Tariffe di guerra Molti si illudevano che il commercio sarebbe stato libero per sempre, «fino ai più remoti recessi dell’inferno», come avrebbe detto Schumpeter. Adesso che nell’inferno siamo davvero piombati, si sorprendono che […]
Donald Trump su uno schermo della sala del World Economic Forum di Davos foto Markus Schreiber/Ap
Molti si illudevano che il commercio sarebbe stato libero per sempre, «fino ai più remoti recessi dell’inferno», come avrebbe detto Schumpeter. Adesso che nell’inferno siamo davvero piombati, si sorprendono che la libertà degli scambi sia destinata alle fiamme.
Eppure il problema era lì, evidente anche agli sprovveduti. Il globalismo senza regole creava uno squilibrio crescente nei rapporti commerciali, con paesi che importavano troppo e paesi che esportavano troppo. E un conseguente accumulo di sbilanciamenti finanziari, con gli esportatori a veder montare i crediti e gli importatori a farsi sommergere da una montagna di debiti. I più sommersi di tutti: gli Stati uniti, con un passivo netto verso il resto del mondo che ormai supera i 23 mila miliardi di dollari.
È dalla crisi del 2008 che le amministrazioni Usa hanno intuito che l’amore americano per le importazioni ha messo il debito su una traiettoria pericolosa.
Da allora, i civil servants di Washington hanno inesorabilmente aumentato le barriere commerciali e finanziarie, tariffarie e non tariffarie. E il mondo, come spesso accade, li ha seguiti a ruota.
L’implicazione è che se nel 2010 si registravano a livello mondiale 56 provvedimenti discriminatori dei commerci, nel 2023 siamo arrivati a contarne 376, un incremento di oltre sei volte.
L’era protezionista, insomma, è arrivata da un pezzo. Trump non sta facendo altro che portare la restrizione degli scambi alla sua estrema conseguenza: la guerra, commerciale e non solo.
È un conflitto che per il momento la nuova America trumpiana prova a scatenare contro l’intero globo. Fino a ieri gli Stati uniti applicavano la dottrina del friend shoring: fare affari con gli «amici» canadesi ed europei e tenere alla larga i «nemici» russi, cinesi e arabi non allineati. Adesso, però, la minaccia protezionista americana si rivolge contro tutti, in modo apparentemente indiscriminato. Sembra così avverarsi il monito di Xi Jinping: «Perseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia: il vento e la pioggia possono esser tenuti fuori, ma lo sono anche l’aria e la luce». Il risultato è che si spara alla cieca, senza più distinguere nemmeno i vecchi alleati.
Grande è dunque la confusione sotto il cielo, al punto che tutti i piani messi in campo dai vertici europei potrebbero diventare carta straccia. Non ultimo il rapporto Draghi, che dell’alleanza politico-economica con gli Stati uniti aveva fatto la sua stella polare. L’America ci ha prima costretti a comprare la sua energia a caro prezzo, adesso pretende di metter pure una sovrattassa sulle nostre merci. Potrebbe esser troppo anche per il più subalterno dei vassalli.
Ma non è solo la bussola atlantista che rischia di incepparsi. A ben vedere, è tutto il cardiogramma dell’Unione europea che torna in questi giorni a fibrillare. Tra i pochi collanti rimasti della politica comunitaria c’è infatti il regime dei commerci coi paesi extra-Ue, ancora sostanzialmente unico per tutti i membri dell’Unione. Se però adesso il presidente americano gioca a blandire singolarmente ciascun paese Ue, è possibile che qualche genio abbocchi all’amo e faccia saltare in aria il mercato unico. Primi sospettati, guarda caso: Meloni e il suo governo.
L’Unione europea era l’unica potenza nelle condizioni di mettere attorno a un tavolo il grande debitore americano e il grande creditore cinese per avviare una trattativa economica internazionale, la madre di tutti i concreti processi di pace. Non è stata in grado quando appariva unita, poco probabile che ci provi oggi.
Ormai c’è chi spera solo che l’Europa si riscatti con un po’ di legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, tariffa per tariffa. Nella bolgia della crisi del vecchio ordine liberista è la mossa più scontata. Ed è anche la via per gettare il capitalismo mondiale in un girone d’inferno ancor più rovente.