COMMENTI. Né Russia né Ucraina sono vicini a concepire colloqui di pace. Sul campo c’è solo più combattimento verso una «vittoria rapida». E sul fronte internazionale si allungano ombre pesanti
Dopo gli attacchi russi alla periferia di Bakhmut - foto Ap
«Mi piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso giusto».
Arrivati a gennaio, freddo e gelo non hanno rallentato sostanzialmente le ostilità: droni e missili restano più che mai protagonisti, anche se non si registrano sfondamenti del fronte – che assomiglia sempre più al tritacarne evocato dal boss dei mercenari russi, Prigozhin. Nulla oggi lascia pensare che la guerra rallenterà la sua corsa. Mobilitando nuove reclute, mostrandosi pronto a reggere ed imporre un costo insostenibile di vite umane, il Cremlino alterna riferimenti al negoziato con massicci bombardamenti.
PUTIN PUNTA a guadagnare tempo e forzare un accordo che legittimi le conquiste, portando divisioni in campo ucraino e scardinando il principio di intoccabilità dei confini internazionali. Gli ucraini dichiarano che Putin è vicino alla morte per malattia. Dispongono di uno degli eserciti più rodati al mondo e sono appoggiati da un Occidente che ha tutto l’interesse a non vedere scalfita, davanti alla Cina e alle potenze emergenti, l’immagine di efficacia ed unità di cui, dopo il disastro afghano, ha dato prova. L’invasione russa ha turbo-caricato il nazionalismo ucraino, che autoproclama la benigna inclusività dei propri miti: ha celebrato il compleanno di Stepan Bandera, senza troppo preoccuparsi per critiche suscitate fra i sostenitori ad Ovest, a partire dai polacchi.
Più in generale, la guerra in Ucraina proietta una lunga e densa ombra sulle relazioni internazionali. Essa ha dato corda all’aggressività militare di Erdogan, l’alleato Nato che ama scagliarsi contro Washington e fare affari con Mosca. Piagata da un’inflazione oltre l’80%, la Turchia affronta nel 2023 elezioni incerte, mentre è impegnata non solo ad invadere il nord della Siria in chiave anti-curda, ma anche a rafforzare la propria influenza militare in Africa (Libia e Somalia) e a sostenere il regime azerbaijano nella guerra agli armeni. Mentre soffiano i venti della recessione economica, la guerra in Ucraina si è rivelata una manna per l’Arabia Saudita, che ha allargato le proprie quote sul mercato del petrolio, opponendo un netto rifiuto alla richiesta americana di aumentare la produzione per calmare la corsa dei prezzi. Lontano dai riflettori mediatici, il conflitto fra Etiopia e tigrini ha mietuto mezzo milione di vittime. Al di là degli scenari di crisi (Iran e Pakistan, ma anche Libano, Yemen e Haiti) inflazione, insicurezza alimentare, pandemia e variabilità climatica (eventi estremi) restano fattori che non solo destabilizzano il sud del mondo, ma premono in misura crescente anche su un paese come l’Italia che – reso fragile da un crescente divario sociale – si qualifica (per poco) fra le prima dieci economie del mondo.
NÉ RUSSIA NÉ UCRAINA sembrano in alcun modo vicini a concepire colloqui di pace. La scommessa di Mosca sullo sgretolamento del consenso occidentale per l’Ucraina nel corso dell’inverno sta in larga parte mostrandosi perduta. La proposta del Patriarca russo Kirill- accolta e rilanciata da Putin – di una «tregua bilaterale» per il Natale ortodosso suona assai controversa, essendo premessa su un’idea di unità religiosa fra russi e ucraini che il Patriarcato di Mosca ha minato.
Se guardiamo alle linee di tendenza che caratterizzano i conflitti armati nell’era successiva alla Guerra Fredda, notiamo il vacillare di quella logica strumentale di controllo che possiamo in qualche modo ricondurre alla tradizione del pensiero realista, da Machiavelli a Clausewitz: un’idea di stati sovrani funzionanti, incommensurabilmente più capaci, in termini coercitivi, economici ed ideologici, rispetto a qualsiasi altro attore. Le guerre di oggi sono attraversate da nozioni di soft power, diffusione tecnologica, disintermediazione dell’informazione, milizie paramilitari e compagnie di sicurezza private. L’unicità dello stato, per quanto sbandierata dagli slogan nazionalisti di volta in volta riesumati, appare sempre più problematica. In questo quadro, emerge in modo piuttosto netto come la violenza (più combattimento verso una vittoria rapida) non fermi le guerre: molti conflitti armati mostrano invece propensione a protrarsi nel tempo e nello spazio.
