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«Nessuna base in Italia per la nuova guerra “intelligente” di Trump e Macron»: questa dovrebbe essere la posizione del nostro Paese di fronte al brutto vento che tira nel Mediterraneo orientale, per una guerra quella in Siria, aizzata nel 2011 dall’asse degli «Amici della Siria» che, non contenti del disastro provocato finora che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto «riuscito» della Libia, rilanciano ora quasi la stessa coalizione di guerra di cinque anni fa.

Pronti a colpire in Siria obiettivi militari di Assad, difficilmente distinguibili però da quelli di Russia e Iran che lo sostengono in armi, come dimostra l’uccisione – certo mirata – da parte del raid israeliano che ha colpito una base siriana provocando 14 vittime tra cui quattro consiglieri di Teheran.

Nessuna base in Italia – non basta dire italiana – perché la configurazione geostrategica della penisola, piena zeppa di basi militari Usa e Nato, dice che oggettivamente è già coinvolta e lo sarà ancora di più nello scenario di un conflitto che rischia di deflagrare ed estendersi nel Medio Oriente in macerie.

Deve dire di no all’uso di base militari in Italia per colpire la Siria, il governo Gentiloni rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, perché partecipare ad una guerra, anche «solo» concedendo la disponibilità delle basi, operative o logistiche, non è affare che può essere etichettato come «disbrigo degli affari correnti». Che pretende il ruolo del Parlamento e di un governo effettivo. Altro che Commisione speciale.

Dovrebbe dire di no anche il variegato schieramento dei partiti alla seconda consultazione dal presidente Mattarella dopo il voto di più di un mese fa. Per la quale consultazione le chiacchiere stanno a zero.

Ma potrebbe essere l’occasione, dopo le ambiguità e le promesse della campagna elettorale, per parlare finalmentre di contenuti di governo.

Così l’ipotesi ventilata dal M5 Stelle del famoso «contratto» – malamente paragonato a quello di Cdu-Csu e Spd per la Grosse Koalition tedesca – con dentro i contenuti del probabile accordo da proporre in modo «paritario» a Salvini-Meloni-Berlusconi o al Pd, potrebbe uscire dalle nebulose.

Per contenere o la cosiddetta lealtà al fronte occidentale, come da rassicurazioni di Di Maio e Salvini in reiterata missione all’ambasciata Usa, oppure il rifiuto a partecipare all’ennesima guerra scellerata che andrebbe ad aggiungersi ad un conflitto armato che finora ha fatto 400mila vittime e milioni di profughi.

Soprattutto perché la guerra che si annuncia dai due «giustizieri», entrambi con esperienza imperiale e coloniale, come vendetta bellica per le presunte responsabilità di Damasco nell’uso di armi chimiche, proprio mentre Assad sta vincendo la guerra ed è sotto i riflettori del mondo, serve a Trump come distrazione.

Dal fatto che è braccato in patria per la vicenda «Russiagate»; e se bombarda, di quello parleranno i media invece che di pornostar, e poi andrebbe a colpire interessi strategici della Russia.

Insomma sarebbe una prova di smarcamento e «indipendenza»: first America.

Anche per Macron è una distrazione, dal legame fortissimo con gli interessi dell’alleato Arabia saudita – viene in mente chissà perché Sarkozy con Gheddafi – e dalla prima vera crisi sociale e politica che lo investe in questi giorni.

Un intervento motivato da entrambi per punire la Siria, come se il ruolo dell’Europa e degli Stati uniti in primis non l’avesse già distrutta abbastanza. E che dal punto di vista militare non fiaccherà certo Damasco, ma che Trump deve fare a tutti i costi con il soccorso di Macron – Londra sembra guardinga – e sotto impulso di Israele, perché lo ha annunciato e non può perdere la faccia.

Magari non entro 24-48 ore come ha proclamato tronfio ma, dopo lo scontro all’Onu, aspettando l’inchiesta dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) sul campo.

Ma se intanto ci sarà il bombardamento su obiettivi siriani, stavolta la vicenda promette il peggio.

Perché la Russia minaccia di reagire colpendo mezzi e basi di lancio degli eventuali bombardamenti.

