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Sinistra . Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo. In effetti revisione della legge Fornero, del Jobs Act, della «Buona scuola», il reddito di cittadinanza, sarebbero provvedimenti che tutta «la sinistra» avrebbe dovuto assumere

Si ha l’impressione che, lasciati alle spalle i proponimenti iniziali, della sconfitta del 4 marzo si sia attenuata o smarrita l’eco a sinistra. E anche le rovinose sconfitte successive, non suscitano reazioni oltre la riaffermazione sostanziale della giustezza della propria linea. Non viene detto esplicitamente, ma è implicito nella riproposizione delle certezze del passato recente e nello stesso modo di valutare il successo degli avversari.

Se ci si convince di vivere in un paese fascista e razzista (inserito a sua volta in un continente ancor più razzista, se la questione dei migranti è la cartina di tornasole di tutto il resto) la cosa non potrà che risolversi nella proposizione di una sorta di «suprematismo morale» da parte di una minoranza che considera il resto del mondo «disumano», che crede di detenere in esclusiva intelligenza e umanità, che nega alla stragrande maggioranza del popolo italiano ed europeo.

Una minoranza che sembra aver smarrito perfino la curiosità intellettuale di studiare con serietà gli avversari e le loro motivazioni, di comprenderne natura e logica, che è o dovrebbe essere compito preliminare di ogni battaglia politica, accontentandosi di ripetere luoghi comuni stereotipati e consolatori. Un facile alibi per questo atteggiamento è sicuramente rappresentato dall’onnipresenza mediatica dei proclami di Matteo Salvini, che è ormai invadente e pervasiva quanto quella che fu di Matteo Renzi.

CON UNA DIFFERENZA fondamentale, però: Renzi si rivolgeva a una Italia in gran parte immaginaria, fatta di «eccellenze», brevetti, «startup», benestanti felici coi figlioli all’Erasmus. Salvini invece si rivolge a un’Italia fin troppo reale, impoverita e incattivita, che esprime un bisogno di protezione e sicurezza. Sicurezza che è una dimensione globale e avvertita come tale dalla popolazione, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico.

A mio avviso il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento.  È un fenomeno che rischia di assumere una dimensione epocale (non solo italiana) e di segnare una fase non breve della nostra storia. Non giunge per la verità inatteso, anzi si può considerare per qualche aspetto uno sbocco tardivo, venendo dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per le generazioni più giovani.

Temo che anche il mitico «nuovo centrosinistra», che viene spesso evocato con poca fantasia, sia ormai una prospettiva usurata, sia perché è stata una politica ormai rigettata dagli elettori, sia perché la nuova alleanza di governo è già, in termini sociali, una replica dell’alleanza tra classi e ceti, tra aree diverse della popolazione, tra interessi che possono convergere e che furono propri di quella esperienza.

OVVIAMENTE CON FORTI influenze della destra nel discorso pubblico e nel senso comune, perché questa è l’aria che si respira, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Ma senza un segno univoco di destra, con una compresenza di tematiche su cui si potrebbe convenire e di propositi inquietanti: in effetti revisione della legge Fornero, del Jobs act, della «Buona Scuola», reddito di cittadinanza, erano provvedimenti che «la sinistra» avrebbe dovuto assumere per riacquistare un minimo di credibilità presso quelli che in un tempo lontano furono i suoi serbatoi elettorali. E anche andare in Europa con la spina dorsale, senza essere succubi di mitologie illusorie, sarebbe stata cosa buona e giusta.

LE INDUBBIE VENATURE razziste che emergono nel discorso pubblico sono conseguenza abbastanza inevitabile dell’egemonia consegnata alle destre. Vanno rifiutate e combattute, possibilmente senza continuare a schierarsi col potere oppressivo di Bruxelles. Ma sarebbe anche lecito interrogarsi su quanto le questioni riconducibili al «razzismo» abbiano un peso effettivo nei comportamenti elettorali di una platea così vasta, e personalmente estenderei il dubbio anche alla questione dei migranti, forse non così cruciale nel motivare le scelte rispetto a quanto suggerirebbe la propaganda ossessiva di Salvini e di altri governanti in Europa.

In ogni caso, continuare a trattare Di Maio e Salvini da ignoranti o trogloditi è sbagliato e sterile.

Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche (Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.

