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Alternative. In Italia è nata la rete delle Famiglie senz’auto. Le storie di chi ha deciso di aderire. Dal 17 al 22 settembre la settimana europea della mobilità sostenibile

Dal 17 al 22 settembre è la settimana europea della mobilità sostenibile: perché non provare a rottamare l’auto? Sembra una sfida irrealistica, esagerata, eppure se andiamo nei quartieri car free di Friburgo, Copenaghen, Malmoe, vivere senz’auto è la prassi.

E così per resistere, per testimoniare, per reclamare il diritto a fare a meno dell’auto, in Italia è nata la rete delle «famiglie senz’auto» (gruppo Facebook e blog www.famigliesenzauto.blogpost.com). Il primo raduno a Bologna, nel giugno scorso. Tante sono le famiglie che ne fanno parte, dal Nord al Sud Italia, dai paesini alle metropoli.
Angela Sorrentino, che vive a Napoli con marito e figlio quindicenne, senz’auto dal 2011 racconta: «Quando abbiamo finalmente deciso di rottamare l’auto è stata una liberazione, non dovevo più preoccuparmi di alcun parcheggio, di fare benzina, di fare la manutenzione, l’assicurazione. Giro a piedi o coi mezzi pubblici. Mi sento più abitante, più cittadina. Ma le difficoltà ci sono state e ci sono tutt’ora. Linee di bus cancellate, tariffe che aumentano, ritardi, servizi inefficienti…ma in tutto questo noi resistiamo».

Dante Cecili e Francesca vivono senz’auto a Roma col figlio di 11 anni. «Circa dieci anni fa si è rotta l’unica auto che possedevamo. Ci siamo organizzati dapprima col servizio del car sharing appena sbarcato a Roma, poi bici e bus. Non avere l’auto ci ha resi molto più liberi. Le motivazioni sono economiche (secondo un rapporto di Federconsumatori il risparmio si aggira sui 7 mila euro l’anno ndr) ma anche etiche ed ecologiche».

DALLE METROPOLI AI PAESINI SPERDUTI. Angelo Boezi vive in un piccolo paese dell’Appennino laziale tutto salite e discese: «Ho organizzato la vita in modo da poter vivere a piedi, oppure vado in bici. Ho imparato a fare i conti con il freddo, il caldo, la pioggia… a vestirmi in modo appropriato. A gestire la spesa in maniera umana».
C’è poi chi, come Mirko di Fusignano (Ra), non solo vive e va al lavoro senz’auto, (dieci chilometri andata e ritorno in bici), ma con la sua cargobike, nel tempo libero, fa il bibliotecario: «Volevo rimettere in circolo i libri da me letti, condividendoli con altre persone, così ho creato una biblioteca ambulante a zero emissioni».
E per andare in vacanza? Basta scegliere luoghi raggiungibili coi mezzi pubblici, o treno più bici. Raccogliendo le testimonianze di vacanze senz’auto, Roberto Luffarelli ha creato il sito Turismo senz’auto, con vari itinerari e mete (https://turismosenzauto.jimdo.com/).

VIVERE SENZ’AUTO NON È RADICAL CHIC, è anche un modo per essere solidali con chi è più povero, con i migranti, che sono i nostri più assidui compagni di viaggio, in bici e nei mezzi pubblici: mio marito va al lavoro in bici e percorre una strada (da Faenza a Castelbolognese) pericolosa e trafficata. Una strada percorsa in bici soprattutto da giovani africani che vanno al lavoro nei campi. Da anni chiediamo una ciclabile, ma invano. È vero quello che dice l’antropologo Franco La Cecla: «La forza e la prepotenza, l’impunità e il privilegio si giocano sull’asfalto delle nostre città».