Siamo a quanto pare all’addio alla guerra per procura e all’appalesarsi di un confronto bellico diretto nell’area. Che non tarderà ad espandersi.

E l’Italia mediterranea, se coinvolta, è davvero a un tiro di missili.

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Voci critiche si levano dentro e fuori il Paese e coinvolgono alcune tra le più importanti associazioni ebraiche americane 

AMIR COHEN / REUTERS

Ventisette morti, oltre 2500 feriti in campo palestinese, nessuno in quello israeliano. Non è questione di capacità militari. E' qualcosa di altro, di fronte al quale parlare di "scontri" è violentare la realtà, piegandola alla propaganda di parte. Su questo Israele s'interroga, sulla sua "metamorfosi" che va ben al di là di un eccesso di difesa. Voci critiche si levano dentro e fuori il Paese e coinvolgono alcune delle più importanti associazioni ebraiche americane. La politica spiega solo in parte questa "metamorfosi", e i risultati delle ultime elezioni, con la formazione del governo più di destra che Israele ha conosciuto nei suoi settant'anni di storia, danno conto del consolidamento di una "psicologia nazionale" che non può essere raccontata solo parlando di "sindrome di accerchiamento".

I Venerdì di sangue a Gaza- 30 marzo e 6 aprile - e la deportazione di migliaia di rifugiati africani voluta dal governo in carica, rappresentano un mutamento culturale, identitario, che abbatte il tradizionale schema destra/sinistra. Benjamin Netanyahu, primo ministro alle prese con inchieste riguardanti accuse di corruzione e menzogne in atti pubblici, è parte del problema ma non è il tutto. Con la sua solita radicalità e chiarezza di esposizione, Gideon Levy, firma di Haaretz, spiega così questa metamorfosi: "Si può attaccare al primo ministro quanto si vuole - se lo merita. Ma alla fine si dovrebbe ricordare: non è Benjamin Netanyahu. È la nazione. Almeno la maggior parte della nazione. Tutte le manifestazioni del male negli ultimi giorni e tutte le farse sono state progettate per soddisfare i desideri più meschini e gli istinti più oscuri ospitati dagli israeliani. Gli israeliani volevano il sangue a Gaza, il più possibile, e le deportazioni da Tel Aviv, il più possibile. Non c'è modo di abbellirlo; non si devono offuscare i fatti. Netanyahu - debole, patetico, malvagio o cinico - è stato spinto da un solo motivo: compiacere gli israeliani e soddisfare i loro desideri. E quello che volevano era sangue e deportazione. Se solo il problema fosse con Netanyahu e il suo governo. Quindi, in un'ulteriore elezione, o forse in due, il problema potrebbe essere risolto. I bravi ragazzi prenderanno il potere, Gaza e i richiedenti asilo saranno liberati, l'incitamento fascista morirà, la posizione dei tribunali sarà assicurata e Israele sarà di nuovo un posto di cui essere orgogliosi. Questo è un sogno irrealizzabile. Ecco perché la campagna contro Netanyahu è importante, ma sicuramente non è fatale. La vera battaglia è molto più disperata e il suo scopo è molto più diffuso. Questa è una battaglia sulla nazione, a volte anche contro di essa".

Se le voci critiche sono il sale di una democrazia, in Israele questo "sale", per fortuna, si sparge ancora. E tocca nervi sensibili. Annota, sempre su Haaretz,Ilana Hammerman, scrittrice e attivista per i diritti umani, guardando alle manifestazioni di queste settimane, a Gaza come in Cisgiordania: "Quali sono gli atti di questi giovani? Terrore? No, questa è una lotta disperata da parte di gruppi e individui, che dal giorno in cui sono nati non hanno nulla da sperare, contro un esercito mille volte più forte di loro. E cosa sta difendendo questo esercito: la sicurezza del suo paese? No, sta difendendo la scelta dei governi israeliani di usare il terrore per imporre lo "stato del popolo ebraico" sull'intera regione tra il Mediterraneo e il fiume Giordano".

