Oggi il Sudafrica porta Israele davanti al tribunale dell’Aja con l’accusa di genocidio. Tel Aviv si prepara a rispondere: appello agli alleati per impedire che si giunga a una sentenza storica. È il primo vero tentativo di fermare il massacro della popolazione palestinese di Gaza
ISRAELE/PALESTINA. Prima udienza alla Corte internazionale dopo la denuncia di Pretoria per genocidio, Tel Aviv prova a impedire l’ingiunzione. L’eventuale decisione dei 15 giudici è vincolante: possibili sanzioni Onu se non viene rispettata
Una bambina palestinese ferita all’arrivo all’ospedale Al-Aqsa Hospital di Deir al Balah - Ap/Hatem Moussa
Quello che si apre oggi all’Aja, comunque vada, è un procedimento storico. Alle 10 ora italiana la Corte internazionale di Giustizia (Cig), il principale organo giudiziario dell’Onu, ascolterà dalla delegazione sudafricana i contenuti della denuncia presentata lo scorso 29 dicembre contro Israele, accusato di violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948.
Tre ore di udienza a cui seguirà, venerdì, la risposta israeliana. Ad ascoltare le due parti saranno i 15 giudici della Cig – a cui se ne aggiungono due ad hoc, uno sudafricano e uno israeliano – da 15 paesi del mondo (restano in carica nove anni e operano in modo indipendente dai rispettivi governi; al momento alla Cig siedono giudici di Stati uniti, Russia, Cina, Francia, Australia, Brasile, Germania, India, Giamaica, Giappone, Libano, Marocco, Slovacchia, Somalia e Uganda).
A DIFFERENZA della Corte penale internazionale che giudica individui ritenuti colpevoli di crimini contro l’umanità, la Cig dirime le controversie tra Stati e le sue decisioni sono vincolanti. Sta qui la natura storica delle udienze che si aprono oggi: se una
Commenta (0 Commenti)Il misterioso Piano Mattei resta tale anche nel giorno in cui arriva in aula come decreto d’urgenza. Molte promesse, pochi soldi, è l’idea antica di «sviluppo e prosperità» su cui punta il governo per soddisfare il nostro bisogno di energia e risolvere tutti i problemi dell’Africa
PIANO MATTEI. Italia a tutto gas e zero rinnovabili. L'unica urgenza di procedere con un decreto è il bisogno delle risorse energetiche africane
Il presidente mozambicano Filipe Nyusi inaugura l'impianto gasiero di Coral - Zuma Press
Gas Pride. L’orgoglio italiano che Giorgia Meloni sprizza da tutti i pori ha trovato da qualche tempo un fulgido riferimento anche nella figura di Enrico Mattei, a cui è intitolato – copyright Eni – l’assai fumoso piano di cui ieri si è intravisto a malapena il solo contenitore. Un orgoglio vagamente spaccone, che sconfina appunto nella superbia e nella debordante autostima. «Sentimento unilaterale ed eccessivo – per restare alla prima definizione del dizionario – della propria personalità o casta».
Stando invece alla terminologia ricca di «valori etici» e «doveri morali» con cui viene infiocchettata la scatola ancora vuota del Piano Mattei, e volendo credere alla solenne promessa di rinunciare allo spirito «predatorio» che fin qui ha istruito l’asimmetrico rapporto tra potenze occidentali e paesi africani, la destra di governo italiana sembra voler divaricare ancora un po’ il suo sogno contro-egemonico. E così, dopo aver macinato indistintamente le saghe di Tolkien (tipico predatore seriale che ha attinto a piene mani dal Kalevala, l’opera magna dell’epica finnica) e l’epopea di Mattei, Marinetti, D’Annunzio, e persino Gramsci, ora minaccia di allungarsi fino a Thomas Sankara e alla sua rivoluzione rosso-verde. Se mai lo scopo fosse quello di stabilire rapporti paritari, di scommettere sulla sicurezza alimentare e sulle risorse umane, invece che fossili, dell’Africa.
