Alle 22 ora italiana, nel Giardino delle Rose alla Casa Bianca, Donald Trump dichiarerà oggi la guerra mondiale dei dazi. Il grande obiettivo è l’Europa. Von der Leyen: «Pronti a reagire». Ma tra i singoli paesi cresce la tentazione di trattare da soli. È ciò che Trump vuole
Conti separati Il piano di contromisure di von der Leyen mira a dove fa più male ma pezzi di singoli paesi pensano a sè. E Londra va avanti da sola. Per l’Europa è il giorno della paura. Il sondaggio di YouGov: la maggioranza vuole i controdazi
Operai di un'acciaieria italiana – Getty Images
Davanti ai dazi di Trump, che ha provato in tutti i modi a scongiurare, l’Europa ha paura. Ma se lo scenario tanto temuto si verifica, come tutto lascia pensare, non mettere in campo misure per colpire l’economia Usa diventa impossibile. L’Europa non vuole farlo ma deve. Soprattutto perché, data la sua forza economica, è in grado di fare male a Washington. Altra cosa è se vuole, perché questo riguarda le decisioni politiche, su cui i governi del Vecchio continente parlano con più voci o rischiamo di dividersi di fronte alle tentazioni trumpiane di trattamenti diversificati.
PRIMA A PARLARE, la Commissione europea si dice pronta a rispondere alle misure che The Donald annuncerà stasera. A quanto si apprende da ambienti Ue, la replica europea non è ancora decisa nei dettagli, ma sarà modulata a seconda delle tariffe speciali che Donald Trump imporrà a cinque settori in particolare, tra cui quello dell’automotive, dei semiconduttori e dei prodotti farmaceutici: tutti ambiti strategici per l’economia europea. Sulla base dell’intensità del colpo inferto dagli Usa a Bruxelles, l’Ue si prepara a colpire a sua volta settori dell’economia Usa in modo mirato, anche scegliendo i prodotti che arrivano dalle aree degli Usa in cui il sostegno elettorale al leader repubblicano è stato più forte.
UNA LISTA DI BASE delle contromisure, uscita dalla consultazione con le realtà produttive europee, l’esecutivo Ue ce l’ha già nel cassetto. Si va dalla carne bovina al pollame, fino alla soia e al legname, alle Harley-Davidson e al whiskey. Negli ambienti della Commissione si è sperato fino all’ultimo nella possibilità di un accordo, che però sembra essere sfumato, a meno di improbabili sorprese dell’ultimo minuto. Rimane aperta l’ipotesi di sanzioni che possono fare ancora più male, come quelle contro le Big Tech e la finanza, entrambi fiori all’occhiello dell’economia Usa. Si parte da una considerazione: se l’Ue ha un surplus sui beni verso gli Usa, questi ultimi ne hanno un riguardo ai servizi digitali. Bruxelles poterebbe così decidere di prendere di mira aziende dome Meta, Google, Amazon o X, così come istituti finanziari del calibro di JP Morgan o Bank of America. «Questi giganti pagano poco alla nostra infrastruttura digitale, da cui però traggono molto vantaggio», ha sottolineato il leader Ppe Manfred Weber.
Questo scontro non l’abbiamo iniziato noi e non vogliamo necessariamente reagire. Però abbiamo un piano forte, se serve Ursula von der Leyen
«Saremo in una posizione di forza, perché l’Europa ha molte carte in mano: il commercio, la tecnologia, le dimensioni del nostro mercato», ha argomentato ieri la presidente della Commissione Ursula von der Leyen parlando davanti agli eurodeputati riuniti a Strasburgo per la sessione plenaria dell’Eurocamera. «Questo scontro non l’abbiamo iniziato noi e non vogliamo necessariamente reagire. Però abbiamo un piano forte, se serve», ha aggiunto Ursula. Oltre al braccio di ferro con Washington, nel delineare la strategia europea, la presidente della Commissione ha elencato anche la via d’uscita degli
Commenta (0 Commenti)Inseguito da un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza, Netanyahu è atteso domani a Budapest. Il diritto è carta straccia per Orbán ma non solo: anche per Roma, Parigi e Berlino, Bibi può stare tranquillo
Israele/Europa Il premier ungherese ignora il mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale. I media filo-governo occultano la notizia, i paesi europei non parlano. Il leader di Fidesz sfida il diritto internazionale in nome di una radicata alleanza e dei suoi interessi
Il premier ungherese Orbán e l’israeliano Netanyahu a Gerusalemme nel 2019 – Ap/Ariel Schalit
Benjamin Netanyahu sarà a Budapest dal 2 al 6 aprile, ospite di Viktor Orbán. La presenza del primo ministro israeliano in Ungheria a partire dalla serata di domani, mercoledì 2 aprile, è stata confermata da fonti interne di Tel Aviv domenica sera. Non sarà una semplice visita di cortesia, ma un gesto di sfida congiunto del governo ungherese e di quello israeliano al diritto internazionale e alle istituzioni europee.
