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CLIMA. Cinque proposte dal presidente dell'organizzazione ambientalista, che afferma: «Di fronte a questa fotografia è fondamentale chiedere con forza al governo Meloni di fare ciò che gli altri non hanno fatto»

foto Stefano Ciafani, presidente di Legambiente Stefano Ciafani, presidente di Legambiente

«I dati che presentiamo ci hanno colpito molto, perché non immaginavamo un aumento così significativo degli eventi estremi nel 2022 rispetto al 2021. Di fronte a questa fotografia è fondamentale chiedere con forza al governo Meloni di fare ciò che gli altri non hanno fatto» attacca Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.

Una delle vostre richieste è sul Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Su cui il ministero di Pichetto Fratin ha fatto passi in avanti.

Il ministro ha rispettato l’impegno di pubblicare entro la fine dell’anno la bozza, scritta dal governo Gentiloni e dal ministro Galletti. Cosa che i governi Conte I, Conte II e Draghi non avevano fatto. Un impegno che i due ministri di Ambiente e Transizione ecologica dei tre esecutivi, Costa e Cingolani, non avevano fatto. Gli uffici di Pichetto Fratin hanno aggiornato il testo, per quello che si poteva fare in un mese, e avviato una consultazione che speriamo possa concludersi nei primi mesi del 2023.

Un passo in avanti, quindi?

Oggi tutti possono leggere un testo i cui contenuti fanno paura, perché parla di un aumento atteso delle morti premature per le ondate di calore nelle città ma anche della riduzione dei flussi turistici nel centro Sud-Italia, come effetto di un clima sempre più torrido, o della diminuzione delle produzione agro-alimentare con danni al Pil per decine di miliardi di euro. Aiuta a capire che i cambiamenti climatici non sono solo un problema degli ambientalisti ma riguarda il sistema Paese.

La politica lo ha compreso?

Oltre a scrivere il Piano servono le risorse – che non stanno nella legge di Bilancio appena approvata – per dare gambe alle soluzioni. Come risolviamo questa crisi data dalle ondate di calore? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive? Tutto questo andrebbe sostanziato con un adeguato stanziamento di risorse che non è stato nemmeno oggetto di discussione. Siamo alla fine del primo tempo. Trovo insopportabile che oggi Sergio Costa, vicepresidente della Camera, dica che il testo del Piano andava completamente riscritto. Perché non lo ha fatto da ex ministro in carica per due anni e mezzo?

Cosa suggerite per il secondo tempo?

Servono risorse e un’indicazione efficace sul loro utilizzo. Sul fronte della mitigazione, non abbiamo visto a oggi cambiamenti di approccio di questo governo rispetto al precedente. Draghi, pur realizzando alcune semplificazione sulle autorizzazioni per le rinnovabili, ha autorizzato nuove infrastrutture legate al gas. Come il potenziamento dei gasdotti e l’aumento della capacità massima dei rigassificatori. Questo poteva servire in una fase emergenziale, quella che è seguita all’invasione russa in Ucraina, ma oggi bisogna mettere in campo una strada sola, quella delle rinnovabili. Meloni invece ha continuato a lavorare sui due binari: da una parte sbloccando le trivelle tra 9 e 12 miglia dalla costa; dall’altra raddoppiando i componenti delle commissioni Via e Vas. Però non ha ancora approvato il decreto per le comunità energetiche. In conferenza stampa ha specificato che servono nuovi rigassificatori, fissi e non solo galleggianti. A chi si lamenta dicendo che l’eolico rischia di danneggiare il paesaggio appenninico, chiedo come giudicano la nuova dorsale appenninica del gas, da Brindisi alla Pianura Padana. Sono infrastrutture rigide che rischiano di bloccarci, di impantanarci per i prossimi trent’anni.

Che cosa serve, da subito?