RARAMENTE IL RICORSO alla forza da parte degli stati è risultato determinante per gli esiti, e tantomeno capace di risolvere i conflitti. In altre parole, la guerra come strumento della volontà politica sembra funzionare sempre meno rispetto al conseguimento degli obiettivi dichiarati. Questo dato obbliga a porsi domande sul nazionalismo e su come la guerra (la spesa militare crescente, così come la guerra guerreggiata) accompagni la trasformazione della società. Da ultimo, pone l’esigenza di ripensare con urgenza la pace e la prassi pacifista.
* (Autore di “Frontiera Ucraina. Guerra, geopolitiche e ordine internazionale”, ed.Il Mulino)
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SPACCA ITALIA . Il triangolo industriale italiano esiste ancora, solo che ha spostato il baricentro a est, rimanendo imperniato sulla Lombardia, ed appare meno concentrato nelle unità produttive e più diffuso sul territorio, costituendo, come nel caso dell’Emilia-Romagna, parte del sistema produttivo allargato tedesco
L'aula della Camera - LaPresse
Tra le prime dieci regioni in Europa per livello di valore aggiunto industriale figurano ben tre regioni italiane. Sono, in ordine di graduatoria, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna.
Non a caso le prime ad avere richiesto l’autonomia differenziata che il governo Meloni intende concedere in tempi rapidi, in base alla bozza di legge preparata dall’attivissimo ministro Calderoli. Nella classificazione Nuts2 dell’Unione europea, la Lombardia risulterebbe la prima regione industriale, con un valore aggiunto nel 2019 di 80,4 miliardi di euro, seguita dalle regioni tedesche di Stoccarda e dell’Oberbayern, nei Lander del Baden-Wurttemberg e della Baviera. Seguono poi Dusseldorf e Colonia; il Veneto al sesto posto e l’Emilia-Romagna all’ottavo; due regioni francesi (Ile-de-France e Rodano-Alpi); nonché la Catalogna.
LA SITUAZIONE NON è molto mutata dal 2015 in poi, salvo che Veneto ed Emilia-Romagna hanno guadagnato una posizione. In sostanza il triangolo industriale italiano esiste ancora, solo che ha spostato il baricentro a est, rimanendo imperniato sulla Lombardia, ed appare meno concentrato nelle unità produttive e più diffuso sul territorio, costituendo, come nel caso dell’Emilia-Romagna, parte del sistema produttivo allargato tedesco.
Leggendo questi dati, su cui gli statistici stanno ancora lavorando per i necessari completamenti e aggiornamenti, viene in mente quanto scriveva Kenichi Ohmae, che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali. Un vero alto funzionario del capitale. In quello che probabilmente è il più noto dei suoi libri, comparso nella traduzione italiana nel 1996 con il programmatico titolo La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Ohmae, dopo essersi vantato con ragione di avere predetto in anticipo il crollo dell’Urss, scriveva che gli Stati-nazione erano oramai diventati «unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in un’economia globale».
AL POSTO LORO SI ERGEVANO i nuovi «Stati-regione» – di cui il Kansai attorno ad Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a questa analisi si domandava che senso avesse «pensare all’Italia come un’entità economica coerente all’interno della Ue» quando «esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità». Tanto più che «non c’è un gruppo di interesse che tragga particolare vantaggio dai compromessi politici e sia quindi disposto a sostenerli con entusiasmo».
La via indicata non poteva essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione tra regioni forti, con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di quelle deboli. Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella economico-finanziaria e quella pandemica, hanno provocato una frammentazione delle catene di approvvigionamento e di creazione del valore.
MA QUESTO NON PONE fine alla globalizzazione, anzi ne esalta gli aspetti che vedono rinforzarsi il legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Se rimaniamo al quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia, dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggiorerà nel 2023.
Per fare solo qualche esempio: la spesa pubblica procapite è pari a poco meno di 19mila euro in Lombardia, viaggia sui 16mila in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14mila in Sicilia, in Calabria a 15mila, in Campania a 13.700 euro. Ben si comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico, che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli.
