La sinistra – Metodo
È da superare il togliattismo senza Togliatti. Il realismo senza una grande idea da preservare e da realizzare non è sinistra, ma opportunismo. È finito il blairismo – l’applicazione pratica della tesi di Giddens che si è raggiunto il culmine della socializzazione e che ora la sinistra deve stare dalla parte del capitale. La terza via ha prodotto una più facile penetrazione del neoliberismo in Europa, mitigandone solo in parte gli effetti. La miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea (soprattutto quella tedesca – storicamente leader del socialismo continentale), incapace d’iniziativa e del tutto schiacciata sulla difesa dell’esistente, è la prova di ciò. Ed è anche finita l’idea che i problemi politici siano tecnici. Destra e sinistra sono ancora gli assi portanti della politica, per nulla sostituibili da ‘vecchio’ e ‘nuovo’.
Sinistra non è un catalogo di valori, né semplicemente lo schierarsi con i deboli, né occuparsi degli ultimi; è una interpretazione intellettuale della società volta a rilevarne le contraddizioni strategiche, a identificarne l’origine, e a porvi rimedio con azioni politiche. Se la sinistra è riformista, le riforme devono essere strutturali, non cosmetiche né populistiche. In ogni caso la sinistra è una parte che persegue egemonia, successo elettorale e orizzonte nazionale senza perdere il proprio carattere orientato.
Che la sinistra sia parte non implica che sia un’ideologia; ideologia è semmai, al contrario, il pensiero unico neoliberista (e ordoliberista) che pretende per sé la naturalità e la non-ideologicità, celando le contraddizioni reali che gli ineriscono.
Oggi ‘radicalità’ significa cogliere che la contraddizione centrale è quella che contrappone ristretti strati elevati, in grado di comprendere le dinamiche del capitale mondiale, e di determinarle attraverso leve economiche o tecnico-burocratiche (a tali strati si aggiungono infatti i tecnici esperti e le forze capitalistiche medie), e gli strati subalterni perennemente agiti e incapaci di protagonismo. La contraddizione centrale è insomma che la società degli individui concorrenziali, che vuol essere il trionfo dell’umanesimo moderno, è organizzata economicamente e culturalmente in modo tale che la grandissima maggioranza delle persone è spossessata della propria autonomia (materiale e intellettuale) spesso senza esserne pienamente consapevole (grazie al ruolo mistificatorio dei media, veicoli del pensiero unico). Questa inconsapevolezza si presenta come disagio, anomia, apatia, o protesta violentemente populista o in comunitarismo escludente (l’individualismo frustrato si rovescia in egoistico etnocentrismo).
All’interno di questa contraddizione strategica, non visibile, si formano poi altri cleavages, visibili, fra chi ha qualcosa e chi non ha nulla, fra integrati ed esclusi (o semi-esclusi, o pericolanti), che derivano in ultima istanza dalla contraddizione principale. I cleavages che molti si compiacciono di enumerare ammonticchiati l’uno accanto all’altro – come se la nostra società fosse davvero liquida e imprendibile concettualmente (il che è falso: questa è l’ideologia del neoliberismo) – implicano in realtà una dimensione dura, strutturale, che li ricodifica: appunto la dimensione dell’accesso (o dell’esclusione) alle (dalle) decisioni che danno forma al mondo d’oggi. Insomma, come i conflitti teologico-politici non avvengono su punti di dottrina islamica, così la fuga dall’Africa e dal Medio Oriente non avviene per una generica ‘miseria’, e la xenofobia non si fonda primariamente su pulsioni psicologiche naturali. Il primum movens è la spinta contraddittoria del capitalismo, e il suo impatto diverso in diverse aree geografiche e in diversi strati sociali.
Compito della sinistra, certo, è scegliere la parte debole ma non restare ferma al livello della sua semplice difesa compensativa; anzi, deve cercare di ricondurre il fuoco dell’attenzione politica sulla contraddizione principale, per non restare intrappolata nelle contraddizioni derivate. Compito fondamentale della sinistra è agire a livello critico e intellettuale per rompere questa inconsapevolezza, per criticarne in modo non moralistico le derive, per spostare l’attenzione dai livelli – pur importanti – della corruzione e della illegalità alle contraddizioni strutturali del presente stato di cose. Insomma, è dare forma politica a contraddizioni crescenti che fino a ora non trovano espressione concettuale e politica. E mostrare concrete alternative, anche attraverso una fisiologica conflittualità democratica.
Economia
È finita l’era del neoliberismo trionfante, anche nel discorso pubblico. Lo Stato non è né un ingombro né un mero regolatore, né mai lo è stato. Non esiste un mercato, un’economia, senza una politica che la sorregga. Ciò che è avvenuto negli ultimi trent’anni non è semplicemente il trionfo del mercato ma di una politica che ha voluto agevolare il mercato e indebolire il lavoro e lo Stato sociale, e che – soprattutto ma non solo in Europa occidentale – non ha creato né lavoro né sviluppo né ricchezza da ridistribuire, ma piuttosto bolle finanziarie di debito privato il cui periodico esplodere mostra la natura strutturalmente di crisi di questa forma del capitalismo.