Cinque azioni urgenti: veloce approvazione del Piano nazionale di adattamento climatico, con stanziamento di adeguate risorse economiche per attuarlo; aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) agli obiettivi europei di riduzione dei gas climalteranti del REPowerEU, dimenticato dal governo Draghi; nuove semplificazioni per tutti gli impianti a fonti rinnovabili, a partire dal repowering per gli impianti eolici esistenti; velocizzazione degli iter autorizzativi con nuove linee guida del ministero della Cultura per le sovrintendenze e una forte azione di sostegno e sollecitazione alle regioni per potenziare gli uffici che autorizzano gli impianti

 

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2022, L'ANNO NERO. Una guerra che nessuna cancelleria credeva possibile fino al giorno dell’invasione. Un’inflazione al galoppo che nessuna banca centrale prendeva sul serio. Una pandemia che torna in prima pagina con il […]

Una guerra che nessuna cancelleria credeva possibile fino al giorno dell’invasione. Un’inflazione al galoppo che nessuna banca centrale prendeva sul serio. Una pandemia che torna in prima pagina con il testa-coda cinese sulle misure per contenerla. Manca giusto qualche evento estremo (alluvioni e siccità) e la lista dell’orribile 2022 potrebbe essere completa.

Da dieci mesi viviamo l’orrore quotidiano scatenato da Putin contro il popolo ucraino. Dieci mesi di barbarica invasione, atroci crimini di guerra, il più grande esodo di cittadini europei inseguiti dalle bombe, una popolazione civile come principale, dichiarato, persino ostentato obiettivo bellico. E ancora non si vede uno spiraglio per un cessate il fuoco che possa avviare una trattativa di pace.
Se restiamo con lo sguardo sul mondo, un altro regime insanguina il suo popolo, stupra uomini e donne, imprigiona e impicca sulle gru nelle piazze. Un massacro di ragazzi, bambini e donne affamate di libertà, disposte a giocarsi la vita piuttosto che trascorrerla come schiave del medioevale regime degli ayatollah.

Né Putin, né Khamenei, alleati nella guerra ai miscredenti dell’Occidente collettivo, metteranno facilmente fine alle loro atrocità, ma dobbiamo essere convinti che, sia per la criminale invasione putiniana, sia per la repressione assassina iraniana, serve una mobilitazione costante della comunità internazionale, dei movimenti sociali, dei governi.

Se invece volgiamo lo sguardo al nostro paese, siamo costretti a prendere atto di un 2022 nero. In ogni senso. A cominciare dal

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LE NOSTRE LENTI. 16 pagine speciali per provare a raccontare come si va controcorrente per dare speranza, gambe e cuore alle alternative possibili

https://ilmanifesto.it/squarci-di-futuri-possibili

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona, occhiali e il seguente testo "Siamo lenti. ilma testo QUANDO IL PAESE SEMBRA NERO, VEDE BENE CHI VEDE ROSSO. VEDIAMOCI ÛOITUTIIO.AONILMAIFESTO. ABBONATI AL MANIFESTO. TUTTI Luciana Castellina perilmanifesto per manifesto Abbonati"

Se guardiamo il mondo con occhiali diversi, con uno sguardo tutto nostro, se «siamo lenti», come dice lo slogan della nostra campagna abbonamenti, allora proviamo a squarciare il cielo plumbeo che avvolge il Pianeta. Proviamo a illuminare le idee, le battaglie, le utopie di chi, ogni giorno, per mare e per terra, vive e lavora per il bene comune. Di chi di fronte alle ingiustizie e alle sofferenze dei popoli non si gira dall’altra parte. Queste 16 pagine speciali provano a raccontare come si va controcorrente per dare speranza, gambe e cuore alle alternative possibili. In un momento in cui i partiti si sgonfiano e la militanza trasmigra nella società.

Così è per la meravigliosa flotta delle Ong, osteggiate in ogni modo dal governo italiano, organizzazioni capaci di restituire la vita a migliaia di migranti e l’onore alla grande storia del Mediterraneo.

Un’alternativa di dimensione ugualmente globale, capace di bucare il muro della sordità mondiale, è quella che ci arriva dai ragazzi dei Fridays. Proviamo a conoscerli un po’ più da vicino grazie a uno studio sociologico. Si può persino immaginare un modo diverso di produrre, con una comunione tra intellettuali, operai e territorio, come capita alla Gkn di Campi Bisenzio dopo il no dei lavoratori alla delocalizzazione.

Dal cuore persiano dell’Oriente, ci interpella l’incredibile, sconvolgente lotta delle donne e della giovane società iraniana che ormai da più di cento giorni si oppone alla ferocia del regime sanguinario. E da oltreoceano, dall’America latina, viene anche un concreto esempio di come contrastare una delle forme più brutali del capitalismo, l’estrattivismo che depreda le popolazioni.