LA «SECESSIONE DEI RICCHI» non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia differenziata. Se è giusto quindi, secondo la nota tattica di dividere l’avversario – cosa che per la verità riesce più a quest’ultimo che non a noi – evidenziare i contrasti tra la fretta della Lega e l’insistenza sul presidenzialismo della Meloni, non possiamo illuderci che questo basti per fermare un progetto già in atto dal punto di vista materiale di cui si vorrebbe giungere ad una formalizzazione con le intese tra stato e regione che non passano per il Parlamento, come prevede la bozza Calderoli.
Per bloccarlo serve la capacità di legare assieme la questione sociale con quella istituzionale e costituzionale. E’ necessario modificare quelle parti del Titolo quinto, che deriva dalla sciagurata modifica costituzionale del 2001 voluta dal centrosinistra, cui si aggrappano i sostenitori dell’autonomia differenziata. E sostenere la raccolta di firme per una legge costituzionale di iniziativa popolare.
Per firmare clicca qui
Commenta (0 Commenti)Un 2023 di scontro
Si preannuncia un anno difficile per la nostra Costituzione: da un lato, l’esplicita volontà dell’attuale maggioranza di sfigurarne il volto, dall’altro, l’incapacità di organizzare una valida controffensiva. Le intenzioni degli aggressori sono note: eleggere direttamente il Capo dello Stato e trasferire vaste competenze in tema di diritti fondamentali dallo Stato centrale alle Regioni. Riforme profonde che ci consegnerebbero ad una nuova Repubblica.
Di fronte a questo scenario si poteva sperare in un’opposizione compatta. Non è così. Non solo per la prevedibile distanza da chi esprime la medesima cultura della destra. La richiesta di eleggere il «sindaco d’Italia» dimostra da che parte sta il terzo polo. Divisioni, incertezze, a volte ipocrisie si riscontrano anche tra coloro che hanno affermato di volersi «opporre in tutti i modi» alle riforme annunciate.
Le ragioni di tale imbarazzo sono scritte nel loro passato. Tralasciando i precedenti craxiani e le vicende
Leggi tutto: L’attacco alla Costituzione, e la sinistra non c’è - di Gaetano Azzariti
Commenta (0 Commenti)TEOLOGIA. Ratzinger considerava la Costituzione della Chiesa troppo ottimista sulla secolarizzazione
Conclave di cardinali - LaPresse
Con Benedetto XVI è scomparso l’ultimo dei papi che hanno partecipato al Concilio Vaticano II (1962-1965). Potrebbe sembrare una considerazione di dettaglio, ma può essere una chiave di lettura. Eletto pontefice da pochi mesi, nel dicembre 2005 l’ex-prefetto della Congregazione per la dottrina della fede tiene un importante discorso alla Curia romana. Al centro ci sono il Concilio e la sua ricezione. Il problema è quello dell’ermeneutica del Vaticano II, del suo inquadramento nella tradizione. Se la stagione post-conciliare è stata tormentata – spiega il papa – la responsabilità è dei teologi (e dei vescovi) che hanno promosso un’«ermeneutica della rottura».
All’assise ecumenica degli anni Sessanta, Ratzinger ha preso parte in qualità di perito, al seguito del cardinale Josef Frings. Ha contribuito alla redazione di alcuni dei documenti più importanti e sostenuto l’approvazione della costituzione Lumen gentium. La rottura con la maggioranza si manifesta già a lavori in corso, quando si tratta di approvare la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Quel testo viene giudicato dal professore di dogmatica debole dal punto vista teologico ed eccessivamente schiacciato su una visione ottimistica della modernità secolarizzata. Negli anni Settanta Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e lo stesso Ratzinger danno voce alla critica attraverso la rivista «Communio», che si contrappone a «Concilium», diventata il punto di riferimento delle teologie d’avanguardia. Sono gli anni in cui il mondo cattolico è attraversato dalle spinte del ’68 e dal felice incontro tra queste e la ricezione del Concilio, che a quella stagione di rivolta ha dato più di una pezza d’appoggio. Si sperimentano nuove liturgie; si discute di ecumenismo; si parla di chiesa povera e per i poveri, di partecipazione dei laici e delle laiche alla vita della Chiesa, di teologie della liberazione dallo sfruttamento.
