Una ricerca e un documentario raccontano la vita e lo sfruttamento delle giovani donne in uno dei cuori pulsanti dell'industria globale asiatica: migrano dalla campagna lasciando famiglia e figli, per vivere in dormitori-alveare dove le loro attività sono limitate al minimo, nutrirsi e riposare, per poter affrontare gli intensissimi ritmi di lavoro
A partire dagli anni Novanta e con sempre maggiore intensità dopo l’entrata nel Wto del 2006, il Vietnam è andato attestandosi come uno dei cuori pulsanti della fabbrica globale asiatica. L’intensificarsi degli investimenti diretti esteri ha contribuito all’incremento dei movimenti di giovani donne dalle aree rurali alla volta dei parchi industriali. Questa è la realtà che il team di ricerca del progetto europeo Ecow, Empowering Civil Society and Workers in Vietnam, ha studiato in un’importante indagine sulle condizioni del lavoro operaio femminile nella grande industria vietnamita, che ha coinvolto 3 mila occupate nei settori dell’abbigliamento e nell’elettronica.
Ne è nato un documentario, attualmente in lavorazione, dal titolo SHE. Women Workers from Vietnam, prodotto da Antropica, per la regia di Parsifal Reparato, che al Sunny Side of the Doc de La Rochelle, uno dei più importanti mercati del cinema europei, si è aggiudicato il primo premio, Best Global Issues Pitch, e due premi speciali.
Il dormitorio come angolo di osservazione
I ricercatori, assieme al regista e alla troupe, si concentrano sul parco industriale di Yen Phong, nel Nord del Paese, sede di una delle principali corporation dell’elettronica del mondo. Il parco occupa circa 80 mila lavoratori, prevalentemente giovani donne immigrate da aree povere e rurali o pendolari da zone relativamente poco distanti. Il punto di osservazione sono gli spazi di vita delle operaie, piccoli alloggi affittati privatamente in edifici-alveare, che si sviluppano in verticale o in orizzontale, e che spuntano come funghi, gli uni a ridosso degli altri, negli ex villaggi che circondano il parco.
Particolarmente diffusa in Vietnam, questa tipologia di dormitorio condivide molte delle caratteristiche tipiche del dormitorio ufficiale di fabbrica per come studiato, per esempio, in Cina o nell’Est Europa. Le attività delle lavoratrici sono qui limitate al minimo indispensabile, nutrirsi e riposare, per poter affrontare giornalmente gli intensissimi ritmi di produzione.
Al contempo il dormitorio non si presta alla stabilizzazione delle famiglie operaie nella zona industriale, resa già difficile da un sistema di regolazione della mobilità interna (ho-khau) che, introdotto in Vietnam nel secolo scorso sulla scia del modello cinese, tutt’oggi limita i diritti di cittadinanza dei migranti nelle zone di arrivo (per esempio, l’accesso a scuole e asili). Il dormitorio definisce così la strettissima integrazione tra gli spazi di vita e di produzione delle lavoratrici e la loro separazione da quelli dove si svolge la vita famigliare: per le donne con figli, per esempio, la migrazione comporta pressoché sistematicamente una dispersione dei nuclei tra campagna e zona industriale e i bambini tendono a essere affidati ai nonni, ai parenti, eventualmente all’altro genitore rimasto al villaggio.
Dalla campagna alla fabbrica
La ricerca e il girato partono quindi dalla vita nel dormitorio e si muovono all’indietro sino ai villaggi rurali, e in avanti dentro la fabbrica. Un movimento che disvela come questi spazi apparentemente separati siano intimamente connessi, concorrendo a una specifica modalità di organizzazione dello sfruttamento imperniata sulle linee del genere. Non soltanto lungo l’asse zona industriale-campagna si consuma un’esternalizzazione dei costi della riproduzione sociale che concorre a tenere bassi gli stessi costi della forza lavoro.
Il mondo rurale è custode di norme e aspettative di genere ferree che attraversano gli spazi insieme alle lavoratrici, sino a incontrare a loro volta gli specifici requisiti imposti dalla fabbrica non soltanto in termini di intensità dello sfruttamento, ma anche della sua durata. Non di rado le stesse operaie associano la presenza femminile nell’industria a fasi definite del ciclo di vita di una donna: quando è giovane e single, o quando i bambini sono più facilmente affidabili alle cure dei familiari.