Con buona pace di Umberto Eco, il fascismo non è una categoria dello spirito ma è un fenomeno storico dalle caratteristiche ampiamente studiate e discusse, e va evitato l’abuso di «false analogie» di cui un tempo eravamo abituati a diffidare.

Aggiungerei che ricondurre automaticamente ogni forma di razzismo al fascismo è un dispositivo mentale che semplifica e banalizza entrambi i termini in questione. Non tiene conto fra l’altro della lunga tradizione coloniale, e in essa del ruolo delle democrazie coloniali, le più radicali e risolute nella pratica della discriminazione e dell’apartheid. Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato, la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo.

QUESTA NUOVA DESTRA si potrà combattere solo contendendole la capacità di parlare ai ceti popolari. Servirebbe un vero Partito del lavoro, collegato a sindacati, organizzazioni esistenti, corpi intermedi. Purtroppo è qualcosa a cui la sinistra nel suo complesso appare oggi del tutto inadeguata, tanto nel balbettio di una sinistra «riformista» artefice della situazione nella quale ci troviamo, quanto negli automatismi di una sinistra «radicale» che non riesce a dismettere l’abitudine di immaginarsi solo come assemblaggio di minoranze e monoculture, incapace di rivolgersi alla società italiana nel suo complesso.

Tutta la sinistra, moderata, radicale o antagonista, è stata percepita dalla maggioranza dei cittadini come estranea o nemica. Se non si parte da questa dolorosa consapevolezza sarà molto difficile proporsi di voltare pagina e ripensare tutto, con umiltà. Presidiare il tre-quattro per cento, destinato a farsi sempre più precario, può risolversi alla fine in uno sforzo inutile e superfluo, perché le classi popolari troveranno comunque il modo di farsi rappresentare, con o senza una sinistra.

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Convegno Fiom. Ad un anno dalla morte del giurista alla Lamborghini il contratto appena firmato prevede un corso sulla Costituzione

Il grande giurista e i metalmeccanici. Il rapporto tra Stefano Rodotà e la Fiom – ricordato ieri ad un anno dalla morte nel convegno «Sulla via maestra» – risale al 2010, ai giorni caldi del referendum di Pomigliano: da una parte la modernità di Marchionne, dall’altra un piccolo gruppo di operai che combattevano per i loro diritti. «Mentre tutti ci spiegavano che era un caso eccezionale, Stefano fu l’unico a scrivere e a dire che invece era un attacco ai diritti di tutti perché cancellare la democrazia nei luoghi di lavoro significava avere una concezione autoritaria di gestione dei rapporti sociali», ricorda Maurizio Landini, all’epoca appena eletto segretario generale.
Rodotà andò ad incontrare i lavoratori di Pomigliano, iniziò un rapporto umano che è continuato con un’empatia inaspettata. Per questo ieri mattina la sala Di Vittorio era piena di operai e delegati che consideravano «il professore» uno di loro, avendolo ascoltato dal palco in tutte le manifestazioni della Fiom dal 2010 in avanti.
L’intervento al congresso di Rimini del 2014 è stato citato da Landini per sottolineare l’attualità del pensiero di Rodotà: con i passaggi quasi «profetici» sul populismo – anche quello di Grillo che un anno prima lo propose e fece votare presidente della Repubblica – «segnati da questa maniera di guardare al rapporto tra società ed istituzioni» tramite «un rifiuto della mediazione, il rifiuto delle soggettività», «una riduzione forzosa della complessità»: «populismi che dicono no al conflitto che invece è il sale della democrazia, nel senso di confronto anche duro intorno alle grandi questioni della società» mentre «la partita che si sta giocando può avere un esito inquietante: una democrazia senza popolo perché i populismi che saltano tutte le mediazioni alla fine usano il popolo, non gli danno voce».
Landini ha quindi ricordato che fu Rodotà a inventarsi l’espressione «coalizione sociale» come «popolo che torna protagonista», «l’opposto del populismo».
La bussola di ogni ragionamento di Rodotà – come sottolineato negli interventi di Gaetano Azzariti, Sergio Cofferati, Franco Focareta, Francesca Re David, Riccardo Realfonzo – è sempre stata la Costituzione, i diritti e la dignità delle persone.
L’ACCORDO LAMBORGHINI
Quale migliore dimostrazione di aver compreso la lezione di Rodotà che sottoscrivere un contratto in cui si prevede che tutti i 1.600 lavoratori seguano un corso di otto ore sulla Costituzione pagato e in orario di lavoro? Ebbene è accaduto proprio pochi giorni fa alla Lamborghini di Sant’Agata Bolognese. «Abbiamo voluto promuovere un grande piano di formazione – obbligatorio, prendendo come esempio la formazione obbligatoria sulla sicurezza – sulla Costituzione, i suoi contenuti, la sua origine, i diritti civili e sociali, il ruolo dei lavoratori: come ci ha insegnato Rodotà la nostra via maestra sono i diritti, a partire dalla conciliazione tra tempo libero e tempo di lavoro, altra innovazione di questo contratto che porta ogni lavoratore a poter scegliere tra un bonus fino a 3mila euro o 5 permessi aggiuntivi», spiega il segretario Fiom di Bologna Michele Bulgarelli.