Donne in prima linea ci parlano anche dal Rojava, da loro riceviamo un esempio di libertà e democrazia in un paese violentato dalla brutalità della guerra e del patriarcato.

Oltre che nei movimenti, diritti materiali e diritti civili si fanno strada nelle istituzioni, come succede in Spagna grazie al pervicace impegno di una ministra femminista che ci racconta delle leggi che offrono a ciascuno di realizzare il proprio progetto di vita sessuale.

Infine le strabilianti frontiere delle tecnoscienze e del pensiero. Per allontanare il catastrofismo, e avvicinarci all’utopia.

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CRISI UCRAINA. La road map dello storico russo Vladislav Zubok: «Bisogna far capire a Mosca i rischi che corre continuando la guerra, dal declino economico a una sempre maggiore dipendenza dalla Cina»

 Vladimir Putin durante un discorso alla nazione - Getty Images

Che cosa rende difficile la pace tra Kiev e Mosca? Il mito della “vittoria totale” sul nemico che aleggia sia nella propaganda dell’aggressore russo che sul fronte ucraino aggredito. Ma la guerra non si può vincere soltanto con mezzi militari, avvertiva qualche settimana fa il capo di stato maggiore americano Mark Milley suggerendo negoziati di pace. «La posizione di Milley – sottolinea lo storico russo Vladislav Zubok, che insegna alla London School of Economics (Lse) di Londra- finora ha trovato purtroppo pochi sostenitori».

Ma che cosa è una vittoria completa per gli ucraini e i loro alleati? «Se lo chiede Milley ma anche noi», dice Zubok che di recente ha espresso il suo punto di vista su Foreign Affairs. La vittoria totale può richiedere una guerra ancora più lunga e sanguinosa. «Coloro che auspicano una vittoria totale si aspettano che Putin esca di scena. E la Russia, nonostante le sconfitte, non è collassata».

LA VIA DI USCITA auspicata da Kiev è tornare ai confini del 24 febbraio 2022, alla vigilia dell’invasione. Ma anche il ritorno allo status quo ante non garantisce che la Russia non riprovi tra qualche tempo una nuova invasione. La deterrenza militare da sola potrebbe non essere sufficiente alla pace.

Manca un piano coerente che garantisca l’Ucraina anche se Putin restasse al potere. È necessario, questo è il punto di Zubok, che la Russia accetti la sconfitta e l’Ucraina l’eventualità che una vittoria totale non è possibile.

Per arrivare a un vero negoziato Mosca, secondo lo storico russo – autore di importanti volumi sull’Urss (tra cui Collapse: The fall of Soviet Union, Yale University Press, 2021) – è necessario che l’Occidente non releghi la Russia alla condizione di stato pariah considerando da una parte il suo «ritorno in Europa», dall’altra assicurando a Kiev garanzie credibili per la sua sicurezza.

Chi ritiene questo percorso impossibile confida nel crollo di Mosca. Ma la sua economia non è al collasso: c’è stato un calo ma assai inferiore al previsto (secondo l’Ocse il Pil 2022 segnerà un meno 3-4%) e nonostante Mosca sia stata tagliata fuori dall’Occidente vanta un largo surplus dei conti correnti per le vendite di idrocarburi (di cui 85 miliardi di dollari, non dimentichiamolo, in Europa).

Del resto durante la Guerra fredda le sanzioni non avevano forzato Mosca a ritirarsi dall’Europa orientale ed è improbabile che ci riescano oggi. Putin ha delegato l’economia a chi ne capisce: la banca centrale guidata da Elvira Nabiullina è piena di nerd iper-qualificati intervenuti tempestivamente per impedire un collasso economico, pur avendo il rublo perso un quarto del valore sul dollaro.

QUESTA, inoltre – annotava l’Economist Intelligence Unit – è la quinta crisi economica che il paese affronta in 25 anni e la gente ha imparato ad adattarsi piuttosto che andare nel panico o ribellarsi. Quanto a Putin, l’aggressore, è ben conscio delle conseguenze di una sconfitta ma nonostante abbia distorto le origini e la storia dell’Ucraina non è nelle condizioni dello Zar Nicola II quando abdicò nel 1917 e neppure in quelle di Gorbaciov quando nel ‘91 venne abbandonato dagli apparati di sicurezza perdendo il controllo della capitale.