Ma non è il caso di esagerare. Basterebbe cominciare in realtà con l’abbassare i saluti romani e dare una letta ai lavori dello storico Angelo Del Boca, per rinfrescare la memoria sulle
Leggi tutto: Piano Mattei, la memoria fossilizzata della nostra Africa - di Marco Boccitto
Commenta (0 Commenti)Sale a 109 il numero dei giornalisti uccisi dopo il 7 ottobre nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Il mestiere di informare equiparato a «terrorismo». Ieri la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’anno: 240 morti
OBIETTIVI DI GUERRA. La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa
Wael Dahdouh è direttore e corrispondente di Al Jazeera da Gaza. L’esercito israeliano gli aveva ucciso i figli di sette e quindici anni, sua moglie e altri otto parenti. Ieri l’ultimo figlio, il più grande, giornalista anche lui. Giravano in rete suoi video di quando aveva scoperto della strage della sua famiglia mentre copriva il servizio, mentre seppelliva il figlio: succede durante una guerra, se sei una persona esposta mediaticamente, che qualcuno riprenda le cose tue private, che tutti vedano il lutto che abitualmente è una stanza segreta, preclusa ai più.
Ma ieri è accaduta una cosa diversa, diversa dalle macerie, dai piccoli sudari a cui ci siamo abituati in questi tre mesi, dico abituati, ché non avremmo mai pensato di conoscere così bene l’aspetto di sepolture diverse dalle nostre.
E mentre ci eravamo abituati, dico abituati che non significa accettare, significa solo sapere cosa stiamo guardando, in qualche modo quindi controllare quanto e quale dolore prendere su di noi di questo genocidio, è successa una cosa diversa: che questo omone grosso e piegato dal lutto si è asciugato le lacrime, si è fatto fasciare la mano ferita, ed è tornato alla base – un miserrimo rifugio dove stanno gli altri colleghi, tutti gli inviati – per lavorare. Si vede questo ultimo video in cui arriva, un medico gli porge le sue condoglianze abbracciandolo, con uno dei sorrisi più comprensivi e dolci che io abbia mai veduto sul volto di un uomo, poi un tecnico gli dà
Leggi tutto: Il senso dei reporter per la vita - di Valeria Parrella
Commenta (0 Commenti)SCENARI. Non solo non si intravede mediazione possibile fra due parti in divergenza etica, filosofica ed “ontologica” ma il “divorzio nazionale”, caldeggiato da molti Maga (Make America Great Again), è per molti versi già consumato
Come a sottolineare il paradossale “giorno della marmotta” in cui sembra essere, da tre anni, intrappolato il paese, il fatidico anno elettorale del 2024 viene inaugurato da discorsi incrociati di Joe Biden e Donald Trump nell’anniversario del 6 gennaio.
Le presidenziali sono fatidiche perché prospettano il rematch che quasi nessuno vorrebbe rivedere. Lo scontro fra i due anziani contendenti che al di là delle problematiche anagrafiche, confermano quello che tutti sentono: gli Stati Uniti, superpotenza occidentale, “democrazia fondativa” e “faro di libertà”, non hanno elaborato la profonda crisi politica, istituzionale e, diremmo, antropologica, che tre anni fa l’ha portata sull’orlo del precipizio, e di un colpo di stato.
Tre anni orsono, il Congresso è stato preso d’assalto dalla folla Maga incitata dall’ex presidente, nel tentativo di deragliare l’insediamento del successore legittimamente eletto. Oggi nuovamente candidato, sopravvissuto a due impeachment, pluri-incriminato, ma semmai proprio per questo ancor più riverito dalla base, quello stesso mandante torna a puntare il suo lanciafiamme demagogico sulle norme e le convenzioni della democrazia costituzionale.
Non ha mai davvero smesso. Dal suo “esilio” di Mar A Lago ha continuato a declinare l’aggressivo vittimismo che caratterizza tante destre populiste nel mondo. Non ha mai rinnegato la Big Lie delle elezioni “rubate” e le istituzioni sono state incapaci di contenere il demagogo sovversivo con l’impeachment, strumento costituzionalmente preposto, ma sabotato dalla connivenza di un Gop radicalizzato. Ora Donald Trump grava sulla psiche del paese come il mefitico ed iracondo tiranno raffigurato nella sua foto segnaletica. Il tasso insidioso di violenza che ha introdotto nel dialogo e nella vita pubblica della nazione, quello che declina nei suoi comizi foschi e sgangherati, incombe come un’eversiva minaccia sulla campagna elettorale.