Vivere senz’auto è una scelta di solidarietà, pacifismo e non violenza: l’auto non solo uccide negli incidenti stradali (almeno 3400 morti ogni anno secondo l’Istat), ma uccide anche per l’inquinamento dell’aria, e per le guerre causate dal petrolio. Per l’auto si devasta il paesaggio, cementificandolo. Le auto hanno ridotto le nostre città a immensi parcheggi, togliendo spazio ai pedoni, alla vita comunitaria, ai giochi dei bambini. Per le auto, le città si espandono (urban sprawl) e i centri commerciali in periferia proliferano, distruggendo il commercio locale.
Chi vive senz’auto, per forza o per amore, alimenta l’economia locale, etica e solidale. Al centro commerciale in bici non riusciamo ad arrivare, compriamo dai Gas (gruppi di acquisto solidali), nei mercatini rionali, nei negozi di quartiere. Per la spesa più pesante usiamo rimorchi per la bici o cargobike.

LA DOMANDA PIÙ FREQUENTE, quando la gente scopre che viviamo senz’auto è sempre la stessa: «E se piove come fate?» e noi rispondiamo: «Ci vestiamo bene!« Come dice un detto nordico, non c’è buono né cattivo tempo, ma buono o cattivo abbigliamento. «E i bambini non si ammalano?» I bambini sono i primi a non voler tornare ad avere l’auto! Sono i primi a beneficiare del movimento all’aperto, anche col freddo, anche sotto la pioggia: si divertono, rafforzano le difese immunitarie, ne giova il senso di autonomia, di autostima, di orientamento.

Con 62 auto ogni 100 abitanti, circa 2 auto ogni 3 persone (compresi i bambini), siamo il paese con il tasso di motorizzazione più alto in Europa (dopo il Lussemburgo). Le nostre auto per lo più viaggiano vuote e per pochi km (secondo l’Isfort il 60% dei viaggi motorizzati è sotto i 5 km).

La soluzione non può essere quella di sostituire il parco auto attuale con auto elettriche, perché il traffico, gli incidenti, la cementificazione, il furto di spazio resterebbero invariati. Bisogna ridurre la quantità di auto in circolazione! Dobbiamo puntare ad avere 1 auto ogni 3 famiglie, mentre ora siamo in media a 2-3 auto ogni famiglia.

VIVERE SENZ’AUTO NEL NOSTRO PAESE PERÒ NON È FACILE. Il rapporto Pendolaria di Legambiente fotografa un’Italia che investe poco nelle ferrovie, contro il grande investimento su strade e autostrade. Noi famiglie senz’auto chiediamo quindi ai ministri dell’Ambiente e dei Trasporti più democrazia nelle strade (con la riforma del Codice Stradale), più piste ciclabili, incentivi a chi ha auto di proprietà, una politica nazionale di bike to work, mezzi pubblici capillari e efficienti, treni e bus gratis per ragazzi almeno fino a 15 anni, così come succede all’estero e in Lombardia e Alto Adige. Nessuno di noi è un pazzo o un eroe, siamo persone comuni, che fanno scelte controcorrenti in un paese ancora troppo ostaggio delle auto. Affrancarsi dalla proprietà delle auto, è un passo necessario verso un mondo più giusto, più sano, più umano.

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A ispirazione e supporto della circolare diramata dal suo capo di gabinetto che intima ai prefetti di procedere ad interventi sgombero di stabili ed aree occupate senza pensare a locazioni alternative, Salvini ha scritto su Twitter che «la proprietà privata è sacra».

Una bestemmia, o una fake news per usare un linguaggio più secolarizzato. Non la pensava così Stefano Rodotà (la cui mancanza si fa sentire ogni giorno di più) che agli inizi degli anni ’80 raccolse i suoi studi sulla proprietà (e più volte ci tornò) in un libro diventato famoso Il terribile diritto. Un titolo desunto da una frase contenuta nell’opera più celebre di Cesare Beccaria: «…il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto)». Quando fu pubblicata correva l’anno 1764.