SU NETANYAHU pende infatti un mandato di cattura. Lo ha emesso il 21 novembre scorso la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, confermando le accuse di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza «dall’8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024» rivolte al premier israeliano. Tale pronunciamento rende Netanyahu latitante punibile con l’arresto nei 123 Stati che aderiscono allo Statuto di Roma.
Fra questi non ci sono Israele, Russia e Stati uniti, ma è presente l’Ungheria, che ratificò lo Statuto nel 2001, durante il primo mandato di Orbán al governo, e quindi dovrebbe attenervisi. Come assicurato a novembre dall’Alto rappresentante europeo per gli Affari esteri, Josep Borrell, il parere della Cpi «è vincolante per tutti gli Stati che fanno parte della Corte, che comprende tutti i membri dell’Ue, vincolati ad attuarla».
Parole a cui ha fatto eco ieri un portavoce della Cpi: «La corte si affida ai singoli Stati per fare rispettare le proprie decisioni. Non è soltanto un obbligo legale nei confronti della Corte stessa, come stipulato dallo Statuto di Roma, ma anche una
Leggi tutto: Orbán calpesta l’Aja: Netanyahu ospite d’onore a Budapest - di Lorenzo Berardi
Commenta (0 Commenti)Il caso Gli interessi del complesso militare-industriale nel piano di riarmo europeo, il pressing della Ue sul governo, il caos agito dalla Lega, la trappola del debito
La presidente della Commissione von der Leyen con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni
La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen considera il piano di riarmo europeo come «una grande opportunità per l’industria italiana». S’intende quella bellica collegata al giro di affari crescente dell’«aerospazio come Leonardo e imprese navali come Fincantieri». Insieme ai loro indotti, queste imprese da sole costituiranno «un vantaggio dell’economia e della società italiane, ma anche delle infrastrutture al servizio elle persone, come gli ospedali». Non ha specificato, von der Leyen, se saranno quelli organizzati sui campi di battaglia che l’Unione Europea immagina da qui a quattro anni, entro i quali intende spendere gli «800 miliardi di euro» previsti dal piano di riarmo incautamente ribattezzato con l’eufemistico titolo di «Prontezza 2030». Un piano ben lungi dall’essere approvato, avendo sollevato opposizioni per motivi diversi e confliggenti da parte di quasi tutti i paesi membri dell’Ue, tranne la Germania che ha una disponibilità di bilancio e un’agenda politico-economica. E detta i tempi agli altri paesi.
Il disegno di von der Leyen, confermato ieri da un’intervista al Corriere della Sera, è quello di rafforzare, e finanziare, le joint venture già esistenti tra Leonardo e la tedesca Rheinmetall. Così arriveranno in Italia anche gli investimenti stabiliti in base alla riforma costituzionale approvata da un blitz prima che a Berlino si sia formato il nuovo parlamento. Dal complesso militare-industriale che sarà premiato dal non scontato progetto di riarmo dovrebbe infine sgocciolare una crescita economica, invero tutta da dimostrare, per abbreviare le liste di attesa negli ospedali o assumere medici e infermieri. Forse con le donazioni concesse dal buon cuore dei costruttori di cannoni.
Nella patetica costruzione del consenso per la guerra, che continuerà a crescere sui media, ciò che non si dice è che l’Europa delle armi non ha rinunciato al contenimento della spesa sociale imposto dal suo «patto di stabilità e crescita». Tutto il Welfare, senza contare i salari, il lavoro, le istituzioni locali e le relazioni sociali continueranno a non ricevere investimenti che resteranno
Leggi tutto: Economia - Meloni ha un problema: si chiama von der Leyen - di Roberto Ciccarelli
Commenta (0 Commenti)A Istanbul, quella di ieri è stata una delle manifestazioni più grandi nella storia della Repubblica di Turchia. Secondo la principale forza di opposizione turca, il Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, Chp), in piazza Maltepe c’erano più di due milioni di persone. La manifestazione, organizzata in solidarietà con il sindaco della città, Ekrem Imamoglu, detenuto dal 19 marzo, è stata soprattutto un’occasione per protestare contro il governo centrale.