Yoav Limor, analista di punta di Israel Hayom, il più accreditato tra i giornali filogovernativi, sposa una tesi opposta a quella di Gideon Levy ma non nasconde le sue preoccupazioni, in questa analisi: "Israele sta affrontando la situazione solo militarmente, dal momento che la diplomazia pubblica si è rivelata fiacca per quanto riguarda la risposta alla nuova sfida che emerge da Gaza. Ciò si è riflesso questa settimana nelle dichiarazioni bellicose dei leader mondiali e nella copertura mediatica che, dopo un lungo periodo di tempo, è stato acutamente anti-israeliano.

Questo – annota ancora Limor - potrebbe essere respinto con il solito atteggiamento "il mondo ci odia' o potremmo decidere di combatterlo e spiegare che non si tratta di proteste civili spontanee ma eventi orchestrati astutamente da Hamas, che ha inglobato dozzine di agenti nella folla con l'obiettivo di effettuare attacchi terroristici e provocare l'IDF. Hamas spera in un numero maggiore di vittime civili, che getterebbe l'IDF e Israele in una luce negativa e aumenterebbe il sostegno internazionale per i palestinesi.

La dissonanza tra il successo tattico dell'IDF e il fallimento strategico di Israele potrebbe aumentare mentre le manifestazioni si intensificano e il numero delle vittime aumenta. A nessuno tranne a Israele importa quanti di quelli uccisi erano terroristi. La comunità internazionale conserva il punteggio dei feriti e dei morti e le immagini dal confine dominano le notizie...". "Ciò richiede a Israele - conclude l'analista di Israel Hayom - di ripensare al modo migliore per gestire la situazione al fine di frenare lo slancio palestinese e impedire che gli eventi si trasformino in qualcosa che spinga la comunità internazionale a costringere Israele ad accettare una soluzione non a suo favore. Il problema è che Israele evita sistematicamente di prendere decisioni strategiche e, in ogni caso, tali processi richiedono tempo che Israele potrebbe non avere, dato che la situazione a Gaza potrebbe sfuggire al controllo in qualsiasi momento". Di fronte a questo scenario, l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem ha lanciato giovedì una campagna intitolata "Mi spiace, comandante, non posso sparare", sollecitando i soldati israeliani a rifiutare l'ordine di sparare ai manifestanti palestinesi disarmati a Gaza.

L'organizzazione ha fatto una mossa insolita, dirigendosi direttamente ai soldati israeliani perché rifiutino gli ordini. "Ai militari non è permesso agire come meglio credono, né Israele può determinare da solo ciò che è ammissibile e cosa non lo è quando si tratta di manifestanti. Come tutti gli altri Paesi, le azioni d'Israele sono soggette alle disposizioni del diritto internazionale e le restrizioni che impongono sull'uso delle armi, ed in particolare l'uso delle munizioni letali", sottolinea Hagal El-Ad, Direttore esecutivo di B'Tselem Ciò che sembra sfuggire di mano non è solo la situazione nella Striscia ma anche la coscienza civile di una Nazione. A lanciare il grido d'allarme è il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, membro dell'Accademia israeliana delle scienze e delle lettere, professore all'Università Ebraica di Gerusalemme, specialista di storia del fascismo. "Spesso mi chiedo – scrive Sternhell - come, tra 50 o 100 anni, uno storico interpreterà la nostra epoca. Quand'è – si chiederà – che la popolazione in Israele ha iniziato a realizzare che lo Stato, nato dalla guerra d'indipendenza, sulle rovine dell'ebraismo europeo, e pagato col sangue dei combattenti, alcuni dei quali erano sopravvissuti all'Olocausto, si è trasformato in una tale mostruosità per i suoi abitanti non ebrei? Quand'è che alcuni israeliani hanno capito che la loro crudeltà e la capacità di prevaricazione sugli altri, palestinesi o africani, ha iniziato a erodere la legittimità morale della loro esistenza come entità sovrana?..". "La risposta – prosegue La risposta, potrebbe dire quello storico, è racchiusa nelle azioni di parlamentari come Miki Zohar e Bezalel Smotrich e nelle proposte di legge del ministro della Giustizia Ayelet Shaked. La legge dello Stato-nazione, che sembra formulata dal peggiore degli ultranazionalisti europei, è stata solo l'inizio. Dato che la sinistra non ha protestato contro di essa nelle manifestazioni in Rotchild Boulevard, quella è stata l'inizio della fine della vecchia Israele, la cui dichiarazione di indipendenza rimarrà come pezzo da museo.