Evidentemente per alcuni un tempo passato invano. Ma sappiamo che il progresso intellettuale non procede in modo lineare. Né qui si pretende che Salvini abbia mai letto Beccaria o Rodotà. Tuttavia dobbiamo esigere che conosca la Costituzione, su cui ha giurato diventando ministro. Essa non solo all’articolo 41 affronta il tema dell’iniziativa economica privata, esigendo che questa sia indirizzata all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Ma stabilisce, nell’articolo 42, precisi limiti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, prevedendo in caso contrario anche l’espropriazione per motivi di interesse generale».

A sua volta l’articolo 44 pone vincoli alla proprietà terriera privata. Conosciamo i vari tentativi di dare un’interpretazione restrittiva in senso favorevole al diritto proprietario del dettato costituzionale, fino a cercare di capovolgerlo. Ma di certo questo terribile diritto non può essere assolutizzato, meno che mai sacralizzato. Sarebbe anche opportuno che il massimo garante della nostra Costituzione facesse giungere la sua voce dal Quirinale a fronte di simili esternazioni ministeriali. Abbiamo un governo nel quale vi è chi parla di nazionalizzazioni e chi si fa paladino della sacralità proprietaria. In ogni caso un ministro che non conosce la Costituzione o che con i suoi atti la viola coscientemente non è degno di quel ruolo e se ne deve andare.

Meglio se non da solo. Jeremy Bentham sorpreso delle parole del Beccaria le definì «un dubbio sovversivo dell’ordine sociale». Ma qui siamo al classico sovversivismo delle classi dirigenti. Secondo la circolare gli sfollati, dopo schedatura, saranno parcheggiati in recinti («strutture provvisorie di accoglienza»). L’iniziativa ministeriale rafforza la spinta a chiudere centri di iniziativa culturale sociale come la Casa delle Donne a Roma, ed è stato giusto portare la questione all’attenzione della Commissione Ue. D’altro canto il tema abitativo si incrocia con quello dei migranti. E riguarda tutti. Ci ricordiamo la violenza poliziesca della scorsa estate in piazza Indipendenza a Roma. Una ragione in più per sostenere l’urgenza di una manifestazione popolare contro il razzismo e la barbarie, come proposto su queste pagine.

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L'estate di Salvini. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio, non si può lasciare il ministro dell'interno a sbandierare Italy first

L’estate è stata spesso palcoscenico di tormentoni politici, utili a riempire il vuoto di notizie e raggiungere una opinione pubblica distratta. Ma quella del 2018 passerà alla storia come il tempo di Salvini, capace di consolidare l’egemonia leghista sull’esecutivo giocando cinicamente su una emergenza migranti che oggettivamente non esiste. M5S non riesce a contenere la piena, e nel confronto sembra balbettare su terreni come la Tav, la Tap, e l’Ilva. Si conferma che non c’è partita tra il leader provato sul campo di un partito vero come la Lega e quello costruito in provetta di un movimento in crisi di crescenza.

In parte, un copione già visto. Ma cogliamo una novità: Salvini ha alzato i toni. Sprezzante verso Mattarella, Fico, le opposizioni, i magistrati, l’Europa. E, se a qualcuno mai venisse il dubbio, ha chiarito che non ha alcuna intenzione di dimettersi.

Due punti. Il primo: non accade perché Salvini ha preso un colpo di sole. Il secondo: è una strategia che non può durare a lungo. L’unica conclusione ragionevole è che il leader leghista stia guardando ai prossimi confronti elettorali, a partire dalle europee del 2019, forse affiancato da un anticipo delle elezioni politiche, più probabile proprio per l’accelerazione salviniana. Ne potrebbe uscire una netta svolta a destra del paese. La domanda è: si può fermare o contrastare Salvini?

Diciamo subito che – lo dimostra il caso Mancuso – di un ministro scomodo ci si può liberare solo con una mozione di sfiducia individuale. È possibile o probabile che dalle opposizioni ne venga una. Ma una sfiducia individuale respinta serve solo a compattare la maggioranza e paradossalmente rafforzare il ministro che si vuole colpire. Quindi, cautela.