«QUELLO CHE HANNO FATTO a Imamoglu e ai suoi colleghi è un golpe. Siamo qui per difendere la nostra democrazia con coraggio» sono le parole di Özgür Özel, il leader del Chp, che ha parlato dal palco davanti a centinaia di migliaia di persone. Il suo discorso, durato quasi un’ora, è stato spesso interrotto da questa massa oceanica con lo slogan «Tayyip dimissioni», rivolto direttamente al presidente della Repubblica, Tayyip Recep Erdogan.
Nel suo lungo discorso, Özel ha usato un linguaggio inclusivo e ha promesso che la lotta non si fermerà finché non ci saranno elezioni anticipate: «Da domani invito tutti a sostenere la nostra campagna per andare al voto. Siamo pronti a governare insieme a tutti: curdi, turchi, sunniti o aleviti. Costruiremo un futuro migliore. Non abbiamo paura perché le persone coraggiose come voi muoiono una volta, mentre i codardi come Erdogan muoiono ogni giorno».
Non abbiamo paura perché le persone coraggiose come voi muoiono una volta, mentre i codardi come Erdogan muoiono ogni giornoÖzgür Özel
PER CHI ERA A MALTEPE IERI, c’è stata anche una sorpresa: un video messaggio del sindaco Ekrem Imamoglu, prodotto con l’intelligenza artificiale, che invitava le persone a continuare a resistere e lottare.
Il leader del Chp, Özel, ha sottolineato di nuovo l’importanza della campagna di boicottaggio lanciata qualche giorno fa dal suo partito, un’iniziativa che prende di mira una serie di aziende direttamente collegate alla
Leggi tutto: «Siamo due milioni». La piazza di Istanbul avvisa Erdogan - di Murat Cinar
Commenta (0 Commenti)Il governo fa un ennesimo decreto contro i migranti. In Albania, dove i campi sono rimasti vuoti, potranno essere trasferiti anche gli «irregolari» dall’Italia. Calpestati i diritti ma non funzionerà neanche stavolta
Giro di vite Con il nuovo decreto possibili i trasferimenti degli «irregolari» dal territorio nazionale. Ma l’esecutivo non chiarisce come avverranno. «In parlamento il governo ha detto che nei centri c’è la nostra giurisdizione ma non è territorio italiano. La modifica è fuori dalla direttiva rimpatri», afferma Riccardo Magi (+Europa)
L’arrivo nel gennaio scorso di 49 migranti al porto di Shengjin, Albania, dopo essere stati intercettati in mare dalla guardia costiera italiana – Armando Babani /Zuma via Ansa
I centri in Albania non sono territorio italiano, anzi sì. Ci mandiamo i richiedenti asilo per scoraggiare nuove traversate, anzi no. Se non basta il protocollo facciamo una legge di ratifica. Se i giudici non ci danno ragione trasferiamo la competenza. E ieri la giostra dell’accordo Roma-Tirana ha fatto un altro giro. Un ennesimo decreto per trasformare le strutture di Shengjin e Gjader nella Guantanamo italiana. Giusto due settimane dopo che la Guantanamo vera è stata svuotata da Trump: costava troppo ed era inutile. Proprio come la nostra. Evidentemente per Giorgia Meloni una photo opportunity con i centri albanesi finalmente pieni val bene l’ennesimo spreco di risorse e la costruzione di un meccanismo di trasferimenti andata/ritorno ancora più farraginoso e crudele del precedente.
Il decreto varato ieri modifica in due punti la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per spedire oltre Adriatico gli stranieri «irregolari» dal territorio nazionale. Nel primo elimina l’avverbio «esclusivamente» dal comma che diceva «nelle aree del Protocollo possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale». Nel secondo stabilisce che il trasferimento non fa venire meno il titolo di trattenimento, non produce effetti sulla procedura, né richiede una nuova convalida del giudice (quello competente sugli «irregolari» è il giudice di pace).
SI TRATTA DI UN TOTALE stravolgimento degli obiettivi iniziali con cui era stato pensato il progetto Albania. Fino a ieri in quei centri dovevano andare i richiedenti asilo provenienti dai «paesi sicuri» secondo una finzione giuridica che li considerava non ancora entrati nel territorio nazionale e dunque sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Per il governo questo meccanismo avrebbe avuto un effetto dissuasivo sulle traversate scoraggiando chi rischiava di finire a Gjader invece che in Italia. Sorprendentemente durante la conferenza stampa di ieri il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha detto: «Quando salgono sulla nave italiana usata per il trasferimento entrano in territorio nazionale». Innegabile, se non fosse che fino a giovedì l’esecutivo aveva sostenuto il contrario.