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La disfatta del Pd. L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi. Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico.

Abituati alle frane di un paese che si sbriciola, restiamo invece quasi stupiti quando la frana assume i connotati di un cedimento del territorio dal punto di vista sociale e politico. Come accade da alcuni anni ad ogni appuntamento elettorale. Quando la montagna smotta o il fiume allaga, ogni cosa finisce per essere travolta, i campi incolti come i terreni ben coltivati. La disfatta del Pd in Emilia Romagna e in Toscana, due regioni amministrate meglio di tante altre, dimostra che la valanga fascistoide non ha trovato argini in grado di contenerla.

Città dove il Pci-Pds-Ds-Pd era al governo da 70 anni (Imola e Siena), o da 20 come Terni, hanno scelto di cambiare.

Nulla di drammatico di per sé, perché il problema non è sbaraccare le vecchie, ossificate nomenklature. Il problema è che il cambiamento premia una Vandea. Presente e diffusa in tutto il paese. Su quali basi noi oggi assistiamo alla crescita di un partito che, dal 4 per cento del 2013, nel 2018 quadruplica? E che i sondaggi danno in costante salita? Sicuramente sulla base di fortissime tensioni sociali. Ma anche sull’odio (quel che si è scatenato contro Saviano è barbarie), sulla paura, sul livore, sull’intolleranza.

Ha fatto la sua parte la mancanza di governo di alcune questioni, come il lavoro e la sicurezza sociale, ovvero gli argini politico-culturali da sempre appannaggio della sinistra: queste vie maestre della convivenza civile e della tutela sociale non sono state difese. Anzi, è accaduto il contrario. Come dimenticare la battaglia durissima condotta da Renzi contro i sindacati, oppure la beffa del contratto a tutele crescenti, o l’affidamento dell’accoglienza al sistema malato delle cooperative (l’imprenditore campano dei centri per i migranti con la Ferrari), come la retorica renziana di «aiutiamoli a casa loro», o la brutalità del ministro Minniti che «risolveva il problema» ricacciando i migranti nell’inferno libico? Tutto questo ha desertificato il terreno del consenso, favorendo la scia salviniana, tirandogli la volata.

La persona anziana che si sente spaesata e insicura nel quartiere, quelli che temono «i neri» che rubano il lavoro (come se gli autoctoni fossero disposti a vendere pareo sulle spiagge), quelli che pensano ai diritti di se stessi e dei propri simili e se ne fregano del resto, quelli che temono la violenza (vergognosamente manipolata e usata dalla propaganda mediatica), non vogliono ascoltare, non vogliono discutere e confrontarsi: chiedono risposte immediate, semplici, rassicuranti e si offrono a chi le propone. Senza però riflettere sul fatto che le soluzioni delle destre xenofobe non danno una risposta che guarda avanti, ma giocano tutto in difesa e alzano muri: contro gli immigrati, contro l’Europa, contro i pericoli esterni (magari armando ogni singolo cittadino che vuole autodifendersi).

L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi.

Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico.

La sinistra che non si riconosce nel Pd, non ha bisogno di un leader solitario. Ha urgenza di mettersi insieme, di qualcuno capace di prendere per mano questo mondo disorientato. Un compito che, in questa fase, non può essere assolto dal presidente Grasso, perché si tratta di riavviare tanto una riflessione teorica quanto un riassetto politico. Ora c’è bisogno di persone giovani, donne e uomini impegnati sul territorio, politicamente rodati. Ci sono, ma purtroppo concentrati a costruirsi ciascuno il suo partitino.