In questa cornice, in cui cresce la contestazione al magistero, matura a Roma il giudizio negativo nei confronti di quella che viene percepita come una vera e propria crisi della Chiesa: una percezione rinfocolata dai dati sulla disaffezione degli europei nei confronti della religione e dalla caduta delle vocazioni. Paolo VI promuove senza successo il progetto di una Lex ecclesiae per disciplinare l’interpretazione dei documenti conciliari; i seguaci di mons. Lefebvre, che rifiutano il Concilio, arrivano allo scisma; «Communio» diventa il punto di riferimento per alcuni movimenti di reazione, tra i quali spicca Comunione e Liberazione. In questi ambienti si alimenta la convinzione di un cedimento, di un dissolvimento della Chiesa in un mondo sempre più lontano da Dio.
Sono queste le coordinate che dal 1978 guidano il tentativo di «riconquista» di Giovanni Paolo II, assistito nel compito da Ratzinger, che non esita ad usare gli strumenti a sua disposizione. Almeno in Europa, la «normalizzazione» beneficia del riflusso dell’onda dei movimenti e di un passaggio d’epoca che gradualmente consegna la discussione sul Vaticano II nelle mani degli specialisti. Ancora nel 1985 è vivace il dibattito che si sviluppa attorno al Sinodo dei vescovi, chiamato a fare un bilancio. Per quell’occasione esce un libro-intervista al card. Ratzinger molto duro sulla decadenza provocata da chi avrebbe travisato il Vaticano II «vero» nel nome del suo «spirito». In questa prospettiva non stupiscono i provvedimenti con cui Benedetto XVI ha cercato una riconciliazione con i lefebvriani. Più in generale, l’«ermeneutica della continuità» è stata contrapposta a una volontà di rottura della tradizione spesso e volentieri del tutto presunta: un’accusa rivolta contro chi rivendicava semmai, questo sì, una maggiore autonomia nell’interpretazione.
Dopo il Concilio, la paura della sinistra, e ancora di più di una sinistra interna alla Chiesa, è stata dunque tanto forte quanto fonte di visioni distorte che hanno inevitabilmente investito la memoria del Vaticano II. Con papa Francesco si è voltato pagina, ma sono rimaste le ferite
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Nel 2022 ben 22 banche centrali, con la Bce, hanno alzato i tassi: il costo della vita sarà più alto. I governi subalterni ai banchieri. Sulle politiche monetarie la sfida dei parlamenti
Parafrasando il celebre testo biblico potremmo chiedere «Banchiere, a che punto è la notte?», ma rischieremmo di ricevere la stessa risposta che la sentinella nel sacro testo fornisce al suo angosciato interlocutore: «Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; tornate e interrogate ancora».
Il fatto che in queste settimane compaiano libri e testi teatrali – tra gli altri, un saggio di critica alla geopolitica di Isidoro Mortellaro e un pièce teatrale scritta e interpretata da Nichi Vendola – che fanno, ognuno per suo conto, riferimento a questo interrogativo senza risposta, ci dà, forse più di ogni altra cosa, la dimensione nella quale viviamo. La cifra dell’anno che verrà, non solo dal punto di vista economico di cui principalmente qui ci si occupa, è segnata da un’elevata incertezza. Non è una novità assoluta. In effetti più di cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che «la differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza attribuita all’incertezza», includendo nell’economia neoclassica anche il tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con un famoso articolo di John Hicks del 1937.
Ma è indubbio che «l’economia del disastro», per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi l’intervallo fra una crisi e l’altra. Secondo alcuni economisti (ad esempio Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, «saranno visti come un periodo di instabilità unico nella nostra storia moderna». Previsione azzardata, proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso. Se guardiamo alla guerra, l’esile fiammella dell’apertura di un processo di pace sul versante russo-ucraino è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni al confine fra la Serbia e il Kosovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale. Se guardiamo alla situazione economica e finanziaria e cerchiamo di fare una media tra le valutazioni dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di multinazionali, i famosi funzionari del capitale, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione strisciante.
Solo i più ottimisti si pronunciano
Leggi tutto: Il 2023 sarà l’anno della recessione strisciante - di Alfonso Gianni
Commenta (0 Commenti)GOVERNO. Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile […]
Conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Lapresse
Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».
Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.
Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.
È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.
La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.
I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).
Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco
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