Bombardamenti incessanti, case distrutte, di nuovo più di cento morti, anche neonati. Ordini di evacuazione, popolazione affamata. I media parlando di colloqui indiretti Hamas-Israele e di possibile svolta a breve. Ma avanza l’operazione Carri di Gedeone e la cruenta offensiva finale dell’Idf per occupare la Striscia comincia a scuotere l’indifferenza generale
Con fine Scade un nuovo ultimatum, Tel Aviv lancia bombardieri e tank su ciò che resta della Striscia. Il mondo si sdegna un pochino di più
Soldati e carri armati israeliani al confine con Gaza – foto Ap
«Giuro che li ho vestiti per portarli via di qui. Giuro che ho appena parlato con lui. Voglio solo che uno dei miei figli sia vivo. Almeno uno». Hussein Odeh è un campione palestinese di sollevamento pesi. Vive a Jabalia, nel nord di Gaza, insieme a sua moglie e ai suoi figli di tre, cinque e nove anni. Nei primi mesi della guerra, un attacco israeliano ha ucciso sua figlia, sua madre e le sue sorelle. L’esercito ha dato ordine di evacuare, così Hussein ha preparato i suoi bambini ed è uscito per cercare un passaggio, qualcuno che potesse accompagnarli a Gaza City. Quando è tornato, la casa non esisteva più. Un bombardamento israeliano ha distrutto tre abitazioni in pochi secondi. È iniziata, anche formalmente, l’operazione «Carri di Gedeone». L’occupazione di Gaza.
«LO GIURO, li stavo portando via, la macchina stava arrivando» continua a ripetere Hussein in piedi sopra le macerie. Sentiva la voce di uno dei suoi bambini, ha provato a parlare con lui in attesa che qualcuno arrivasse ad aiutarli ma suo figlio non gli ha più risposto. La protezione civile non ha strumenti per spostare i detriti pesanti, Israele non permette l’ingresso di mezzi e materiali di soccorso. Usano palette di plastica per scavare e spranghe per fare leva. Nonostante ciò, sono riusciti a recuperare diverse persone ancora vive sotto le macerie. A ogni flebile segno di vita tra i macigni, la speranza dei familiari si risolve in urla di gioia e pianto. I soccorritori si infilano sotto i solai, allungano le braccia più che possono, martellano le pietre per raggiungere i sopravvissuti. Un lavoro eroico e instancabile, pericoloso e senza fine.
LE AMBULANZE sono state riempite di decine di corpi ieri a Gaza City, nel centro della Striscia, quando un attacco nei pressi della Torre Al-Zahra ha ucciso diversi civili che si trovavano in strada. Tra le vittime, donne e ragazzini. A Shujaiya i corpi straziati di due giovani sono stati ritrovati accanto ai sacchi di farina che erano riusciti a rimediare. Sempre nel centro, un neonato di 15 mesi è morto nel raid che ha colpito la sua casa, mentre a Deir el-Balah gli israeliani hanno ucciso una famiglia di nove persone. Tra loro Siwar di quattro anni, Muhammad di tre anni, Husaid di una settimana. 150 palestinesi ammazzati in 24 ore.
Centinaia di vittime in pochi giorni, sofferenze immani, bombe e fame su una popolazione indifesa e disarmata. Ma a parte qualche
Leggi tutto: “Carri di Gedeone”, Netanyahu lancia la conquista di Gaza - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Il vertice di Istanbul tra ucraini e russi dura meno di due ore e poi tutti a casa. Mosca vuole tenersi le regioni occupate, per Kiev le richieste sono «irricevibili» ma non fa saltare il tavolo. Trump vuole vedere Putin, gli europei non esasperano i toni. A Tirana scontro Meloni-Macron
Crisi Ucraina Gli europei accusano Putin di non volere la pace, ma con toni meno aspri di quanto ci si aspettava
Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy arriva a Tirana – AP
Due ore per dirsi arrivederci. È questo il risultato principale dei tanto attesi colloqui tra Russia e Ucraina di ieri. In una sala del palazzo di Dolmabahce a Istanbul le delegazioni dei due paesi in guerra si sono incontrate per la prima volta dalla primavera del 2022, quando il primo tentativo di porre fine al conflitto scatenato dall’invasione russa fallì. Sono trascorsi tre anni da allora, tre anni di minacce, insulti, accuse e risentimento che la foto ufficiale del summit incarna teatralmente. Un grosso tavolo a ferro di cavallo con a sinistra gli ucraini, molti in divisa militare, a destra i russi, classico smoking, e al centro i turchi, mediatori e padroni di casa.