Nel tentativo di incontrare chi, dentro e fuori del partito democratico lavora per una svolta vera, ieri Zingaretti, il presidente del Lazio, una delle regioni che più e meglio ha retto all’arrembaggio della destra, ha invitato il Pd a considerare chiuso un ciclo storico e ad abbandonare «personalismi e settarismi», i due mali endemici della sinistra. Nel Lazio si è rivelata un’idea vincente. Naturalmente al netto di un’astensione-monstre.

Per ritrovare una luce in fondo al tunnel bisogna allenare i muscoli a una ripida e lunga salita, evitando di cadere nella trappola «molti nemici, molto onore», cioè regalando i 5Stelle alla Lega, considerandoli alla stessa stregua. Per due semplici ragioni. Perché, come rivelano i flussi elettorali, secondo l’istituto Cattaneo, in alcune città il voto pentastellato è andato al candidato leghista (nelle città toscane), mentre altrove è andato al centrosinistra (nelle città del Sud come Brindisi e Teramo). E perché significherebbe dire che oggi in Italia il 70% dei cittadini è di destra, mentre il nostro è sempre stato un paese spaccato a metà, con una larga fetta di opinione pubblica che si tira fuori, che si astiene.

Nel municipio di Roma dove ha vinto Caudo, ex assessore ai tempi di Marino (una macchia orribile, tra le varie per il Pd), erano chiamati al voto più di 160mila elettori, come a Imola o a Terni, ed è andata al seggio una risicata minoranza, l’80% è rimasto a casa. Non per scelta, per disperazione. Ma se non vogliamo farci sommergere dall’onda, è da queste piccole vittorie che si può ripartire. Dimostrano, nonostante tutto, nonostante la Vandea montante, che c’è ancora vita a sinistra.

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Video: Governo, il messaggio di Saviano a Salvini: “Buffone, non ho paura di te. Sei ministro della malavita”

Lo scontro a distanza tra lo scrittore Roberto Saviano e il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, prosegue. Dopo che il leader del Carroccio ha annunciato di voler dare avvio a verifiche sulla scorta dell’autore di Gomorra, Saviano gli ha risposto con un video che ha pubblicato su Facebook: “E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da 11 anni? Da più di 11 anni. Ho la scorta da quando ho 26 anni, ma pensi di minacciarmi, di intimidirmi? In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani. Ho più paura a vivere così che a morire così. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone” è l’inizio del messaggio rivolto al ministro.

In serata, in difesa di Saviano è intervenuto anche il presidente della Camera, Roberto Fico: “L’Italia è il Paese che ha nel suo ventre tre fra le più grandi organizzazioni criminali internazionali: mafia, camorra, ‘ndrangheta. Tutti i cittadini, gli imprenditori e gli intellettuali che hanno avuto il coraggio di opporsi alla criminalità organizzata devono essere protetti dallo Stato – ha scritto su Facebook – Spero che al più presto questo male possa essere definitivamente sradicato, diventando così solo un brutto ricordo. In questo modo nessuno dovrà più essere scortato perché finalmente libero.”

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Sinistra / governo. Questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista. Difficile dire quanto stabile si rivelerà, ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.

«Del resto mia cara di che si stupisce/anche l’operaio vuole il figlio dottore/e pensi che ambiente che può venir fuori/non c’è più morale, Contessa». Torna in mente questa celebre canzone, a sentire certe reazioni di un’opinione pubblica colta e democratica, di fronte alla nascita del nuovo governo.

Un atteggiamento tra lo sconsolato e lo spocchioso, un sentimento di stupore e di estraneità: ma come si è potuti giungere fino a questo punto? E giù, poi, con le ironie sull’incompetenza di questi parvenu.

Alcuni settori politici, giornalistici e intellettuali, invece di chiedersi come mai il “popolo” non abbia dato loro minimamente retta, sembrano ritrarsi in una posizione di ripulsa, di denigrazione delle masse. Un vecchio riflesso condizionato, tipico dei conservatori del buon tempo antico, quando si pensava che il governo fosse una prerogativa naturale dei colti e delle èlites.

Ma appare assai dubbio che, in questo modo, si possa costruire un’opposizione efficace a questo governo e che si possa fare ricredere quei milioni di connazionali che hanno votato per queste forze “impresentabili”. Limitarsi a lanciare un grido allarmato sui “populisti al governo” non intacca il consenso di cui godono. Un’opposizione credibile presuppone un saldo “punto di vista” alternativo. Ed è questo che oggi manca del tutto: dire che “mancano le coperture” è un argomento assai fragile (e persino controproducente: un elettore che ha votato per questi partiti, può sempre pensare: “beh, allora gli obiettivi sono giusti, almeno ci stanno provando”).