È utile la via giudiziaria? Probabilmente no. Secondo le ultime notizie, Salvini è formalmente indagato. Se è così, si apre lo scenario di un reato ministeriale, e trova applicazione la l. cost. 1/1989, che riforma il testo del 1948 disegnando per il premier e i ministri una procedura ad hoc. Questa comporta anzitutto il passaggio a uno speciale collegio di tre magistrati estratti a sorte (art. 7).

Se il collegio non decide l’archiviazione, si prevede una autorizzazione parlamentare, che può essere negata a maggioranza assoluta dei componenti ove l’assemblea «reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9). L’autorizzazione è richiesta anche per limitazioni della libertà personale, intercettazioni, sequestro o violazione di corrispondenza, perquisizioni personali o domiciliari. Né può essere disposta l’applicazione provvisoria di pene accessorie di sospensione dall’ufficio (art. 10). È dunque ovvio che una maggioranza compatta può allo stesso modo respingere una sfiducia individuale e bloccare una indagine penale a carico del ministro.

Rimane la politica. Gli argomenti di una sinistra compassionevole e solidale e attenta al legame europeo sono nobili, e per una parte di noi doverosi. Ma sono temi che nel paese non mostrano oggi di riscuotere un consenso maggioritario. Fa impressione che persino la popolarità di papa Francesco abbia subito un netto calo, soprattutto tra i giovani, pare per la sua difesa dei migranti. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio. Il trumpismo fatto in casa di Salvini si sconfigge certo anche battendosi per i migranti, ma includendoli in un progetto complessivo sui diritti dei lavoratori, i precari, i disoccupati, i milioni di poveri, le periferie degradate, il ceto medio impoverito, i giovani che non possono permettersi una famiglia o un figlio, i deboli, i diversi. Non si può lasciare Salvini a sbandierare Italy first.

Non è compito da poco. Soprattutto per il Pd, a rischio di una definitiva consunzione, come dicono anche i fischi di Genova e la consapevolezza che la storia di privatizzazioni sospette di favori ad amici e sodali è a lungo maturata nelle stanze del centrosinistra di governo. Una palingenesi è indispensabile, anche se tuttora impedita dalle scorie del renzismo. Niente scorciatoie. Potrebbero solo condurci a un Salvini santo subito.

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Sarebbe arrivato il momento di togliere ai bassi fondi dei social l’esclusiva della formazione dell’opinione pubblica per riportarla nella dimensione della piazza reale. Se, a settembre, decine di migliaia di persone decidessero di incontrarsi a Roma, oltreché su Facebook, per una manifestazione contro la politica del governo sui migranti sarebbe un modo, per ciascuno e per tutto il paese, di ritrovarsi.

Servirebbe uno scatto di dignità nazionale contro chi si atteggia a piccolo padre della patria, capace di trattare gli immigrati come ostaggi, di sequestrare ragazze e ragazzi minorenni in fuga dai disastri del mondo, di fomentare rigurgiti razzisti, di stravolgere diritto e diritti costringendo la guardia costiera a diventare il suo braccio operativo. Al punto da intimidire il comandante della nave Diciotti: «Non sapevo se nell’attraccare al porto correvo il rischio di essere arrestato». Il ministro degli interni va combattuto a fondo e seriamente. Esposti e querele rischiano di lasciare il tempo che trovano.

Per fortuna dalla nostra parte abbiamo il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Fico è espressione dello stesso governo di Salvini che, dopo averlo attaccato personalmente su come si guadagna lo stipendio (ignorando che Fico restituisce l’indennità da presidente), ha buttato la palla addosso al Movimento pentastellato. Lui si trova benissimo con Di Maio e Toninelli, se i 5Stelle sono divisi è affare loro. Quanto a Mattarella «non temo il Colle, ho la coscienza a posto». Come è evidente, lo scontro politico-istituzionale è frontale, sia dentro il governo che, se non soprattutto, con l’Europa.