IL SEMPLICE FATTO che gli ucraini non abbiano lasciato la riunione quando la controparte gli ha presentato la proposta di cedere interamente le 4 regioni occupate dall’inizio della guerra più la Crimea è una piccola buona notizia. «Irricevibile» e quindi non in agenda. «Tregua subito» ha risposto il capo della squadra di Kiev, il ministro della Difesa Rustem Umerov. Per i russi non se ne parla (neanche di questo). E allora che si fissi almeno un incontro tra i due presidenti, ha insistito la parte ucraina. «Ne prendiamo atto» ha tagliato corto il capo-delegazione russo Vladimir Medinsky. L’unica azione sulla quale i delegati si sono accordati è uno scambio di mille prigionieri di guerra per parte. A chi lo definisce un primo gesto di mutuo avvicinamento bisognerebbe ricordare che tra le dichiarazioni di intenti della vigilia si era già parlato di questa possibilità, ma che doveva trattarsi di uno «scambio totale». Poche e asciutte le dichiarazioni post-vertice, Medinsky si è dichiarato «soddisfatto e pronto a continuare i contatti con l’Ucraina», Umerov ha ribadito la richiesta di «un incontro a livello di leader, questo sarebbe il nostro prossimo passo». Assenti dalla riunione gli Stati uniti, che pure avevano incontrato entrambe le delegazioni separatamente nelle ore precedenti.
«C’è solo un motivo per cui i russi dovrebbero aver paura di avere gli Stati uniti nella stanza: sono venuti per rallentare il processo, non per risolvere i problemi, e vogliono nasconderglielo» accusano fonti diplomatiche ucraine. Ma Donald Trump non ha voluto mostrarsi scottato dall’ennesima figuraccia diplomatica, anzi ha dichiarato un laconico «vediamo cosa succede» prima di aggiungere che «potrebbe» chiamare Vladimir Putin per
Leggi tutto: Vertice fantasma, Mosca vuole tenersi tutto. Kiev: «Irricevibile» - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)Più di cento morti solo ieri per i raid israeliani nella Striscia di Gaza. Famiglie intere vittime di uno sterminio pianificato, giornalisti silenziati per sempre. Persino il segretario di Stato Usa Rubio si dice preoccupato. Ma Trump rilancia l’idea Riviera: «Diventerà zona di libertà»
Striscia di Gaza Tel Aviv prosegue nei suoi agghiaccianti piani di pulizia etnica. Colpita la clinica di al-Tawba, nel campo profughi di Jabalia
Le macerie prodotte dai raid aerei israeliani a Khan Younis, nella Striscia di Gaza – AP
Israele si sta abbattendo su Gaza con una violenza che non lascia scampo, seminando morte e dolore, in un bagno di sangue che non basterà il tempo ad asciugare. Più di cento morti ieri. Sessanta solo a Khan Younis, dove intere famiglie sono state massacrate. I volti dei bambini, rossi di sangue e bianchi di morte, penzolavano insieme agli arti esanimi dalle braccia dei genitori. Il piccolo Ibrahim Al-Banna è stato ucciso nell’area di al-Qarara, da un bombardamento che ha colpito la sua casa. Solo la sera prima piangeva, inconsolabile, ai funerali di suo zio. Sempre a Khan Younis un raid aereo ha ammazzato il giornalista Hassan Samour, conduttore radiofonico di Al-Aqsa Voice Radio, morto insieme a undici membri della sua famiglia. Un altro reporter, Ahmed al-Helou, tecnico video per Quds News Network, è stato ucciso insieme a suo fratello.