Ha un bel ripetere Biden, come ha nuovamente fatto nell’ultimo discorso, che non si può essere al contempo per la democrazia e per
Leggi tutto: Presidenziali 2024: è davvero in pericolo la democrazia americana? - di Luca Celada
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. L’Europa tace su pace e giustizia globale, come l’Onu impotente, tra l’enorme contraddizione fra l’universalismo dei principi e il particolarismo nazionale dei decisori politici
Una famiglia palestinese dopo un attacco israeliano a Khan Younis - foto Ansa
È veramente in agonia il diritto internazionale? È un petrarchismo da legulei o un astrazione da cattedratici sostenere che debbano esserci leggi universali e intangibili? Possiamo continuare a distogliere lo sguardo dalle gigantesche violazioni che ne stanno promuovendo gli Usa, la cosiddetta sola democrazia del Medio Oriente, e al loro seguito l’Unione europea, mentre sbandierano i valori dell’Occidente? L’agonia del diritto internazionale è un fatto che ognuno di noi dovrebbe esercitarsi a riconoscere fin nei dettagli minimi, come suggerisce Domenico Quirico (La Stampa 3 gennaio 2024). Perché chiamare «uccisioni» – come fanno i telegiornali – e non assassinii le cosiddette esecuzioni extra-giudiziarie che «accompagnano tutta la storia dello stato ebraico» (è ancora Quirico a ricordarcelo, sullo stesso giornale il giorno dopo), esultando per di più di questi «bestiali atavismi» con la Bibbia in mano, indipendentemente da che si tratti di terroristi conclamati, giornalisti, operatori sanitari, artisti, o altre vittime «collaterali»? Perché concedere onori da capo di stato a un assassino che ha fatto squartare un uomo (Jamal Khashoggi) e denunciarne un altro alla Corte Penale Internazionale, a seconda delle alleanze o delle guerre che sono in corso? Perché non chiamare genocidio quello in corso a Gaza, anche dopo che gli esperti hanno spiegato, se proprio occorreva, che ventiduemila morti la maggior parte civili e due milioni di «sfollati interni» bastano e avanzano a chiamarlo così?
Di fronte a quest’agonia, il silenzio dell’Unione europea è come la lama del coltello che senza
Commenta (0 Commenti)In tre ore di show Meloni bastona i suoi, sospende il pistolero Pozzolo, difende Salvini su Anas, rivendica l’occupazione della Rai, rifiuta le accuse di familismo, evoca ricatti, annuncia austerity e privatizzazioni
IN SCENA. La giovane leader «senza padroni e che non guarda in faccia a nessuno», allergica fino a ieri all’ipocrisia del politichese, ha dimostrato che per restare al centro della scena è pronta a imparare a menadito anche le regole più usurate del gioco
Si narra che Giorgia Meloni, ripresasi dal fastidioso malessere fisico che l’ha colpita sotto le feste, abbia trascorso gli ultimi giorni in una full immersion con i suoi collaboratori per arrivare il più preparata possibile alla conferenza stampa di fine anno, slittata all’inizio di quello nuovo non per sua volontà. E bisogna ammettere che, sebbene a causa di questo slittamento si siano aggiunte alla mole già imponente di argomenti sul tappeto altre spinosissime questioni come il caso Pozzolo e il richiamo di Mattarella sulle direttive Ue in tema di concorrenza, il risultato è stato piuttosto brillante.
È vero, l’esordio della premier è apparso un po’ zoppicante, si è lasciata subito andare alla sua irrefrenabile tentazione di attaccare a freddo l’opposizione (in particolare chi aveva dubitato dei suoi malanni) quando avrebbe potuto elegantemente sorvolare. Ma poi l’underdog dell’estrema destra cresciuta ai bordi di periferia (periferia politica), la giovane leader «senza padroni e che non guarda in faccia a nessuno», allergica fino a ieri all’ipocrisia del politichese, ha dimostrato che per restare al centro della scena è pronta a imparare a menadito anche le regole più usurate del gioco.
Ha risposto alla maggior parte delle domande con affermazioni tanto perentorie quanto vaghe (ad esempio sulla
Leggi tutto: I vestiti nuovi dell’imperatrice - di Micaela Bongi
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