Oltretutto se a Bruxelles l’Italia incontra un muro sull’accoglienza, il governo è pronto a sparare cannonate sui conti pubblici e il momento si avvicina. Che il massimo dell’impegno sia riunire oggi le seconde file di dodici dei ventotto paesi per venire a capo del caso Diciotti, significa che non sarà l’Europa a fermare Salvini e i suoi amici europei. Non si può certo dire che la situazione sia eccellente anche se la confusione è grande.

La tentazione della crisi di governo per andare alle elezioni europee e fare il pieno di voti fa parte del gioco spericolato che, nei piani della Lega, dovrebbe prevedere, come suggerisce il sottosegretario Giorgietti, la riforma presidenziale e monocamerale.

Tuttavia la storia non è finita anche se le bandiere democratiche e costituzionali (in momenti come questo si sente la mancanza del professor Rodotà) sono state via via abbandonate, lasciate nelle mani di una classe dirigente e di governo che negli anni (grazie anche a Renzi, Minniti e compagni) le ha strappate pezzo a pezzo, fino a renderle irriconoscibili brandelli.

Come del resto sta succedendo alla bandiera europea, affogata nel Mediterraneo insieme ai 34.361 migranti morti per raggiungere le nostre coste negli ultimi 15 anni. Le vittime che abbiamo voluto ricordare, con nome e cognome, nell’inserto speciale pubblicato dal manifesto. Con nome e cognome perché sono persone e privarle dell’identità è disumanizzarle, a tal punto da immaginare di poterle riportare nei lager (libici). Una ferita che sfigurerebbe chiunque.

Proprio in questi giorni la Grecia festeggia l’uscita dai memorandum tornando a Itaca dopo la lunga odissea, dopo la vera e propria guerra europea contro i greci, un attacco brutale sotto gli occhi di tutti. Abbiamo visto da vicino di cosa è capace l’Europa ora che lo scenario internazionale la mette alla prova: non solo sul che fare nei confronti del governo italiano, ma verso la propria stentata sopravvivenza.

Sarebbe più che giustificato un lucido pessimismo, ma abbandonare il campo è sconsigliabile, questa è una battaglia campale che la destra italiana vuole stravincere senza fare prigionieri. L’unica via è andare controvento, i ponti da ricostruire sono molti e da qualche parte bisognerà cominciare. E Roma, a settembre, potrebbe fare al caso nostro.

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1968-2018. Se allora la sinistra avesse reagito subito diversamente, forse oggi non avremmo a che fare con una Visegrad

No, non è uguale agli altri che l’hanno preceduto questo cinquantesimo anniversario dell’agosto praghese, quando i carri armati di Mosca marciarono sulla città per mettere fine al tentativo di rendere il socialismo migliore e diverso da quello che fino ad allora era stato. Perché oggi ci impone una riflessione ulteriore, sia pure retrospettiva.

A scadenze regolari, ogni volta l’abbiamo ricordato con sentimenti diversi; la prima, quando non ricordavamo ma commentavamo l’evento che ci arrivò come una cannonata, ci fu stupore ed orrore, un dramma per noi comunisti che avevamo sperato nell’esperimento di Dubcek, e però non avremmo mai immaginato che Mosca potesse arrivare a tanto. Con malcelata soddisfazione – al contrario – fu vissuto da tutte le varietà dell’anticomunismo che dipinsero quell’attacco sovietico come se fosse stato perpetrato contro un governo gestito dai liberali anziché, come era, contro un governo di comunisti, che infatti si rifugiarono in una fabbrica – la Ckd – per tenere, difesi da picchetti operai, il loro clandestino congresso straordinario. Al primo anniversario, nell’agosto ’69, toccò al manifesto appena uscito (mentre la nostra radiazione dal Pci era ancora pendente e quell’articolo accelerò la decisione) constatare che Praga era sola.