ANCHE IL NORD di Gaza non conosce tregua. Le bombe d’Israele hanno colpito la clinica di al-Tawba, nel campo profughi di Jabalia, causando un terribile massacro di civili. L’edificio è stato sventrato. I sopravvissuti hanno raccontato ai giornalisti che un ente di beneficenza stava distribuendo beni di prima necessità quando gli aerei hanno colpito senza alcun preavviso, uccidendo almeno quindici persone, undici erano donne e bambini. Ieri l’esercito ha confermato che altre tri tre palestinesi arrestati a Gaza sono morti mentre si trovavano in custodia nelle carceri israeliane. Abdel Hadi Qdeih, di 56 anni, è stato catturato nell’ottobre del 2023 ed è morto in prigione cinque giorni dopo. Bilal Talal Salameh, 24enne morto nel 2024. Mohammad Ismail Al-Astal, di 46 anni, fermato a febbraio di quest’anno e registrato cadavere il 2 maggio. Sono 69 i prigionieri palestinesi morti nelle prigioni israeliane dall’ottobre 2023.
A causa dei ripetuti attacchi dei giorni scorsi, l’Ospedale europeo ha cessato le sue attività. Dopo la distruzione dell’ospedale dell’amicizia turco-palestinese, quello europeo era rimasto l’unico a Gaza capace di fornire trattamenti per i pazienti malati di cancro.
LE IMMAGINI SATELLITARI fornite da Planet Labs Pbc mostrano l’avanzamento nella costruzione delle strutture da cui l’esercito controllerà l’ingresso e la distribuzione degli aiuti umanitari. Nonostante le Nazioni unite si siano esplicitamente opposte al piano israeliano, chiarendo che causerà nuove e peggiori sofferenze alla popolazione, Tel Aviv prosegue nei suoi agghiaccianti piani di pulizia etnica, totalmente sorda agli
Leggi tutto: Massacro a Gaza, più di cento morti in un solo giorno - di Eliana Riva
Commenta (0 Commenti)Si spara nel «cortile di casa» italiano. A Tripoli le bande rivali si contendono i soldi che Roma e Bruxelles investono per tenere lontani i migranti.
Il generale Haftar muove i suoi cannoni dalla Cirenaica. Il governo difende il memorandum con la Libia ma pensa di rimpatriare i connazionali
Libia Oggi, proprio come ieri, è anche a Bengasi che bisogna guardare per comprendere la Libia contemporanea
Veicoli blindati libici pattugliano la zona dopo gli scontri tra milizie pesantemente armate a Tripoli, Libia, mercoledì 14 maggio 2025 – AP
«Erano anni che a Tripoli non si sparava così».
È con queste poche parole che, al telefono con il manifesto, Samir descrive il sollievo provato ieri dopo l’annuncio del governo di Tripoli del cessate il fuoco. Gli scontri più duri sono esplosi nella tarda serata di lunedì, dopo la morte di Abdel Ghani al-Kikli, detto Gheniwa, capo di una milizia di Tripoli nata come scorta armata per i funzionari del governo riconosciuto dall’Onu, poi divenuta un potentissimo gruppo armato che faceva il bello e il cattivo tempo nel quartiere di Abu Salim. Un potere mafioso, e pesantemente armato, che – come ogni potere mafioso – combatte fino alla morte per il controllo del territorio e dei traffici che vi si svolgono.
Martedì mattina, il governo di Tripoli aveva annunciato il completamento dell’operazione militare contro le milizie ad Abu Salim, senza fornire molti dettagli. Ma la situazione è ulteriormente degenerata, e gli scontri a fuoco si sono moltiplicati in tutta la capitale. Quando si crea un vuoto così grande, è fisiologico che qualcuno cerchi di occuparlo il prima possibile.
Tuttavia, i brividi di paura che corrono lungo la schiena dei cittadini di Tripoli sono antichi. Sono settimane che nella capitale libica si spara, con quartieri interi trasformati in campi di battaglia contesi tra bande e forze armate, tutte ben addestrate e pronte a tutto pur di mantenere controllo e potere. Dahra, Saraj, e la già citata Abu Salim. Un luogo dove tutto, a Tripoli, sembra voler tornare: è infatti nel carcere di Abu Salim che nasce l’odio popolare contro Gheddafi, dopo la mattanza di detenuti ordinata nel 1996. I video, i documenti e le testimonianze di quella carneficina, venuti fuori nel 2010, portarono alle prime manifestazioni contro il regime, ma nella città di Bengasi, in Cirenaica.