In attesa del verdetto della Corte di giustizia Ue sui «paesi sicuri», da cui la maggioranza spera di avere il via libera per trattenere in Albania i richiedenti asilo, le modifiche permetteranno di trasferire oltre Adriatico anche gli «irregolari». Ovvero i destinatari di provvedimenti di espulsione, già rinchiusi o da rinchiudere in un Cpr italiano. Come questo avverrà resta da capire. Teoricamente dovrebbero essere portati con una nave italiana che fa scalo a Shengjin, mentre sembra più complicata l’ipotesi di voli su Tirana e conseguente trasferimento via terra. Ma a questo punto è lecito aspettarsi qualsiasi cosa. In ogni caso, ha detto Piantedosi, si tratterebbe al massimo di 140 persone, la capienza del Cpr di Gjader adiacente ma distinto dalla struttura di trattenimento per i richiedenti. Queste persone sarebbero sottoposte a una disciplina diversa dalle procedure accelerate di frontiera che prevedono il trattenimento per massimo un mese: potrebbero restare «parcheggiate» in Albania fino a un anno e mezzo. Poi riportate in Italia e da lì rimpatriate, ammesso ci siano accordi con i paesi di origine. L’illogicità di tutto il meccanismo è evidente: se la deportazione è
Leggi tutto: Albania, il governo ci riprova: Gjader come Guantanamo - di Giansandro Merli
Commenta (0 Commenti)Isolata in Europa sulla guerra in Ucraina, silenziosa sui dazi americani che sono un guaio per l’Unione e un guaio doppio per l’Italia. Panico tra i produttori nazionali, ma Meloni scommette ancora su un rapporto speciale con Trump. Che però è smentito dai fatti
Il nemico americano L’attacco a Cina ed Europa colpisce anche i produttori locali attraverso la componentistica e le delocalizzazioni in Messico. La Casa bianca minaccia di tassare su «grande scala» l’Ue se farà asse con il Canada «contro la nostra economia»
Stoccarda, container nel porto – Ap
La sola certezza è che cresce l’incertezza economica in tutto il mondo, con il rischio di conseguenze gravi per l’occupazione e il benessere delle società. L’ultimo attacco al multilateralismo da parte di Donald Trump è l’annuncio di una sovrattassa alle frontiere del 25% per “tutte” le importazioni di auto, veicoli, camion non fabbricati negli Usa «in vigore dal 2 aprile, cominciamo a incassare il 3» poi, nel giro al massimo di un mese, i dazi verranno imposti anche a tutta la componentistica auto. Un 25% che si aggiunge ai dazi già esistenti, per l’export Ue si va al 27,5%, mentre «se costruite la vostra auto negli Usa, non ci sono dazi». E il 2 aprile è anche «il giorno della liberazione» per Trump, con la messa in atto dei «dazi reciproci» per tutti, l’occhio per occhio del commercio internazionale, tariffe doganali eguali a quelle imposte dagli altri, per tassare «i paesi che ci rubano posti di lavoro, le nostre ricchezze», che «ci hanno rubato molto, amici come nemici, e francamente sovente gli amici sono peggio dei nemici» (la Ue nata «per fregare» gli Usa).
I TITOLI delle case automobilistiche – straniere ma anche statunitensi – hanno sofferto ieri in borsa. Queste minacce di dazi «fanno pesare un’incertezza importante sulle previsioni di crescita», afferma il ministro francese dell’Economia, Eric Lombard. Persino il presidente della Fed, Jerome Powell, ha sottolineato un clima di incertezza «estremamente alto». Il colpo è pesante: gli Usa importano la metà delle auto vendute, per un valore nel 2024 di 214 miliardi. La mossa rischia un effetto inflazionistico, gravando sui prezzi, gli Usa aspettano 100 miliardi di entrate per i dazi. L’attacco, che mira alla Cina (125% di dazi), torna a colpire il Messico, da cui proviene il 16,2% delle auto vendute negli Usa, perché molti costruttori hanno delocalizzato per approfittare del costo del lavoro più basso.
I COSTRUTTORI USA, che hanno espresso subito preoccupazione, hanno ottenuto che i dazi vengano imposti solo sul prodotto finito e limitatamente alla parte non made in Usa, evitando una tassazione a ogni movimento delle componenti. Persino Elon Musk giudica un effetto «non trascurabile» sui costi per
Leggi tutto: I dazi Usa affossano l’auto su entrambi i lati dell’Atlantico - di Anna Maria Merlo
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