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Il misterioso Piano Mattei resta tale anche nel giorno in cui arriva in aula come decreto d’urgenza. Molte promesse, pochi soldi, è l’idea antica di «sviluppo e prosperità» su cui punta il governo per soddisfare il nostro bisogno di energia e risolvere tutti i problemi dell’Africa

PIANO MATTEI. Italia a tutto gas e zero rinnovabili. L'unica urgenza di procedere con un decreto è il bisogno delle risorse energetiche africane

Piano Mattei, la memoria  fossilizzata  della nostra Africa Il presidente mozambicano Filipe Nyusi inaugura l'impianto gasiero di Coral - Zuma Press

Gas Pride. L’orgoglio italiano che Giorgia Meloni sprizza da tutti i pori ha trovato da qualche tempo un fulgido riferimento anche nella figura di Enrico Mattei, a cui è intitolato – copyright Eni – l’assai fumoso piano di cui ieri si è intravisto a malapena il solo contenitore. Un orgoglio vagamente spaccone, che sconfina appunto nella superbia e nella debordante autostima. «Sentimento unilaterale ed eccessivo – per restare alla prima definizione del dizionario – della propria personalità o casta».

Stando invece alla terminologia ricca di «valori etici» e «doveri morali» con cui viene infiocchettata la scatola ancora vuota del Piano Mattei, e volendo credere alla solenne promessa di rinunciare allo spirito «predatorio» che fin qui ha istruito l’asimmetrico rapporto tra potenze occidentali e paesi africani, la destra di governo italiana sembra voler divaricare ancora un po’ il suo sogno contro-egemonico. E così, dopo aver macinato indistintamente le saghe di Tolkien (tipico predatore seriale che ha attinto a piene mani dal Kalevala, l’opera magna dell’epica finnica) e l’epopea di Mattei, Marinetti, D’Annunzio, e persino Gramsci, ora minaccia di allungarsi fino a Thomas Sankara e alla sua rivoluzione rosso-verde. Se mai lo scopo fosse quello di stabilire rapporti paritari, di scommettere sulla sicurezza alimentare e sulle risorse umane, invece che fossili, dell’Africa.

Ma non è il caso di esagerare. Basterebbe cominciare in realtà con l’abbassare i saluti romani e dare una letta ai lavori dello storico Angelo Del Boca, per rinfrescare la memoria sulle

modalità criminali con cui Roma provò a rifarsi un impero soggiogando la “sua” Africa. Basterebbe una mostra, un convegno, una rassegna cinematografica aperta dal capolavoro di Haile Gerima, Adwa. Insomma altro da questo «decreto recante disposizioni urgenti» da cui dovrebbe poi dispiegarsi il Piano vero e proprio. Quanta “fretta”, se ne parla da mesi ma niente ancora. In swahili potrebbe dirsi pole-pole (piano-piano).

È chiaro che l’unica urgenza da soddisfare in questo caso è la sete di risorse, in primis di combustibili fossili, per garantire una serena sicurezza energetica al Paese e magari guadagnarci su qualcosina, creando il famoso hub per rivendere a terzi il gas pompato fin qui dall’Africa. In questa surriscaldata fase storica, è un po’ come fare scorte di zucchero filato in un mondo malato di diabete.

Nessuna progettualità all’orizzonte, né per una vera transizione ecologica né tantomeno per un nuovo approccio ai problemi del Continente africano. Nessuna visione di futuro, perché anche questo Piano Mattei risponde alla logica dell'”annuncismo”, specialità della casa. Mira a scaldare un po’ i cuori, un po’ i termosifoni, Ma solo per il prossimo inverno, poi si vedrà.

Anche a voler comprendere l’amor patrio fratellitaliano, si può rilevare come il nostro paese arrivi tardi, trafelata e scomposta, con una buona dose di insipienza strutturale sullo scenario mutevole e instabile del nuovo grande gioco africano. I rubinetti russi si sono chiusi per tutte le potenze occidentali. Anche sul fronte degli investimenti infrastrutturali ci sono paesi – dalla Cina alla Turchia – piazzati decisamente meglio. Mentre sul fronte strategico della sicurezza sono i russi a guadagnare terreno, dai paesi saheliani che passano progressivamente nell’orbita di Mosca al Centrafrica, già regno incontrastato di Prigozhin e ora ricondotto nel grembo della Grande Madre Russia.

Nell’imbarazzante pretesa di esibire una patente di verginità, il governo italiano fa squadra con Eni, che sul tema dello sfruttamento e della messa a reddito delle risorse africane, al pari o forse più delle altre grandi società petrolifere mondiali, vanta una qual certa dimestichezza. L’importante è scordarsi del passato, sia esso remoto e mai elaborato come quello coloniale, o più prossimo e inerente agli effetti devastanti che l’estrattivismo ha avuto sulla biodiversità e sulle popolazioni del Delta del Niger, un disastro sociale e ambientale di cui resta ancora qualche sentore nelle aule di tribunale. Inutile anche rammentare il recente esempio di Cabo Delgado (altra fonte cardine del Piano), che illustra drammaticamente come gli appetiti smodati sui giacimenti mozambicani abbiano creato solo conflitti e le migliori condizioni per campagne d’arruolamento jihadiste presso le popolazioni locali, che di tanta ricchezza non hanno visto neanche le briciole. O, ancora, non serve da lezione una presenza di lunga data come quella italiana in Libia, dove in questi giorni si susseguono le proteste di fronte al complesso gasiero di Melitah, gestito da Eni in joint venture con la compagnia di stato libica, con accuse di corruzione dilagante e la minaccia di interrompere il flusso di gas verso l’Italia.

È e sarà il minimo della pena, finché la «prosperità» che anche il Piano Descalzi-Meloni, come andrebbe chiamato, promette, continuerà a essere quella delle multinazionali, dei produttori di armi e delle oligarchie locali