Un reperto archeologico che insegnerà alla gente ciò che Israele sarebbe potuta diventare, se solo la sua società non fosse stata disintegrata dalla devastazione morale causata dall'occupazione e dall'apartheid nei Territori. La sinistra non è più in grado di sconfiggere l'ultranazionalismo tossico che si è sviluppato qui, la cui versione europea ha praticamente sterminato la maggioranza del popolo ebraico...". Considerazioni allarmanti, parole alle quali va prestato ascolto. Per capire, non per demonizzare. E per capire appieno ciò che sta avvenendo nel profondo della società israeliana, non bastano le annotazioni "tecniche" fornite dall'esercito israeliano dopo il secondo venerdì di sangue. "Chi ha provocato le vittime è chi ha inviato quelle persone al confine. Hamas è responsabile dei morti": lo ha dichiarato il portavoce militare israeliano, Ronen Manelis, al termine di una giornata di gravi incidenti lungo la linea di demarcazione fra Israele e Gaza. "Hamas - ha aggiunto - ha trascinato la Striscia verso una giornata di violenti disordini. Il nostro esercito ha compiuto appieno la propria missione. Non abbiamo avuto perdite, non si sono verificate infiltrazioni sul confine, e la nostra sovranità non è stata infranta".

Sul piano militare è indubbiamente così. I manifestanti non sono penetrati in territorio israeliano, e la sovranità non è stata infranta. Ma a infrangersi rischia di andare l'identità storica d'Israele. A morire, gli ideali che furono a fondamento del sionismo. L'occupazione sta corrodendo le basi della nostra democrazia, così come la colonizzazione dei Territori occupati alimenta una cultura dell'illegalità. Tutto questo non ha nulla a che vedere con quei valori che furono a fondamento del pionierismo sionista. La politica della forza portata avanti dalle destre è la negazione del sionismo. È la sua morte". Le considerazioni svolte da Sternhell risalgono a una intervista che concesse ad HP tre anni fa. Tre anni dopo, alla luce dei venerdì di sangue a Gaza, le parole dello storico israeliano hanno il valore di una "profezia". Una triste profezia. 

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Il Manifesto del 27 marzo ha dedicato un paginone all'analisi del voto in Emilia Romagna. "Regione capovolta" è il titolo sotto il quale Giovanni Stinco ha raggruppato diversi articoli: oltre al "Viaggio nell'ex Emilia rossa", qui sotto riportato, vi segnaliamo quello dedicato a Imola e Ferrara, l'intervista al vicedirettore della rivista "Il Mulino" e l'analisi del risultato a Bologna.

Nel 2014 il clamoroso dato dell'astensionismo costituì un evidente campanello di allarme. Il Pd ed il presidente Bonaccini evitarono di fare qualunque seria analisi di quel voto, paghi di aver mantenuto il potere. Ed il loro modo di amministrare sembra essere stato del tutto coerente con la considerazione che: "conta chi vince".
Ora gli elettori, alle elezioni politiche del 2018, sembrano aver presentato il conto: ed è un conto salato. Non solo la Regione appare contendibile, ma secondo quel risultato il Partito democratico non è più nemmeno la prima forza politica in Emilia-Romagna.

da il manifesto del 27.3.18

Viaggio nell’ex Emilia rossa che ha tradito il Pd per la Lega
Dopo il voto. Paura degli immigrati, crisi economica e diffidenza verso l’Europa dietro il tracollo dem