Costruire una cornice politica e ideale che possa davvero insidiare l’egemonia populista presuppone, intanto, che si torni a praticare quella che un tempo si chiamava “analisi differenziata”.

E quindi, in primo luogo, occorre interrogarsi su che tipo di populismo abbiamo di fronte.

Possiamo assumere una definizione, minima ma essenziale, di populismo: il populismo è un modo di costruzione del discorso politico, un’operazione egemonica sugli schemi interpretativi della realtà sociale e del conflitto politico, fondata sulla creazione di una dicotomia che separa “noi” (il popolo”) da “loro” (gli “altri”). Possiamo dire allora che questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista: la prima identifica l’”altro” con lo “straniero”, la seconda con le “èlites”. Difficile dire quanto stabile si rivelerà questa convergenza: ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.

Il primo passo per una controffensiva è quello di non “regalare” all’avversario anche il controllo sul linguaggio della politica, e su alcune parole, in particolare: “l’anti-elitismo” e la “sovranità popolare”. Le teorie elitistiche del potere sono sempre state un caposaldo del pensiero conservatore. Da Gaetano Mosca fino ad alcuni scienziati politici americani del Novecento, la critica alla democrazia di massa si è sempre fondata sull’idea che il “cittadino comune” è incompetente, incapace di avere una visione lungimirante dei propri stessi “veri” interessi: e sull’idea che, in fondo, l’apatia è un segno di consenso, o che un eccesso di “partecipazione” popolare è pericoloso. Ebbene, la sinistra, oggi, non dovrebbe recuperare una sana attitudine “anti-elitista”?

Ossia, individuare le vere oligarchie che dominano l’economia e la società e indicare le vie per contrastarne lo strapotere? E poi, la “sovranità popolare”: diamine, è un termine che appartiene alla storia del pensiero democratico e rivoluzionario! Possiamo ridurre tutto a “sovranismo” nazionalista? o non si dovrebbe ridare un senso all’idea di una sovranità democratica, a fronte del dominio cieco e impersonale di potenze economiche e finanziarie imperscrutabili e sfuggenti? Solo così, al M5S si potrà poi rivolgere un’obiezione cruciale: le “èlites” sono per voi sono solo le “caste” politiche? E come la mettete con la flat tax?

Se analizziamo la cultura politica del M5S troviamo un’idea ibrida di democrazia. Da una parte, più che di democrazia “diretta”, è giusto parlare di una sua visione immediata e “direttistica”: l’idea che la “volontà popolare”, univoca e indifferenziata, si possa tradurre senza filtri e mediazioni in una “volontà generale”; dall’altra, specie a livello locale, ci si appella invece ad un’idea di democrazia “partecipativa” che ha alimentato l’esperienza politica e associativa di molti attivisti (ad esempio, in molti programmi amministrativi del M5S, frequente è il richiamo al “bilancio partecipativo”). Una miscela contraddittoria: un’idea di democrazia “a binario unico”, che può condurre ad ignorare i principi cardine di un costituzionalismo democratico, ma che esprime anche, in forme distorte, un’idea di recupero della sovranità popolare, oggi comunemente sentita come svuotata, con un appello al protagonismo civico. Da qui anche la novità di un ministero alla “democrazia diretta” e l’inserimento nel “contratto” di alcune proposte di riforma dell’istituto referendario (su alcune delle quali si può discutere, mentre altre sono assai più problematiche). Ma anche in questo caso, è una sfida che può essere raccolta solo se la sinistra torna a proporre una visione ricca della democrazia rappresentativa, che sia fondata sulla partecipazione politica dei cittadini, e non su una mera selezione elettorale delle èlites.

Si può far leva su queste contraddizioni; ma come sarà possibile se, ad esempio, all’interno del Pd, ci sono ancora forze che pensano con nostalgia alla riforma costituzionale sconfitta al referendum, o a leggi elettorali simil-Italicum, che proprio ad una visione plebiscitaria della democrazia erano ispirate? Sembra oramai largamente condivisa l’idea che la crisi della sinistra sia nata dalla sua subalternità al neo-liberismo economico; meno frequente appare il richiamo ad un’altra, non meno grave, subalternità: quella ad una visione elitistico-competitiva della democrazia. Anche su questo terreno si dovrà misurare una possibile ricostruzione della sinistra.

