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Israele Non si tratta solo di trauma ma di un modello profondamente radicato: la reazione dominante nel pubblico israeliano è il desiderio di ripristinare l’illusione di immunità

Una fotografia aerea di Jabaliya rasa al suolo Ap/Mohammad Abu Samra Una fotografia aerea di Jabaliya rasa al suolo – Ap/Mohammad Abu Samr

Questo testo, rivolto all’opinione pubblica israeliana, è stato pubblicato due settimane fa con un senso di urgenza: la guerra poteva riprendere in qualsiasi momento. È successo. Ma questa non è solo una continuazione della guerra: tutti i segnali indicano che i piani per l’espulsione di massa dei palestinesi fa Gaza non sono stati abbandonati.

I preparativi sono stati compiuti e i portavoce del governo israeliano hanno apertamente dato voce alla minaccia. È impossibile dire con certezza se l’esercito israeliano e i suoi alleati alla Casa bianca saranno davvero in grado di procedere con le espulsioni, se regimi arabi e altri paesi si arrischieranno a cooperare con un simile crimine, ma sarebbe irresponsabile ignorare un pericolo di tale proporzioni.

Per il movimento dei coloni – il più potente blocco della politica israeliana con ardenti sostenitori dentro l’esercito – ottenere anche un’espulsione parziale dei palestinesi rappresenterebbe un traguardo che cambierebbe radicalmente i termini della questione palestinese. Campagne per espellere i palestinesi, e in particolare i rifugiati e i loro discendenti, da Gaza si sono già verificate nel ’67-’68 e tra il 1971 e il ’73. Oggi, tuttavia, i palestinesi vivono una fondamentale congiuntura di condizioni locali e globali, una campagna spietata di sgombero e pieno sostegno imperiale, senza precedenti dal 1948. Sarebbe tragico se si permettesse, se la gente di tutto il mondo, sempre più stanca dei bombardamenti indiscriminati, non comprendesse l’importanza di quanto sta avvenendo.

Il nocciolo della questione è la reciprocità. C’è reciprocità positiva quando le persone si fanno favori a vicenda, e c’è reciprocità negativa quando si scambiano colpi. È un meccanismo sociale di base la cui antica regola è semplicemente: «Ciò che è odioso per te, non farlo al tuo prossimo». Non occorreva essere un grande pensatore per capire che maltrattare, affamare e torturare i prigionieri palestinesi mette a repentaglio la vita dei prigionieri israeliani. È ciò che accade anche nelle guerre “ordinarie”, quando il benessere dei prigionieri di guerra di una parte è collegato al benessere di quelli dell’altra parte. Questo è certamente il caso di una guerra che è iniziata con un crimine di guerra: la presa di ostaggi civili, dopo decenni di oppressione e abusi sui civili di Gaza.

Come è possibile che coloro che erano in grado di fare questo semplice calcolo, ovvero che il peggioramento degli abusi sui palestinesi metteva in pericolo gli ostaggi, non siano riusciti a farlo?

Forse è perché la mentalità che nega completamente il principio di reciprocità nelle relazioni sociali e politiche ha preso piede in Israele da decenni. In Israele puoi mangiare a sazietà mentre dall’altra parte della barriera i cittadini di Gaza devono arrangiarsi con le razioni di pasta assegnate loro e niente di più. In Israele c’è elettricità e acqua corrente; a Gaza, i genitori pregano di poter superare l’inverno senza elettricità e acqua potabile. In Israele viviamo in relativa sicurezza e dall’altra parte vivono nel terrore dei bombardamenti e delle incursioni notturne.

La negazione della reciprocità negativa ha dato origine alla grandiosa illusione che avremmo potuto colpire duramente l’altra parte senza pagare e che avremmo potuto infliggere immense sofferenze senza conseguenze. Occupazione di lusso, una politica di unilateralismo. Noi siamo immuni; loro sono vulnerabili.

L’illusione più pericolosa dei padroni è pensare di non dipendere dai loro servi e che i loro servi non siano esseri umani come loro. Sì, l’occupazione ci ha trasformati, proprio come ha detto Yeshayahu Leibowitz, in una nazione di padroni. La supremazia ha un prezzo. La guerra ha incrinato questo senso di immunità e predominio. Era realistico aspettarsi che, sulla scia del terribile choc, ci saremmo scrollati di dosso il suprematismo e avremmo riconosciuto la reciprocità come condizione di vita fondamentale, buona o cattiva? Non ne sono sicuro. I crimini di guerra del 7 ottobre hanno seminato la paura nei cuori delle persone e il trauma può far perdere la ragione alle persone. Ma non si tratta solo di trauma. Si tratta di un modello profondamente radicato: la reazione dominante nel pubblico israeliano è stata e rimane un immenso desiderio di rinnovare la loro vecchia padronanza e di ripristinare l’illusione di immunità.