di Giovanni Stinco

FERRARA «Il mio nome? No, no, non serve». E allora lo chiameremo Carlo. Quaranta anni appena compiuti, lo incontriamo di venerdì a mezzogiorno nella piazzetta principale di Comacchio. Con la sua bicicletta, cappello guanti e giaccone per affrontare il freddo e l’umidità di questo paesino del ferrarese, vicino al Veneto e a meno di 50 chilometri dal Delta del Po. «Cos’ho votato? Ho votato per Matteo Salvini, e lo rivoterei anche domani se me lo chiedessero». Te lo dice in faccia, senza il minimo dubbio. E aggiunge: «Perché bisogna cambiare, perché qui la sinistra ha governato da decenni e io non ho un lavoro fisso, con i lavoretti in nero mi pago le serate e le pizze il sabato sera con gli amici ma dipendo ancora dai miei genitori. E allora ti dico che il centro sinistra deve finire sotto terra, non farsi più vedere punto e basta».
ACCANTO A LUI tre quasi sessantenni, un contadino e due operai. Dicono di essere stanchi, la pensione il loro orizzonte di speranza. Un’attesa che però vedono allungarsi, anno dopo anno. «Perché Lega? Perché Salvini ha promesso di abolire la riforma Fornero», dice uno di loro. «Lo vedi Claudio là in fondo alla via? Va per i 65 anni e ancora non può smettere di lavorare, invece ai migranti danno vitto, alloggio e tutto quel che serve. Ti sembra giusto?». «Ho votato 5 Stelle», dice un terzo signore sulla sessantina. «Ma avrei potuto benissimo votare Lega, per me è uguale. Qui bisogna cambiare, e se tu

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Dopo il voto. In Europa, nelle sue varie forme, ha percentuali a due cifre, e in alcuni paesi è al governo. In casa nostra è stata dilaniata. Come tentare di ripartire

La povertà come volano per l’economia dell’export: un modello sociale che «valorizza» le disuguaglianze nei processi di elevazione della competitività, rovesciando il paradigma che stava alla base del vecchio «modello sociale europeo».

La crisi economica che ha scosso il capitalismo mondiale tra il 2007 e il 2009 ha dato una nuova base «oggettiva» alle politiche di smantellamento del welfare state e dei diritti dei lavoratori, che, nel nostro Paese, erano iniziate già vent’anni prima. L’Italia è entrata nella crisi con un’economia in declino e ne è uscita con una società ancora più diseguale, riorganizzata in funzione del modello neo-mercantile che la Germania ha imposto, con successo, a tutta l’Europa.

È stata una rivoluzione, che non ha visto come protagonisti gli operai, i «ceti subalterni», per dirla con Gramsci, ma il capitale, per mezzo dei governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Una storia che chiama direttamente in causa la «sinistra di governo», in larga parte erede del Pci, la più determinata, la più cinica, la più arrogante, nel portare avanti la rivoluzione neoliberista.

Oggi, per milioni di cittadini, sinistra è sinonimo di contratti flessibili, di licenziamenti facili, di lavoro a termine, di pensione a settant’anni, di ticket sanitari, di aiuti alla scuola privata, di privatizzazioni. Quante volte abbiamo sentito dire negli ultimi anni, ed anche nella recente campagna elettorale, «la sinistra ci ha rovinato»? Sì, certo, il Pd non è più un partito di sinistra, a sinistra c’è anche chi si è opposto a tutto questo, ma, come il dato delle elezioni del 4 marzo ha dimostrato, non è bastato per riscattare l’onore della parola.

Eppure, se il discrimine tra destra e sinistra rimane, per dirla con Bobbio, «il diverso atteggiamento di fronte all’ideale dell’eguaglianza», come si può decretare la morte della sinistra in un paese dove l’1% più ricco dei suoi abitanti possiede una ricchezza 240 volte superiore a quella detenuta dal 20% più povero e conta 10 milioni di persone sotto la soglia di povertà?

La soluzione non può essere la flat tax di Salvini, né la flexsecurity di Di Maio. Due proposte di «sistema», a dispetto del racconto di chi ne è portatore. Ma l’inganno si è consumato: la gran parte di quei dieci milioni di poveri ha scelto la Lega e il M5Stelle, mentre la sinistra si divideva nello stesso recinto, per spartirsi le spoglie di un elettorato sempre più esiguo.

Perché tanti operai, disoccupati, casalinghe, pensionati al minimo, hanno preferito il partito della flat tax alla sinistra del welfare universalistico e dei diritti sociali? Forse perché era temperata con lo slogan «prima gli italiani»? No. Più verosimilmente, perché chi prometteva welfare e diritti non era più credibile, avendo contribuito al loro picconamento fino al giorno prima, oppure era percepito come qualcosa di estraneo al sentire popolare, nonostante il nome che portava.