Putin tiene ancora in pugno l’esercito e i servizi mentre la maggior parte dei russi sostiene il governo e non è pronta ad accettare una sconfitta totale. La Crimea per loro vale ancora una guerra e Putin rimane il garante della stabilità. La sconfitta e una sua caduta costituiscono un incubo politico sia per le élite che a livello popolare evocando l’anarchia e i disastri economici dei primi anni ’90.

Naturalmente Putin sguazza nella palude narrativa che la Russia in Ucraina stia combattendo una battaglia esistenziale contro l’Occidente. È difficile, annota Zubok, far cambiare idea ai russi anche se un numero crescente non si fida del governo e dei media ufficiali, come per altro non si fida troppo neppure dell’Occidente. Il fatto che si continui a insistere sulla punizione della Russia per i massacri in Ucraina consolida nella popolazione l’idea che si debba comunque sostenere la nazione e il nazionalismo.

Certo la situazione potrebbe cambiare se le sconfitte si moltiplicassero e la mobilitazione militare diventasse pervasiva con l’opinione pubblica che cominciasse a incolpare Putin dei suoi errori come accadde allo Zar e a Gorbaciov.

MA PRIMA di arrivare a questo punto – se ci si arriverà – l’Occidente dovrebbe prepararsi a offrire a alla Russia una “road map” per uscire dall’isolamento. «Bisogna far capire a Mosca – dice Zubok – i rischi che corre continuando la guerra, dal declino economico a una sempre maggiore dipendenza dalla Cina».

Questi argomenti potrebbero funzionare. Lo dimostra il fatto che Mosca ha accennato alla riapertura del gasdotto Yamal con l’Europa: grazie alle sanzioni le società energetiche americane (Financial Times, 5 novembre) hanno registrato tra aprile e settembre 2022 extra profitti per 200 miliardi di dollari mentre le metaniere Usa navigano davanti alle coste europee per scaricare quando i prezzi saliranno ancora.

Quali sono i punti della road map suggerita da Zubok? 1) Sottolineare i vantaggi della pace per Mosca; 2) Garantire il rispetto per la sovranità e l’integrità della Russia; 3) Un accordo con la Nato che assicuri Mosca il suo posto nell’architettura per la sicurezza in Europa; 4) Il riconoscimento della leadership russa se si impegna al rispetto della Carta dell’Onu e delle leggi internazionali; 5) Un calendario per la restituzione degli asset congelati e la rimozione delle sanzioni legato però al rispetto del ritiro dai territori occupati.

È inutile nascondersi che la Crimea resta un grave problema, uno degli ostacoli maggiori ai negoziati: forse sarebbe meglio stralciare questo capitolo e rinviarlo al futuro. Non è una soluzione, ovviamente, ma forse per trovarla ci vuole più immaginazione di quanta ne circoli oggi

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COMMENTI. Oltre alla bocciatura del salario minimo il Governo si appresta a reintrodurre i voucher per il lavoro accessorio, di fatto tornando alla liberalizzazione del 2012 prima della loro abolizione avvenuta nel 2017

Via il reddito di cittadinanza, avanti tutta con i voucher

Lavorare non è sempre sufficiente per non essere poveri, e questo non è vero solo in Italia. Nel nostro Paese, però, il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato che negli altri Stati europei: l’indicatore prodotto da Eurostat mostra che nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%. La pandemia da Covid-19 ha esacerbato il fenomeno, esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione.

Ma chi sono i working poor? Secondo l’indicatore adottato dall’Unione europea, un individuo rientra in questa categoria se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi (solitamente sette) nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale.

A livello settoriale l’incidenza del fenomeno è particolarmente alta nella

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Gli interventi contro gli effetti della competizione individuale sono sbagliati. Il problema non è chi accumula ricchezza ma chi non partecipa alla gara del mercatoModello Orban-Meloni, avanti il merito indietro i diritti "Still Being" di Antony Gormley

Victor Orban l’aveva detto in uno dei suoi più celebri discorsi, al Chatham House di Londra nel 2013: non si tratta di combattere il neo-capitalismo, bensì di difendere la produzione nazionale. Il codice del lavoro deve essere più flessibile. Il sistema fiscale non deve redistribuire la ricchezza bensì avvantaggiare coloro che vogliono lavorare di più e assumere personale. Il concetto di Stato sociale – per Orban – appartiene al passato e lo stato deve essere costruito sul merito e non sui diritti.