È vero, non c’è simmetria: qualsiasi danno a una popolazione civile – bombardamenti e rapimenti, spostamenti, uccisioni e ferimenti, fame ed espulsioni – è fondamentalmente sbagliato. Ma la capacità di Israele di infliggere sofferenze – distruggere intere città, spostare centinaia di migliaia di persone, uccidere, far morire di fame ed espellere – è di gran lunga maggiore della capacità delle organizzazioni armate palestinesi e libanesi. La regola empirica in Israele è sempre stata che il prezzo che si esige deve essere incommensurabilmente più alto della sofferenza e del dolore causati dall’altra parte. Così, dopo il 7 ottobre, tra gli israeliani si è diffusa l’aspettativa di un ripristino del dominio e della supremazia attraverso una vendetta mascherata da espressione di reciprocità: «L’hanno fatto a noi, lo faremo a loro». I politici hanno fomentato il sentimento e i generali lo hanno cavalcato in battaglia e usato per giustificare raid indiscriminati. Ma il contrattacco, come è divenuto presto chiaro, non è stato solo un altro spargimento di sangue, ma qualcosa di completamente diverso: una guerra progettata per eliminare l’avversario, per rompere il cerchio della reciprocità, per quanto terribile, verso un nuovo orizzonte: espulsione e distruzione.

Questa guerra distruttiva è guidata da un terribile mix di logica di vendetta reciproca e di immaginazione di poter somministrare «il colpo finale» che porrà fine a ogni reciprocità. Questa è la visione: fumo che si alza da edifici distrutti e città in rovina e silenzio da un orizzonte all’altro. Il silenzio di un cimitero. In effetti, «un popolo che vive da solo». Ecco perché non c’è fine a questa guerra. Non c’è via di fuga dalla reciprocità, nemmeno tra parti diseguali. Chiunque cerchi di sfuggirvi rischia di lacerare il tessuto della vita umana. E come se non bastasse, una guerra alimentata da questa miscela esplosiva promuove a posizioni di leadership coloro che credono veramente che sia possibile spezzare i legami dell’umanità: i messianici e i pazzi, i seguaci dell’antico comandamento «distruggere, uccidere e annientare». Ma i palestinesi non scompariranno. Non qui, non a Gaza, non in Cisgiordania, non in esilio. E nemmeno il Medio Oriente scomparirà.

La negazione della reciprocità ci sta preparando al prossimo disastro, al prossimo atto di vendetta e a un altro passo attorno al cerchio della morte, perché tutte le nostre vite sono dipendenti e interconnesse. Chiunque dica «non ci sono innocenti a Gaza» deve capire che le sue parole giustificano chi dice «non ci sono innocenti in Israele». E io insisto che ci sono. Chiunque abbia detto che non ci sono civili non coinvolti a Gaza è invitato a riflettere sul fatto che adottare il principio che non ci sono innocenti possa avere conseguenze terribili per il benessere della gente comune.

E chiunque dica che i crimini dei palestinesi giustifichino qualsiasi misura dimentica (o forse non conosce) i crimini commessi da Israele su richiesta di governi eletti in elezioni relativamente libere.

Niente può eliminare la reciprocità. Se non stabiliamo una reciprocità positiva, ci troveremo intrappolati in un sanguinoso ciclo di reciprocità negativa. Gli occupati e gli espropriati potrebbero non essere in grado di resistere alla forza superiore di un esercito, che sta già aspettando le nuove bombe apocalittiche per sostituire quelle già testate su Gaza. Potremmo ricordare, tuttavia, cosa hanno detto gli esperti all’inizio di questa guerra: una parte significativa delle munizioni di Hamas era fatta da resti di munizioni israeliane, da bombe che erano state sganciate su Gaza e non erano riuscite a esplodere.

Ancora più importante, una guerra di sterminio semina un odio mortale. Noi, cittadini dello stato dei padroni, non ne siamo stati immuni e non lo saremo neanche in futuro. Restiamo fragili, umani. Ognuno di noi è tenuto a pagarne il prezzo, specialmente gli indifesi, i deboli e i poveri. «Perché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta».

*Traduzione di Pier Paolo Bastia