Da un lato un’operazione grigia e politicista, dall’altro una scapigliatura, con tratti di freschezza, certo, ma appoggiata sulle «gambe anchilosate e affaticate», parafrasando Pirandello, di piccolissime formazioni residuali della sinistra radicale, comunque accomunate, nell’immaginario collettivo, al resto della «sinistra che ci ha rovinato».

È il caso italiano, che è diverso da quello di altri paesi europei. In Grecia e Portogallo la sinistra è al governo, in Francia e Spagna ha percentuali a doppia cifra, come in Irlanda, mentre il nuovo Labour inglese potrebbe addirittura vincere le prossime elezioni politiche. Pur con differenze significative tra Est ed Ovest, la sinistra è viva ed influente in Germania, resiste in alcuni Paesi dell’ex blocco socialista.

Parliamo di sinistra d’alternativa, affermatasi sull’onda della crisi economica e delle socialdemocrazie, che ha saputo interpretare il malessere di larghi strati della popolazione, impedendo che lo stesso defluisse tutto a destra, verso lidi populisti, xenofobi, neofascisti.

Sinistre popolari, capaci di fare politica, in un momento storico difficile, dove il tema all’ordine del giorno non è il socialismo, ma la ricostruzione delle reti di protezione sociale e degli spazi di democrazia che la rivoluzione conservatrice ha distrutto in questi anni. Il tempo è quello di conquistare «fortezze e casematte», non quello di assaltare il Palazzo d’Inverno. Di raccordare lotte sociali e rappresentanza istituzionale, di avviare poche e significative campagne su temi di maggiore impatto sociale (lavoro, sanità, pensioni).

Manca un tassello, però. Il punto da cui ripartire. Le urne sono state spietate con le due principali proposte in campo. Con un paradosso: Leu ha eletto un pugno di parlamentari ma non esiste come soggetto politico; Potere al Popolo non ha eletto parlamentari, ma esprime, a suo modo, maggiore vitalità. Non è da queste due debolezze, in ogni caso, che si può ripartire, ma entrambe (penso più alla base, agli elettori, che ai leader) potrebbero essere parte di un progetto più ampio, che non potrà nascere sedendosi a tavolino, ma sparigliando, dal di fuori.

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Sinistra. Il «caso italiano» non esiste più. Bisogna tornare al 1989, alle ragioni delle rotture, alle scissioni, alle due sinistre, con quella radicale ridotta a testimonianza

Se nei prossimi giorni si troverà una soluzione al puzzle di una maggioranza di governo (sia essa di «scopo» o politicamente inedita), potremmo avere uno o due anni di tempo prima di una sorta di spareggio elettorale tra Lega e Movimento 5 stelle.

Se la resa dei conti dovesse avvenire prima, non si potrebbe che pensare a un presidio democratico da difendere con le unghie e con i denti – oltre che con i voti – di cui per ora è difficile prevedere i contorni e i punti minimi di convergenza.

Nell’immediato, non resta che elaborare il lutto unendo analisi e ripensamenti.

Forse è finito il «renzismo». Forse è tramontata l’idea che a sinistra basti un rassemblement elettorale. Forse, ancora, si è imparato che le ipotesi resistenziali hanno solo il gusto dell’indomita testimonianza di minoranze politiche e intellettuali.

Di certo, il confronto post elettorale è deludente nonostante lo tsunami. E prima del voto non c’è stata una rilettura sociale e politica della società italiana e delle sue turbolenze più profonde.

Eppure i sociologi del Censis e Giuseppe De Rita avevano provato a schizzare un panorama che la politica non ha voluto vedere: paese vecchio anagraficamente, rancoroso, diviso tra due forme di ribellismo a nord e a sud, ripiegato su se stesso, in ritardo nello sviluppo tecnologico, con poche idee di futuro nella sua collocazione in Europa.

Mentre la mitica classe operaia evaporava, l’idea di come tenere insieme la rappresentanza degli «ultimi» con quella delle nuove figure sociali del digitale non decollava.