 
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Beni Comuni. A sette anni dal referendum nazionale boicottato, i comitati «Rete rifiuti zero» rilanciano la battaglia. Ma il Pd in Regione difende i privati.

Dopo sette anni i comitati per l’acqua pubblica ci riprovano. Lo fanno in Emilia-Romagna, la Regione che nel 2011 assicurò, assieme a Toscana e Trentino-Alto Adige, il raggiungimento del quorum referendario che puntava a trasformare l’acqua in un bene comune a gestione pubblica. Un plebiscito lontano e inapplicato quello di sette anni fa, e i referendari lo sanno bene. Per questo i comitati e i loro alleati della “Rete Rifiuti zero” hanno accantonato la via del referendum per scegliere invece quella della Proposta di legge regionale.

SE SARÀ APPROVATO il provvedimento non solo faciliterà la vita a quei Comuni che vorranno ripubblicizzare il servizio idrico ma normerà anche l’importantissimo tema dei rifiuti. Un doppio binario che parla di ambiente e partecipazione dal basso nella gestione dei servizi pubblici, e che punta a scardinare il dominio incontrastato delle grandi multiutility nel settore, in Emilia-Romagna si parla di due player di livello nazionale come Hera e Iren, aziende quotate e galline dalle uova d’oro per gli enti locali che ogni anno incamerano importanti dividendi e, questa la contropartita, riescono sempre meno a dettare le linee e strategie alle loro aziende.

«VOGLIAMO RIPORTARE la gestione di acqua e rifiuti il più possibile vicino ai cittadini – dice Natale Belosi, coordinatore regionale della Rete Rifiuti Zero -. Vogliamo dare gambe ai principi alla base dell’economia circolare e scrivere nero su bianco che la raccolta e la gestione dei rifiuti deve sottostare a una finalità pubblica e non ubbidire a mere regole di mercato». Al di là degli importanti principi generali, che nero su bianco definiscono l’acqua un bene comune e quello dei rifiuti un ciclo strategico da orientare alla produzione zero, restano gli strumenti operativi che la legge metterebbe in campo. A cominciare da un fondo per la ripubblicizzazione dell’acqua.

IL TESTO DI LEGGE DOVRÀ essere discusso nell’aula regionale e li si vedrà l’orientamento delle varie forze politiche. Resta un punto fermo: dopo tanti sforzi, anni di proteste, proposte e tentativi di dialogo, a vari livelli il Pd ha sistematicamente chiuso la porte al referendum del 2011, e in sette anni Hera è diventata più grande (6,1 miliardi il fatturato 2017, più 10,3 per cento sull’anno precedente) e si è sempre più allontanata dagli enti locali. Anche dove erano partiti processi capaci di portare alla ripubblicizzazione del servizio tutto è stato bloccato. È successo ad esempio nel 2015 a Reggio Emilia, che ha avuto la possibilità di affidare la gestione del ciclo idrico ad una società 100 per cento pubblica e che invece, dopo una piroetta del Pd locale, si è ritrovata a fare marcia indietro tra le proteste dei comitati referendari.

«NEL 2021 SCADRÀ l’affidamento del servizio idrico in provincia di Bologna – ragiona Andrea Caselli dei comitati Acque bene comune -. Vogliamo arrivare a quel momento con una normativa regionale capace di aiutare tutte le amministrazioni che vorranno affidare l’acqua ad un’azienda pubblica. L’anno prossimo ci saranno le elezioni regionali ed è questo il momento in cui le forze politiche dovranno impegnarsi a dire ai cittadini cosa vogliono fare». Con i promotori si sono già schierati Sinistra Italiana e il consigliere Giovanni Alleva dell’Altra Emilia-Romagna. Il Movimento 5 Stelle sta invece valutando la questione, resta però sul tavolo la promessa di Massimo Bugani, capogruppo dei grillini a Bologna e membro dell’associazione Rousseau: «Se vinceremo in Regione lavoreremo per l’acqua pubblica». E il Pd? «La strategia negli ultimi anni è stata quella di strisciante privatizzazione – dice Caselli -. Alla fine queste scelte politiche porteranno sempre più utili e dividendi ai privati, mentre toglieranno potere ai soci pubblici».

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