È finita l’idea neoliberista che ci sia una spontanea convergenza di interessi fra democrazia e mercato, fra capitale e lavoro. La convergenza è semmai episodica, contrattata volta per volta; è il risultato di un parallelogramma di forze, non un a priori indiscutibile.
È finita l’idea che si possano sacrificare i diritti per l’occupazione. Abbiamo avuto il sacrificio reale ma non il beneficio sperato. L’attuale modesta ripresa si fonda quasi esclusivamente sugli incentivi statali alle assunzioni (le esportazioni dipendono dal ciclo internazionale). Intere aree del Paese – il Sud – sono immerse in una depressione senza fine.
Nel linguaggio corrente e anche nel discorso pubblico si sono poste in alternativa equità ed efficienza, e i diritti e l’uguaglianza sono stati sostituiti da concetti come opportunità e merito. Ma è uno schema mistificatorio (fornisce una lettura individualistica e non strutturale della società) e fallimentare (destinato a essere frustrato continuamente), che nasconde la trasformazione oligarchica e plutocratica della società (ormai fondata sulla nascita molto più che sul merito). Il disposto dell’art. 3 Cost. è sostanzialmente violato: è la disuguaglianza e non l’uguaglianza a strutturare l’esistenza collettiva; l’ingiustizia e il privilegio economico, non la giustizia e il diritto (ciò concorda con le ‘leggi’ di sviluppo del capitalismo indicate da Piketty – al netto della valutazione complessiva del suo lavoro). Ciò resta non visto, tranne quando casi di particolare impatto vengono mediaticamente trattati attraverso la mozione degli affetti e l’enfatica promozione di facili quanto effimeri sentimentalismi.
Analogamente, l’analisi della società italiana come un insieme di caste che devono essere liquidate e
Leggi tutto: Molte fini, un nuovo inizio – Tesi per una sinistra democratica sociale repubblicana
Commenta (0 Commenti)dall'Huffington Post del 4 novembre:
Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare. Leggi qui l'intero articolo
Commenta (0 Commenti)Nel 2018 o, meglio, alle prossime politiche, un nuovo soggetto di sinistra ci sarà. Stavolta la decisione sembra presa e l’impegno sottoscritto. Il tavolo della «cosa rossa», che nelle scorse settimane aveva sfiorato il fallimento, lunedì sera invece ha trovato la quadra e partorito il testo di un accordo, un «preambolo» sulle principali questioni sul piatto.
La prima, appunto, la partenza immediata di un soggetto «alternativo e autonomo» al Pd. Una partenza «non più procrastinabile» di un processo costituente democratico «di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale», ed «europeo» in quanto «parte di una sinistra europea antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile».
Nel testo si sciolgono due nodi che fin qui avevano rischiato di portare allo stallo. Il primo è una questione di fondo, e cioè il certificato di morte del vecchio ’centrosinistra’: in Italia quella stagione «è finita», dice il testo. Il secondo è la diretta conseguenza sulle prossime amministrative. Sel, il principale azionista del nuovo soggetto — in quanto a numeri, almeno — fin qui ha deciso di partecipare alle primarie milanesi, anche se i compagni
AUTORITARIA e INCOSTITUZIONALE
Con la “riforma” del Senato e l’italicum, Renzi stravolge la Costituzione, nel segno dell’uomo solo al comando
di GIANNI FERRARA (costituzionalista)
da “Sinistra Sindacale” N. 8 www.sinistrasindacale.it
Una premessa è dovuta. Il Parlamento italiano è illegittimo perché eletto con un sistema elettorale giudicato tale con sentenza 1/2014 dalla Corte Costituzionale. In qualsiasi paese civile sarebbe stato sciolto. In Italia invece tale Parlamento legifera, anche in materia costituzionale. In perfetta coerenza con l’incostituzionalità che avvolge tutto l’ordinamento, il Senato ha approvato in prima lettura un progetto di legge che ne modifica la composizione, le funzioni ed il ruolo attribuitogli dalla Costituzione finora vigente. Contribuisce così a concretizzare un disegno. Un disegno eversivo della forma di governo e della forma di Stato e che stravolge l’identità della Repubblica. Eversivo non solo, e non tanto, perché il Senato perde il potere di concedere o revocare la fiducia al governo e conserva, assieme alla Camera, soltanto per alcune materie il potere legislativo: revisione costituzionale, ordinamento dello stato, leggi elettorali, referendum, minoranze linguistiche, organi di governo, comuni, trattati, estensione dell’autonomia regionale.
Il Senato perde quindi la funzione di deliberare sulla maggior parte dei disegni di legge, per i quali ha solo un potere di emendamento che la Camera dei deputati, provvista dell’intera potestà legislativa, può benissimo disattendere. Non tanto per queste menomazioni, la “riforma” del Senato è eversiva; lo è per gli effetti che esse producono sull’intero sistema costituzionale combinandosi con la legge elettorale, l’italicum.