Bisogna dunque elaborare il lutto e pensare in profondità.

Troppo improvvisata e superficiale a sinistra è la discussione immediatamente politica che sembra incentrarsi o sulla richiesta che il Pd vada a vedere le carte di Luigi Di Maio con il rischio di suicidio finale o su «non siamo stati abbastanza alternativi», «che fine hanno fatto i No al referendum costituzionale renziano?» dal momento che pure in Lombardia la versione sinistrissima anti Gori ha ricevuto un ben misero 2 e qualcosa per cento e che nella vittoria del No – a volerla analizzare – c’era molto voto di Lega, 5 Stelle, rifiuto della politica tout court e non solo giusta difesa democratica della Costituzione.

Approssimativo Nicola Fratoianni che punta l’indice contro la «sovraesposizione di D’Alema e Bersani» (senza la quale però sarebbe stato difficile per Liberi e uguali conseguire il quorum, del 3 per cento).

Poco convincente lo stesso Pierluigi Bersani che, su facebook, con il suo linguaggio metaforico, osserva: «Nemmeno noi, in pochi mesi, abbiamo trovato la soluzione. Ma almeno abbiamo visto per tempo il problema! Se nel mondo progressista si smette di negare il problema, una sinistra plurale potrà riprendere il cammino».

Massimo D’Alema fa sapere di volersi dedicare «allo studio e alla formazione».

Pietro Grasso è silente.

Intanto c’è un quesito in sospeso senza risposta.

Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle?

Il «caso italiano» come anomalia positiva non esiste più da tempo. Ci sono quasi trent’anni alle spalle da rianalizzare dal 1989 in poi: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci, diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.

La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi). Il fronte del «no» si divideva invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).

Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista.

La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito di sinistra non testimoniale.

A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato sgombro (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).

Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente.

Se avremo uno o due anni di tempo, la priorità dovrebbe diventare quella di riorganizzare il proprio campo dall’opposizione con idee inedite e plurali sul passato e il presente, con uno straccio di coalizione anch’essa plurale, con scelte sociali e organizzative innovative tornando nel frattempo a parlarsi ascoltandosi dopo scissioni e flop elettorali.

Per ora, è solo un promemoria.

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Dopo il voto. Se gli operai di Taranto o del Sulcis votano in massa i 5Stelle mentre al Nord la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, non è solo la promessa di un reddito

È proprio vero che Dio (o Giove nella versione pagana) acceca chi vuole perdere. Il responso del 4 marzo è stato spietato con la sinistra.

Non era inatteso, anche se non in queste proporzioni. Un’aggravante per chi non ha saputo leggere i processi in atto da diverso tempo.

La prova controfattuale non c’è ma potrebbe venire in soccorso il buon senso: se alla sinistra del Pd si fosse costruita una sola lista, unitaria seppur con differenze, si sarebbe almeno evitato di disperdere qualche centinaia di migliaia di voti.

Forse si sarebbe dato un segnale di inversione di tendenza avverso alla frammentazione, tale da motivare o rimotivare al voto più d’uno. Forse. Era certo difficile costruire una lista simile, ma non impossibile. Non stava scritto in alcun destino, per quanto cinico e baro, che ci si dovesse presentare a un elettore già colmo di motivati sospetti e rancori, oltre che deboli anche divisi e tra di noi rissosi.

Non ha prevalso l’impossibilità, ma la non volontà, più o meno palese, i veti incrociati, come si suole dire, dei presunti gruppi dirigenti.

Tanto è vero che neppure di fronte alle macerie di adesso si nota qualche resipiscenza. Ancora non si comprende o meglio – facendo salva l’intelligenza di ognuno – non si vuole accettare che questo 4 marzo rappresenta più la melanconica fine che non l’inizio di un processo.

Dall’autoreferenzialità della politique politicienne, così come dall’autorappresentazione delle lotte sociali non viene né una sufficiente resilienza sul terreno elettorale, né tantomeno la costruzione di una sinistra politica, attiva nelle istituzioni come e soprattutto nella società.

