico, non la giustizia e il diritto (ciò concorda con le ‘leggi’ di sviluppo del capitalismo indicate da Piketty – al netto della valutazione complessiva del suo lavoro). Ciò resta non visto, tranne quando casi di particolare impatto vengono mediaticamente trattati attraverso la mozione degli affetti e l’enfatica promozione di facili quanto effimeri sentimentalismi.
Analogamente, l’analisi della società italiana come un insieme di caste che devono essere liquidate e

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dall'Huffington Post del 4 novembre:

La sinistra si organizza: ecco il documento della nuovo progetto alternativo al Pd

  1. NOI CI SIAMO, LANCIAMO LA SFIDA
    Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.

Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare. Leggi qui l'intero articolo

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Nel 2018 o, meglio, alle pros­sime poli­ti­che, un nuovo sog­getto di sini­stra ci sarà. Sta­volta la deci­sione sem­bra presa e l’impegno sot­to­scritto. Il tavolo della «cosa rossa», che nelle scorse set­ti­mane aveva sfio­rato il fal­li­mento, lunedì sera invece ha tro­vato la qua­dra e par­to­rito il testo di un accordo, un «pre­am­bolo» sulle prin­ci­pali que­stioni sul piatto.
La prima, appunto, la par­tenza imme­diata di un sog­getto «alter­na­tivo e auto­nomo» al Pd. Una par­tenza «non più pro­cra­sti­na­bile» di un pro­cesso costi­tuente demo­cra­tico «di sini­stra inno­va­tivo, uni­ta­rio, plu­rale, inclu­sivo, aperto alle ener­gie e ai con­flitti dei movi­menti dei lavo­ra­tori e delle lavo­ra­trici, dei movi­menti sociali, dell’ambientalismo, dei movi­menti delle donne, dei diritti civili, della cit­ta­di­nanza attiva, del cat­to­li­ce­simo sociale», ed «euro­peo» in quanto «parte di una sini­stra euro­pea anti­li­be­ri­sta, che, con cre­scente forza e nuove forme, sta lot­tando per cam­biare un qua­dro euro­peo insostenibile».
Nel testo si sciol­gono due nodi che fin qui ave­vano rischiato di por­tare allo stallo. Il primo è una que­stione di fondo, e cioè il cer­ti­fi­cato di morte del vec­chio ’cen­tro­si­ni­stra’: in Ita­lia quella sta­gione «è finita», dice il testo. Il secondo è la diretta con­se­guenza sulle pros­sime ammi­ni­stra­tive. Sel, il prin­ci­pale azio­ni­sta del nuovo sog­getto — in quanto a numeri, almeno — fin qui ha deciso di par­te­ci­pare alle pri­ma­rie mila­nesi, anche se i com­pa­gni

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AUTORITARIA e INCOSTITUZIONALE

Con la “riforma” del Senato e l’italicum, Renzi stravolge la Costituzione, nel segno dell’uomo solo al comando

di GIANNI FERRARA (costituzionalista)

da “Sinistra Sindacale” N. 8 www.sinistrasindacale.it

Una premessa è dovuta. Il Parlamento italiano è illegittimo perché eletto con un sistema elettorale giudicato tale con sentenza 1/2014 dalla Corte Costituzionale. In qualsiasi paese civile sarebbe stato sciolto. In Italia invece tale Parlamento legifera, anche in materia costituzionale. In perfetta coerenza con l’incostituzionalità che avvolge tutto l’ordinamento, il Senato ha approvato in prima lettura un progetto di legge che ne modifica la composizione, le funzioni ed il ruolo attribuitogli dalla Costituzione finora vigente. Contribuisce così a concretizzare un disegno. Un disegno eversivo della forma di governo e della forma di Stato e che stravolge l’identità della Repubblica. Eversivo non solo, e non tanto, perché il Senato perde il potere di concedere o revocare la fiducia al governo e conserva, assieme alla Camera, soltanto per alcune materie il potere legislativo: revisione costituzionale, ordinamento dello stato, leggi elettorali, referendum, minoranze linguistiche, organi di governo, comuni, trattati, estensione dell’autonomia regionale.
Il Senato perde quindi la funzione di deliberare sulla maggior parte dei disegni di legge, per i quali ha solo un potere di emendamento che la Camera dei deputati, provvista dell’intera potestà legislativa, può benissimo disattendere. Non tanto per queste menomazioni, la “riforma” del Senato è eversiva; lo è per gli effetti che esse producono sull’intero sistema costituzionale combinandosi con la legge elettorale, l’italicum.
Va intanto rilevato che la configurazione del Senato, approvata martedì 13 ottobre, si colloca fuori dei modelli di seconda camera esistenti nel mondo. In nessun paese, a sistema bicamerale, i membri del senato sono eletti dai consigli regionali “su indicazione” degli elettori, mediante listini abbinati alle liste che competono nelle elezioni regionali. È del tutto evidente, comunque, che “indicazione” non significa voto, e l’ambiguità della formula può permettere non poche e gravi distorsioni. Si aggiunga che

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La proposta di legge costituzionale che il senato voterà oggi dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza. È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata.

Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum». Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo.

Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti — lasciando immutato il numero dei deputati — la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale.

Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo.