E’ facile notare l’affinità con gli orientamenti del governo Meloni: non bisogna ripristinare il diritto al reddito di tanti soggetti impossibilitati a esercitare pienamente la cittadinanza per meccanismi indipendenti dalla loro volontà, bensì chiedere in cambio qualcosa affinché se la meritino; il sistema fiscale deve procedere in senso anti-progressivo perché la redistribuzione toglie a chi ha meritato per dare a chi non merita; le pensioni minime non vanno alzate più di tanto perché l’anziano non produce e non è più meritevole.

Questi assunti si sposano all’idea che non bisogna disturbare “chi vuole fare”. Dunque qualsiasi intervento della collettività, per attenuare gli effetti della competizione individuale, è disfunzionale: anche il salario minimo. Il problema non è chi accumula ricchezza a discapito delle moltitudini, bensì chi non si getta con sufficiente energia nella gara del mercato per emulare questi campioni.

Stesso discorso per la questione ecologica. La Meloni lo ha detto chiaramente: tutela dell’ambiente sì ma finché non limita le esigenze produttive. A ben vedere la posizione vitalistica collima con quella di Fratelli d’Italia (e della Lega) nei mesi della pandemia: la collettività non deve disturbare chi vuole produrre imponendo restrizioni sia pure dettate da motivi sanitari.

Ma non vi ricordate l’irrequietezza di Renzi verso le restrizioni di Conte? Queste posizioni produttivistico-competitive, infatti, non fanno altro che radicalizzare quelle da decenni coltivate dallo stesso centrosinistra e dalla cultura mainstream. Né pentastellati, né democratici hanno sostenuto forme di patrimoniale. Lo stesso reddito di cittadinanza dei cinque stelle non è universale ma meritocraticamente subordinato allo scambio con il lavoro. Per non parlare del Pd che lo aveva recisamente avversato, con una determinazione che ritroviamo nella cultura imprenditorial-produttivistica portata avanti dall’ex renziano Bonaccini (non basta dirsi difensori della sanità e dell’istruzione pubblica per pensare di poter combattere le diseguaglianze e la precarietà del lavoro accresciuta con il job act), con la cui vittoria al congresso il cerchio politico del populismo di mercato verrebbe a chiudersi in modo pressoché ermetico.

Ma per capire cosa è successo guardiamo nello specchio della storia. C’è stato solo un punto da cui dissentivo nella bella intervista che qualche settimana fa, su queste giornale, Enzo Traverso ha rilasciato a Roberto Ciccarelli. E cioè che il culto del merito sia proprio di una cultura neoliberista e non del retaggio fascista, in quanto quest’ultimo sarebbe stato statalista e autoritario. Infatti – e questo valga anche per i critici di Stella Morgana – da un lato autoritarismo e neoliberismo sono venuti assieme alla luce della politica di governo novecentesca: con Pinochet nel ’73 per poi rideclinarsi in salsa “democratica” con Reagan e la Thatcher.

Ma andando più indietro al regno delle madri, va considerato che il fascismo nasce liberista in politica e – come variamente argomentato di recente da Alessio Gagliardi – anche nella fase in cui ha reagito alla Grande depressione con dirigismo e nazionalizzazioni, ha seguito un movimento globale interno al capitalismo, continuando peraltro a comprimere i salari e a predicare l’austerità per i ceti meno abbienti (su ciò anche gli studi di Clara Mattei).

La politica antiproletaria di Mussolini, infatti, raccoglie le istanze nazionaliste che non solo volevano scongiurare il pericolo bolscevico ma anche le politiche sociali riformiste imputate di sottrarre risorse alla competitività del capitale italiano. Se per il nazionalista “democratico” Sighele la democrazia si basa su diseguaglianze legate al merito, per il nazionalismo antidemocratico (quello di Corradini, Rocco e Coppola), invece, la democrazia affossa il merito, impedendo alle capacità e alle intelligenze di emergere. Ma sarà lo stesso Mussolini – come ha ben spiegato anni fa Angelo D’Orsi – a farsi interprete della reazione della borghesia contro l’erompere delle masse al governo delle città, rivendicando un filtraggio selezionista e meritocratico, di cui uno Stato forte si facesse garante. Per garantire, cioè, che i più forti continuassero ad avere la loro giusta ricompensa e non fossero disturbati

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