E oggi, proprio come ieri, è anche a Bengasi che bisogna guardare per comprendere la Libia contemporanea: mentre in Tripolitania esplodeva una nuova violenza, il generale Haftar – che ha in pugno la Cirenaica – rientrava da un lungo e fruttuoso viaggio a Mosca e Minsk. In Russia, tre giorni prima dell’escalation di Tripoli, Haftar ha incontrato Vladimir Putin, il ministro della Difesa Andrej Belusov e, per entrare in questioni più operative, il segretario del Consiglio di sicurezza russo Sergei Shoigu: i pezzi più importanti dello scacchiere militare del Cremlino. Ieri, le forze dell’Esercito nazionale libico, comandate da Haftar, hanno dichiarato la prontezza al combattimento e si sono mobilitate verso Ash-Shuwayrif, 400 chilometri a sud di Tripoli, dove coabitano con i militari russi dell’Africa Corps.
E così, mentre Tripoli ragionava sull’accettare o meno le lusinghe americane per “accogliere” i migranti dagli Stati Uniti – perché sembra proprio che la cultura politica dell’attuale governo tripolitano non riesca a non considerare le persone migranti come punti di Pil – Bengasi lucidava i cannoni per provare a cavalcare la crisi.
Una crisi in cui gli attori sono
Commenta (0 Commenti)Innanzitutto gli affari, suoi e dei miliardari che lo accompagnano. Ma in Arabia Saudita Trump si dedica anche al futuro del Medio oriente. Rilancia il patto di Abramo e annuncia una tregua che non c’è a Gaza. È la dollaro-diplomazia
Big Mecca A gonfie vele il primo giorno del presidente Usa in Arabia saudita, domani tocca al Qatar. Israele osserva, sempre più inquieto
Foto di gruppo ieri per la visita di Donald Trump a Riyadh – AP /Alex Brandon
Donald Trump ha alzato il pugno in aria mentre scendeva dall’Air Force One, atteso da Mohammed bin Salman (MbS), suo giovane partner di buoni affari. E aveva buoni motivi per essere raggiante. Giunto ieri a Riyadh come un lupo affamato, il presidente ha ottenuto da principe saudita un impegno da 600 miliardi di dollari per investimenti negli Usa.
UNA SOMMA enorme che include quello che gli americani descrivono come il più grande accordo di vendita di armi tra alleati, per un valore di quasi 142 miliardi di dollari. Il mese scorso gli Stati uniti si erano detti pronti a offrire a Riyadh un pacchetto di armi del valore di 100 miliardi. MbS è andato ben oltre, coprendo buona parte del desiderio della Casa bianca di ottenere investimenti per «mille miliardi di dollari» negli Usa durante la sua missione nel Golfo, la prima all’estero del suo secondo mandato. «Credo che ci piacciamo molto», ha detto Trump incontrando il fedele alleato e sovrano di fatto dell’Arabia saudita.
Oggi Trump sarà al vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo, primo presidente Usa a farlo. Tra i temi sul tavolo: la sicurezza regionale, il nucleare iraniano e lo Yemen.
La missione proseguirà domani nel piccolo ma potente Qatar, attore chiave della diplomazia e delle finanze mediorientali. Si parla di intese tra i 200 e i 300 miliardi di dollari. Con l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani – che insiste per donargli un lussuoso Boeing 747 – Trump discuterà della crisi di Gaza, dando il via alla parte più politica del suo viaggio nel Golfo. Poi andrà ad Abu Dhabi, dove sarà ricevuto da Mohammed bin Zayed.
Il governo Netanyahu ha seguito ogni passo del presidente Usa. Il premier israeliano, che fatica a tenere agganciato Trump alle sue prossime operazioni militari a Gaza – ieri Netanyahu ha confermato l’imminenza dell’offensiva «Carri di Gedeone» – e al rifiuto di una tregua permanente con Hamas, a svantaggio anche degli ostaggi israeliani, fatica a digerire la decisione della Casa bianca di non includere nel tour mediorientale lo Stato ebraico. Tel Aviv è preoccupata per ciò che Trump potrebbe proporre mentre re e principi arabi lo ricoprono di dollari.
SI PARLA da giorni di una dichiarazione «importante» del presidente Usa a proposito di Gaza e della Palestina. È assai improbabile che riconosca il diritto dei palestinesi all’indipendenza nella loro terra, alla luce anche della sua proposta di espellere i palestinesi da Gaza. Eppure, l’entourage di Netanyahu non ha nascosto il timore che «l’imprevedibilità» di Trump possa produrre proposte e soluzioni non in linea con quelle di Israele.