La parola “sinistra” nell’immaginario collettivo ha perso di senso, al punto da non venire nemmeno usata più per connotare i simboli elettorali.

Non ovunque è accaduto così.

In altri punti del mondo o di questa nostra Europa, vi sono luoghi ove a quel nome corrispondono ancora in modo riconoscibile idee, comportamenti, forze politiche. Ma accade nel paese la cui storia, nella fase centrale del secolo scorso, è stata segnata dalla presenza del più grande partito comunista dell’occidente.

Ciò che appare un paradosso spiega invece quello che è avvenuto.

La rivoluzione conservatrice del neoliberismo non avrebbe potuto trionfare così facilmente nel nostro paese, se non avesse potuto in primo luogo affondare il coltello nel ventre molle dei gruppi dirigenti di una sinistra che ha assorbito, in una sorta di progressivo autoavvelenamento, a tal punto le idee di quello che era il suo avversario, da portarvi persino originali contributi, come il social-liberismo, che ha cercato di mitigare i feroci meccanismi di accumulazione con un po’ di redistribuzione. Ma le politiche di austerity, consacrate da noi perfino con la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, hanno tolto ogni velleità anche in quel senso.

Inutile stupirsi se gli operai di Taranto o del Sulcis votano massicciamente per i 5Stelle, mentre a Nord già da tempo la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, e nei distretti industriali del CentroItalia il Pd crolla.

Non è solo la promessa di un reddito – non di cittadinanza ma più semplicemente «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo» secondo il ministro in pectore Tridico – né solo la penetrazione di pulsioni nazionalistiche e xenofobe anche nelle classi lavoratrici a produrre quell’esito elettorale. Piuttosto il fatto che gli operai da attori di un processo sociale sono diventati pubblico, considerati come quelli delle ultime file.

L’esito del voto ha solo evidenziato e accelerato una trasformazione in atto da tempo, entro cui si consuma il destino della stessa sinistra d’alternativa.

Il tentativo di stravolgere la Costituzione è stato respinto. Ma le forze che l’hanno proposto lo rivendicano e ne minacciano la riproposizione a breve, come ribadisce Renzi in una recente intervista al Corriere della Sera.

Il finanzcapitalismo non da oggi si è scisso dalla democrazia. Ne vuole e ne può fare a meno. Gli basta mantenere in piedi un simulacro. Qui sta la radice del presunto primato della governabilità sulla rappresentanza.

In questo quadro non possono esistere a lungo movimenti o forze antisistema.

Nel breve volgere di pochi mesi, sia nella Lega che nei 5Stelle, sono venute meno o si sono fortemente ammorbidite le spinte secessioniste e antisistemiche. Così come l’antieuropeismo.

Per questo i mercati finanziari non hanno mostrato alcuna fibrillazione né prima né dopo il 4 marzo. E il temutissimo spread si è mantenuto molto al di sotto dei livelli di guardia.

Scontro, con buona pace degli editorialisti del Sole24Ore, tra l’Europa di Ventotene e quella di Visegrad non c’è stato perché la prima non è mai stata in campo, essendoci quella reale di Maastricht e del fiscal compact.

E il compito di una sinistra d’alternativa è come combattere decisioni e direttive di quest’ultima, senza dare spazio alle pulsioni filoVisegrad. Sarà il tema delle prossime elezioni europee. Proprio per tutti questi motivi appare stravagante che a sinistra del Pd si discuta prioritariamente come atteggiarsi rispetto al governo che verrà, per di più con una simile modesta rappresentanza parlamentare che la ridurrebbe a forza di complemento del vincitore. Se qualcuno pensa di scavalcare il Pd quanto a “responsabilità” è fuori strada. Il problema è costruire la sinistra, e prima ancora ridare a questa parola senso.

Revelli ci invitava a ricominciare a pensare, citando Montale. Ma farlo in modo disperso e contrapposto sarebbe poco utile. Credo che questo giornale abbia le carte in regola per prendere un’iniziativa in questo senso.

Perché, sempre citando un Montale più tardo, a sinistra siamo come «Una tabula rasa; se non fosse / che un punto c’era, per me incomprensibile, / e questo punto ti riguardava» (il corsivo è del poeta).

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