Il vero obiettivo della riforma è

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Lotta all'Isis. Il governo Renzi si caratterizza per mancanza di visione, subalternità ai rapporti di forza e di potere internazionali e un inconfessato perseguimento di alcuni interessi economici e geopolitici

I bom­bar­da­menti ita­liani in Iraq sono dun­que sul tavolo. La mini­stra della difesa Pinotti — ascol­tata in Par­la­mento insieme a Gen­ti­loni mar­tedì scorso — ha dichia­rato: «Valu­te­remo nuovi ruoli» e poi: «Quando il governo avrà sta­bi­lito un suo orien­ta­mento, rife­rirà in Par­la­mento». Cioè, tra­dotto in ita­liano: stiamo valu­tando se bom­bar­dare e quando il governo deci­derà, lo farà sapere al Par­la­mento. Bontà sua. Ma le valu­ta­zioni (e le deli­be­ra­zioni) le deve fare il Par­la­mento, non la Pinotti.

La noti­zia di un pos­si­bile inter­vento mili­tare ita­liano in Iraq l’aveva data l’altro ieri il Cor­riere della Sera. Infor­mato, pare, da fonti interne (assai auto­re­voli) del mini­stero della Difesa, sulle cui gerar­chie mili­tari la mini­stra Pinotti sta per­dendo pro­gres­si­va­mente il con­trollo. La richie­sta — più o meno espli­cita — di una par­te­ci­pa­zione ita­liana ai bom­bar­da­menti viene dal governo ame­ri­cano (anche per con­tro­bi­lan­ciare il pro­ta­go­ni­smo russo in Siria) e da quello ira­cheno.
Ma c’è anche la pre­oc­cu­pa­zione delle gerar­chie mili­tari di un pos­si­bile taglio (pre­fi­gu­rato nella legge di sta­bi­lità) del 3% delle spese per la difesa: l’intervento mili­tare usato come pre­te­sto di bot­tega per scon­giu­rare i tagli.
Fin­ché c’è guerra, c’è spe­ranza, reci­tava il titolo di un film con Alberto Sordi.

In Iraq, nella coa­li­zione anti-Isis, l’Italia c’è già con una mis­sione di sor­ve­glianza e di adde­stra­mento. Abbiamo quat­tro Tor­nado che hanno com­piti di pat­tu­glia­mento. La loro influenza (qua­lora doves­sero anche bom­bar­dare) sul corso della lotta anti-Isis è inin­fluente. Ma è la clas­sica ban­die­rina che serve per rita­gliarsi un ruolo nella coa­li­zione (come ai tempi di Cavour con i sol­dati man­dati in Cri­mea) ed impe­dire che la spen­ding review riguardi anche le armi (e non solo gli ospedali).

In audi­zione al Par­la­mento, il mini­stro degli esteri Paolo Gen­ti­loni ha fatto un inter­vento cauto e sobrio, esclu­dendo l’intervento mili­tare, men­tre la mini­stra Pinotti — «la mini­stra con l’elmetto», l’ha defi­nita il vice pre­si­dente della Com­mis­sione Esteri, Era­smo Palaz­zotto nel corso dell’audizione — è stata ambi­gua ed opaca, facendo un mezzo sci­vo­lone. Non è la prima volta: già di fronte al disa­stro della guerra in Libia, alcuni mesi fa, la Pinotti evocò la pos­si­bi­lità di inviare 5mila sol­dati — sti­vali sul ter­reno — salvo poi essere smen­tita il giorno dopo da Mat­teo Renzi alla dire­zione del Pd, che escluse ogni inter­vento militare.

L’«attrazione fatale» verso la guerra è il segno dell’assenza di una stra­te­gia poli­tica verso la lotta all’Isis (che deve essere una stra­te­gia per la solu­zione dei pro­blemi di quell’area geo­gra­fica) e delle dina­mi­che geo­po­li­ti­che dove ogni potenza, grande o media o pic­cola (dalla Rus­sia agli Usa, dalla Fran­cia all’Italia), cerca di rita­gliarsi un pro­prio spa­zio. Il tutto senza fare i conti con l’enorme com­ples­sità dei con­flitti in quell’area, con le con­se­guenze dei flussi migra­tori, con le dina­mi­che poli­ti­che e reli­giose degli attori in campo.

Abbiamo già visto cosa è suc­cesso con l’intervento mili­tare in Libia, che molti con­si­de­ra­vano come riso­lu­tore oltre che per la fine del regime di Ghed­dafi anche per l’avvio di una nuova fase demo­cra­tica nel paese. Invece si è aperto il «vaso di Pan­dora» e l’Isis spa­dro­neg­gia ora anche in quell’area. La guerra è una scor­cia­toia e per para­fra­sare il vec­chio ada­gio non è la con­ti­nua­zione, ma il fal­li­mento della poli­tica con altri mezzi.

Non c’è, non ci sarà alcuna solu­zione mili­tare, nes­suna azione bel­lica, nes­sun bom­bar­da­mento capace di sra­di­care il ter­ro­ri­smo e risol­vere i con­flitti in quell’area, come d’altronde 20 anni di inter­venti mili­tari nel Medio Oriente ci hanno mostrato. Quello che carat­te­rizza que­sto governo è la man­canza di visione, la subal­ter­nità ai rap­porti di forza e di potere inter­na­zio­nali, l’assenza di auto­no­mia e di dise­gno stra­te­gico e l’inconfessato per­se­gui­mento di alcuni inte­ressi eco­no­mici e geo­po­li­tici nazio­nali. Così non si va da nes­suna parte. Anzi, si va dalla parte sba­gliata: quella della guerra.

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