Il lavoro in scena
Il movimento verso la fabbrica, sino al suo interno, è lo scoglio maggiore che la ricerca-documentario affronta. In Vietnam l’accesso agli stabilimenti è pressoché impossibile, e lo stesso accesso alle lavoratrici e ai loro spazi di vita risulta difficile senza il supporto di un’istituzione locale. In questo quadro, il sito produttivo analizzato presenta caratteri di eccezionalità che ne fanno una sorta di fortezza. Per raccontare momenti della vita lavorativa particolarmente significativi, che altrimenti non si potrebbero conoscere, il regista anima un esercizio di etnografia performativa, dove le operaie rappresentano se stesse in teatro (nella foto di apertura, un momento della rappresentazione, ndr).
Il regime di fabbrica
Il reparto controllo di qualità, uno dei più temuti, viene rappresentato come spazio simbolico dove si ricostruiscono dinamiche e paure comuni a molti dei reparti di fabbrica. Una sperimentazione certamente unica nella storia delle indagini sul lavoro in Vietnam. Ne emerge un regime fondato su complesse strategie di valutazione delle lavoratrici rese possibili da un controllo capillare del loro operato, che include il ricorso diffuso a dispositivi di sorveglianza quali foto e videocamere, e accompagnate da forme estreme di bullismo e abuso psicologico da parte di manager e leader: insulti durante il processo lavorativo o punizioni esemplari sulla postazione in caso di errori.
Il ricorso a strategie altamente coercitive per l’ottenimento di target produttivi sempre più alti e flessibili a costi contenuti è sempre più diffuso nei vari nodi delle catene globali del valore. Il regime dei controlli e delle valutazioni interne, arbitrariamente applicato secondo le esigenze del capitale, determina livelli altissimi di (auto-)sfruttamento e comporta al contempo una perenne esposizione delle lavoratrici alla perdita di pezzi di salario, così come della stessa occupazione, nonché a livelli estremi di logoramento fisico e psicologico che possono essi stessi definire i tempi di permanenza nell’industria
Le logiche di sfruttamento
Il progetto SHE distilla la logica complessiva che sottende l’organizzazione dello sfruttamento nel settore dell’elettronica vietnamita usando una lunga ricerca ricca di informazioni, analisi, prospettive condivise da decine di giovani operaie e di familiari. Una logica che prende forma all’intersezione di molteplici oppressioni – lungo le linee della classe, del genere, della provenienza – prodotte, utilizzate, riprodotte a proprio vantaggio dal capitale, per modellare una forza lavoro a basso costo, sempre giovane e altamente produttiva, strutturalmente transitoria. La permanenza in fabbrica di una donna migrante raramente supera i cinque anni.
Con le voci del lavoro
Le dinamiche ricostruite parlano del Vietnam e del Sud globale, ma anche di tendenze che ormai permeano ampiamente nei settori più diversi un mondo occidentale che ha quanto mai bisogno di riportare al centro le voci del lavoro. Anche in questa prospettiva SHE prova a essere un racconto dove ogni singola protagonista non soltanto disvela un pezzo di quel meccanismo più grande entro cui tutte sono risucchiate. Ma dà voce e corpo a come esso morda nella carne viva di esistenze fatte di desideri, aspirazioni, tentativi, sogni, solitudini, perdite d’identità. E ancora, al modo in cui le soggettività interagiscono costantemente con quel meccanismo, aderendovi, sfidandolo, resistendovi, provando a piegarlo, dentro e fuori gli spazi della fabbrica.
Il progetto Ecow, cofinanziato dall’Unione europea, si è svolto tra il 2019 e il 2021 in collaborazione tra l’Istituto di studi europei dell’Accademia delle scienze sociali di Hanoi (manager del progetto dott. Do Ta Khanh), l’università di Napoli L’Orientale (coordinamento scientifico prof. Pietro Masina) e altri centri di ricerca vietnamiti.
Michela Cerimele, geografa dello sviluppo, coordinatrice scientifica e del lavoro di campo progetto Ecow, coautrice del documentario SHE