Lasciata sola sia dai partiti comunisti che pure avevano criticato l’invasione ma non ne parlavano più, sia da quelli che avevano gridato contro tutti i comunismi, anche contro quello che veniva aggredito, ma ora avevano smesso di occuparsi della vicenda. Aveva vinto la normalizzazione, e nessuno intendeva mettere in discussione la tranquillità che forniva una coesistenza fra le due grandi potenze fondata sulla conservazione dello status quo ovunque nel globo, anche laddove ribolliva la sacrosante rivolta del terzo mondo. Ricominciarono tutti, come se niente fosse, a riallacciare rapporti con il nuovo regime di Praga, quello di Husak ( il primo viaggio nella capitale ceka, ricordo, fu di un noto dirigente del Psi).

RESTAMMO IN POCHI a ricordare la natura della«primaverapraghese» e le vere vittime dell’aggressione sovietica: i comunisti cecoslovacchi. Perché meravigliarsi che negli anni successivi quella memoria si sia via via affievolita nella stessa Cecoslovacchia, che il nome stesso di Dubcek sia stato dimenticato e la protesta abbia assunto sempre più i connotati di una spasmodica rivendicazione liberal-borghese? La solitudine di Praga, che ebbe il sostegno solo di una piccola parte della sinistra (nemmeno di tutta la nuova, quella sessantottina, che si sentì per lo più poco coinvolta, quasi la vicenda riguardasse solo i vecchi comunisti ) ebbe riflessi pesanti sui praghesi stessi. Dopo l’ultimo coraggioso ruolo di Carta 77, finì per produrre scoraggiamento e infine rimozione. Anche della migliore tradizione comunista di cui pure la Cecoslovacchia era stata ricca. Quando, poco prima dell’89, si arrivò alla «rivoluzione di velluto», la speranza di un comunismo buono era già morta, il significato della protesta era già assunto altra natura. E infatti, in poco tempo, diventò condiviso impegno per rendere al più presto il proprio paese sempre più somigliante all’agognato occidente.

GIÀ ALLA FINE del successivo decennio l’obiettivo era stato raggiunto: ricordo di aver rivisto Praga allora, dopo molti decenni. Col cuore stretto: la città già straniata, senza più né anima né mistero, la storica piazza San Venceslao non più agorà politica, stuprata da insegne di coca cola, griffes di Prada e Bennetton, una fila di «casino non stop». Sparita la magia, gli arcani, le cabale di rabbi Loev e del suo ghetto leggendario, ormai affumicato dai gas di scarico della ininterrotta fila di pulman carichi di visitatori stranieri.

MI RESI CONTO che pur essendo stata tante volte in quella città prima del ’68 non avevo più amici cui telefonare: quasi tutti quelli che si erano battuti con Dubcek, e poi con Carta 77, avevano già da decenni dovuto, o scelto, di abbandonare il paese. Dove erano finiti i comunisti? I nuovi governi, negli anni successivi, tentarono persino di rendere illegali – grazie all’ignobile equiparazione del comunismo con il fascismo – le formazioni che tornarono ad adottare quel nome. Mentre non pochi che erano stati parte dell’establishment rimasto al potere dopo la primavera si travestirono, alcuni diventarono ricchi, entrando a far parte del ceto «compradore» che l’Ue aveva cooptato in ognuno dei paesi dell’est che via via erano stati annessi, a condizione che accettassero senza fiatare quanto Bruxelles aveva già deciso nei suoi precedenti 40 anni. Babis,l’attuale primo ministro della Cechia – ormai separata della Slovacchia cui un tempo era unita – è, anche lui, uno di questi ex comunisti.