Il tycoon ieri ha cercato di tranquillizzare Netanyahu proclamando che
Commenta (0 Commenti)«Il Pkk ha compiuto la sua missione storica»: dopo quarant’anni il Partito dei Lavoratori del Kurdistan annuncia lo scioglimento e la fine della lotta armata. In un mondo in guerra, Ocalan parla di pace. Ora la palla passa alla Turchia: «Si impegni per una soluzione democratica»
Kurdi Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan si scioglie e abbassa le armi. Una decisione epocale, su spinta del leader Ocalan. «Ora liberatelo»
Un gruppo di combattenti del Pkk nelle montagne nord-irachene – Ap
«Il Pkk ha compiuto la sua missione storica». Con queste parole, e con una dichiarazione che ha il peso di una cesura epocale, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha annunciato ieri lo scioglimento della sua struttura organizzativa e la fine della lotta armata. Dopo quarant’anni di conflitto con lo Stato turco, il partito fondato da Abdullah Öcalan chiude un ciclo e apre un nuovo fronte esclusivamente politico, civile, democratico.
IL 12° CONGRESSO – l’ultimo nella storia del Pkk – ha riunito 232 delegati «in condizioni di sicurezza nonostante le difficili circostanze, tra cui incessanti attacchi aerei e terrestri, l’accerchiamento delle nostre aree e un embargo continuo da parte del Partito Democratico del Kurdistan (Kdp)», si legge nel comunicato conclusivo del congresso. Tra loro, in prima fila, Cemil Bayik e Duran Kalkan, unici presenti ad aver partecipato al congresso di fondazione del partito, avvenuto il 27 novembre 1978 nel villaggio di Fis. In apertura dei lavori è stata annunciata la morte di due storiche figure del movimento, Ali Haydar Kaytan – anche lui tra i ventidue fondatori – e Rıza Altun, alle quali il congresso è stato dedicato.
IL PKK È STATO una delle espressioni più durature della lotta armata in Medio Oriente. Come quasi tutti i movimenti armati del suo tempo, la sua storia militare inizia nella valle della Bekaa, nel sud del Libano, dove il partito aveva trovato rifugio dopo il sanguinoso colpo di Stato militare del settembre 1980 in Turchia. Quando Israele lanciò la sua invasione su larga scala del Libano nel 1982, ai combattenti del Pkk fu assegnato dal quotidiano Serxwebun il titolo di «eroi del Castello di Beaufort», un forte risalente ai tempi delle Crociate, situato a meno di cinque chilometri dal confine israeliano, in cui i militanti curdi opposero una feroce e disperata resistenza. Due anni dopo, il 15 agosto 1984, l’esperienza maturata nella Bekaa venne messa in pratica nella prima azione armata del Pkk contro lo Stato turco, che diede inizio al conflitto terminato, almeno in teoria, con il 12° congresso.
Per oltre un decennio il Pkk ha sfidato lo Stato turco con l’obiettivo di gettare le basi per la fondazione di un Kurdistan socialista, sopravvivendo alla caduta del Muro di Berlino e allo sfaldamento del blocco socialista. Nel 1993, durante la fase più cruenta del conflitto, Öcalan lanciò la prima proposta di pace, accettata dall’allora presidente turco Turgut Özal, seguita da un cessate il fuoco unilaterale e incondizionato del Pkk. La morte di Özal, tuttavia, determinò la fine del primo, fragile tentativo di giungere a una soluzione politica per la questione curda.
DOPO LA CATTURA di Öcalan, avvenuta nel 1999 nel contesto di un viaggio alla ricerca di un paese europeo disposto a supportare un nuovo processo di pace, il movimento visse un periodo di ristrutturazione interna che portò, da un lato, all’abbandono di figure chiave del partito, tra cui il fratello minore di Abdullah Öcalan, Osman e, dall’altro, al «cambio di paradigma»: il passaggio da partito-guerriglia dedito alla fondazione di uno Stato socialista curdo a organizzazione decentrata, focalizzata sulla democratizzazione della regione secondo il paradigma del Confederalismo democratico, ideato in carcere proprio da Abdullah Öcalan. Un’ulteriore svolta arrivò nel 2013, quando un appello di Öcalan, non
Leggi tutto: «Il Pkk ha compiuto la sua missione»: fine della lotta armata - di Tiziano Saccucci
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