Va intanto rilevato che la configurazione del Senato, approvata martedì 13 ottobre, si colloca fuori dei modelli di seconda camera esistenti nel mondo. In nessun paese, a sistema bicamerale, i membri del senato sono eletti dai consigli regionali “su indicazione” degli elettori, mediante listini abbinati alle liste che competono nelle elezioni regionali. È del tutto evidente, comunque, che “indicazione” non significa voto, e l’ambiguità della formula può permettere non poche e gravi distorsioni. Si aggiunga che
La proposta di legge costituzionale che il senato voterà oggi dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza. È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata.
Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum». Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo.
Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti — lasciando immutato il numero dei deputati — la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale.
Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo.
Il vero obiettivo della riforma è
Commenta (1 "Commento")Lotta all'Isis. Il governo Renzi si caratterizza per mancanza di visione, subalternità ai rapporti di forza e di potere internazionali e un inconfessato perseguimento di alcuni interessi economici e geopolitici
I bombardamenti italiani in Iraq sono dunque sul tavolo. La ministra della difesa Pinotti — ascoltata in Parlamento insieme a Gentiloni martedì scorso — ha dichiarato: «Valuteremo nuovi ruoli» e poi: «Quando il governo avrà stabilito un suo orientamento, riferirà in Parlamento». Cioè, tradotto in italiano: stiamo valutando se bombardare e quando il governo deciderà, lo farà sapere al Parlamento. Bontà sua. Ma le valutazioni (e le deliberazioni) le deve fare il Parlamento, non la Pinotti.
La notizia di un possibile intervento militare italiano in Iraq l’aveva data l’altro ieri il Corriere della Sera. Informato, pare, da fonti interne (assai autorevoli) del ministero della Difesa, sulle cui gerarchie militari la ministra Pinotti sta perdendo progressivamente il controllo. La richiesta — più o meno esplicita — di una partecipazione italiana ai bombardamenti viene dal governo americano (anche per controbilanciare il protagonismo russo in Siria) e da quello iracheno.
Ma c’è anche la preoccupazione delle gerarchie militari di un possibile taglio (prefigurato nella legge di stabilità) del 3% delle spese per la difesa: l’intervento militare usato come pretesto di bottega per scongiurare i tagli.
Finché c’è guerra, c’è speranza, recitava il titolo di un film con Alberto Sordi.
In Iraq, nella coalizione anti-Isis, l’Italia c’è già con una missione di sorveglianza e di addestramento. Abbiamo quattro Tornado che hanno compiti di pattugliamento. La loro influenza (qualora dovessero anche bombardare) sul corso della lotta anti-Isis è ininfluente. Ma è la classica bandierina che serve per ritagliarsi un ruolo nella coalizione (come ai tempi di Cavour con i soldati mandati in Crimea) ed impedire che la spending review riguardi anche le armi (e non solo gli ospedali).
In audizione al Parlamento, il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha fatto un intervento cauto e sobrio, escludendo l’intervento militare, mentre la ministra Pinotti — «la ministra con l’elmetto», l’ha definita il vice presidente della Commissione Esteri, Erasmo Palazzotto nel corso dell’audizione — è stata ambigua ed opaca, facendo un mezzo scivolone. Non è la prima volta: già di fronte al disastro della guerra in Libia, alcuni mesi fa, la Pinotti evocò la possibilità di inviare 5mila soldati — stivali sul terreno — salvo poi essere smentita il giorno dopo da Matteo Renzi alla direzione del Pd, che escluse ogni intervento militare.
L’«attrazione fatale» verso la guerra è il segno dell’assenza di una strategia politica verso la lotta all’Isis (che deve essere una strategia per la soluzione dei problemi di quell’area geografica) e delle dinamiche geopolitiche dove ogni potenza, grande o media o piccola (dalla Russia agli Usa, dalla Francia all’Italia), cerca di ritagliarsi un proprio spazio. Il tutto senza fare i conti con l’enorme complessità dei conflitti in quell’area, con le conseguenze dei flussi migratori, con le dinamiche politiche e religiose degli attori in campo.
Abbiamo già visto cosa è successo con l’intervento militare in Libia, che molti consideravano come risolutore oltre che per la fine del regime di Gheddafi anche per l’avvio di una nuova fase democratica nel paese. Invece si è aperto il «vaso di Pandora» e l’Isis spadroneggia ora anche in quell’area. La guerra è una scorciatoia e per parafrasare il vecchio adagio non è la continuazione, ma il fallimento della politica con altri mezzi.
Non c’è, non ci sarà alcuna soluzione militare, nessuna azione bellica, nessun bombardamento capace di sradicare il terrorismo e risolvere i conflitti in quell’area, come d’altronde 20 anni di interventi militari nel Medio Oriente ci hanno mostrato. Quello che caratterizza questo governo è la mancanza di visione, la subalternità ai rapporti di forza e di potere internazionali, l’assenza di autonomia e di disegno strategico e l’inconfessato perseguimento di alcuni interessi economici e geopolitici nazionali. Così non si va da nessuna parte. Anzi, si va dalla parte sbagliata: quella della guerra.
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