MILIARDARIO E POPULISTA. Appoggiato da chi si definisce socialdemocratico e, sia pure a malincuore, da chi oggi continua a portare il nome di partito comunista (tre suoi deputati siedono al parlamento europeo nel gruppo della Sinistra Europea).Ma il governo di Praga è oggi uno dei principali paladini del famigerato gruppo di Visegrad. Ecco perché dico che questo anniversario è diverso dagli altri: perché di fronte a un simile approdo non possiamo non ripensare a quanto quella solitudine del ’68 sia responsabile di questi mostri di oggi. La storia, lo sappiamo, no si fa con i se, ma non possiamo non dire che se allora a quell’evento la sinistra tutta avesse reagito subito diversamente, forse non ci saremmo trovati a che fare con una Visegrad. Non sarebbe stato un bene solo per l’est europeo, ma anche per la nostra sinistra.

 

Praga, agosto ’68. «I comunisti siamo noi, voi chi siete?» gridavano i ragazzi di Praga ai giovani soldati sovietici occupanti

 

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Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su quelle povere palazzine di edilizia popolare, costruite prima dell’avveniristico gioiello, per capire all’istante che, senza curarsene affatto, il ponte aveva già le sue vittime da violentare e imprigionare.


Le finestre guardano il muro del pilone, aprirle non serve per respirare, soffocate come sono dal cemento che in alcuni punti è letteralmente poggiato sul cornicione. Quando le telecamere di Skytg24 lo inquadrano in primo piano si vede chiaramente il cornicione del palazzo tagliato per ospitare l’immenso lastrone.

Più efficace dei fiumi di inchiostro, basta l’impietosa fotografia per capire chi sta sopra e chi sta sotto, chi sceglie e decide e chi è obbligato a piegare la testa. Rapporti di forza nudi e crudi. Gli inquilini di quelle case, lavoratori con il mutuo da pagare, sono cittadini di serie B, e da oggi fanno parte del grande popolo degli sfollati.
Naturalmente la politica dovrebbe agire e giustificare se stessa nel cambiare lo stato delle cose e in particolare dovrebbe farlo la sinistra. Come ricordava ieri sul manifesto l’ex sindaco di Genova, Doria, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si discuteva di «modello di sviluppo», sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo.

Un passato morto e sepolto perché poi, in tappe successive e coerenti (“patto tra produttori”, “svolta dell’Eur”), si cambiava rotta per scivolare sul piano inclinato degli anni ’80 quando i modernizzatori, neofiti del modello blairiano davano inizio alla fine dell’economia politica e di una lunga storia politica e sociale. Fino agli anni recenti, ridotti alla svalutazione progressiva e senza fine del lavoro con il jobs act sul trono della disfatta, preludio del tentativo successivo di cambiare i connotati alla Costituzione e al parlamento.
Con quale voce in capitolo questa politica può presentarsi ai cittadini, di quale futuro può farsi avanguardia e interprete quando insieme a quel ponte è crollato un modello marcio di crescita senza sviluppo.

Certo il populismo penale fa impressione, l’analfabetismo istituzionale è compagno di strada di scorciatoie giustizialiste che fanno audience, ma non si combattono con i pannicelli caldi del politicamente corretto, perché non servono ad allontanare la verità di un fallimento storico. Della sinistra e di un intera classe dirigente capace di divorare il paese facendosi docile strumento della corruzione e dell’incuria. Una classe dirigente complice del disastro nel migliore dei casi, agente primario dello sfascio morale e delle malversazioni nel peggiore. E quando per costruire il futuro si deve distruggere gran parte del passato, onestamente la sinistra ha qualche difficoltà ad opporsi alle ruspe.

Non si può certo dar torto a quei familiari che hanno deciso di celebrare in forma privata i funerali dei loro parenti uccisi dal ponte di Genova. La cattiva coscienza del paese si nutre di troppe stragi impunite. Sapere chi è stato, di chi è la responsabilità del loro doloroso lutto non riporterà in vita nessuno, però farebbe giustizia di un crimine così grave, sarebbe almeno una forma di risarcimento morale. Ma tornare a credere che nel nostro paese queste vittime avranno giustizia purtroppo è un atto di fede.

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